news / Verso un rimborso IVA accelerato per i beni non ammortizzabili?
torna alle newsVerso un rimborso IVA accelerato per i beni non ammortizzabili?
Avv. Clino De Ieso
Con l’interessante ordinanza n. 14975/2023, la Sezione tributaria della Corte di cassazione ha chiesto alle Sezioni Unite di fare chiarezza sulle limitazioni del rimborso IVA accelerato. Per effetto di una interpretazione piana e asettica dell’art. 30, terzo e quarto comma, del D.P.R. n. 633/1972, gli effetti anticipati della detrazione, che dunque si producono prima del ribaltamento a valle del bene nelle operazioni attive imponibili, sarebbero riconosciuti soltanto nel caso di acquisto di beni ammortizzabili. In tal caso, l’integrale rimborsabilità dell’imposta sarebbe immediata, mentre, per i beni non ammortizzabili, il rimborso, erogabile per l’ammontare minore del triennio, sarebbe rinviato di tre anni. È una linea interpretativa che, tuttavia, rischia di scontarsi con il principio di neutralità, in quanto crea, sul profilo concorrenziale, una disparità di trattamento fra gli operatori commerciali e, sul profilo economico, un danno finanziario per i soggetti passivi esclusi dal rimborso accelerato: danno che, ovviamente, determina una diminuzione del patrimonio degli operatori, in palese violazione dell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che tutela il diritto di proprietà dei beni acquistati legalmente.
Il sistema IVA è fondato sulla neutralità degli operatori economici che, al pari dell’Erario, non devono sopportare il peso definitivo dell’imposta che, invece, ricade sul consumatore finale, cioè, il vero soggetto passivo dell’IVA. Centrale, nel meccanismo di funzionamento del tributo, è la possibilità per gli operatori di detrarsi immediatamente l’imposta sugli acquisti indipendentemente dall’utilizzo fisico e immediato del bene o servizio purché, almeno prospetticamente, ribaltabile nelle operazioni attive imponibili. Questo diritto di detrazione è, però, limitato nel caso di recupero dell’eccedenza creditoria emersa in sede di dichiarazione. In tal caso, per effetto di una interpretazione piana e asettica dell’art. 30, commi 3 e 4, D.P.R. n. 633/1972, gli effetti anticipati della detrazione sarebbero riconosciuti soltanto nel caso di acquisto di beni ammortizzabili, mentre per quelli non ammortizzabili la rimborsabilità del tributo sarebbe rinviata di tre anni.
L’ordinanza della Suprema Corte n. 14975/2023, in commento, interviene su questo tema sollecitando, in particolare, le Sezioni Unite a fare chiarezza su molteplici aspetti, all’evidenza non del tutto pacifici, di coordinamento fra la detrazione e il rimborso.
Rivelatrice della attuale confusione o commistione fra i due istituti è il contrasto manifestatosi all’interno della Cassazione sui relativi presupposti applicativi ritenuti secondo alcune decisioni strutturalmente identici e, invece, per un altro gruppo di sentenze considerati non perfettamente sovrapponibili attesa la natura alternativa ed eccezionale del rimborso rispetto alla detrazione.
In entrambi gli orientamenti, si annidano dal punto di vista logico-argomentativo diverse imprecisioni che - come si vedrà più avanti - possono essere superate, in via interpretativa, attraverso un attento esame della normativa nazionale senza, però, dimenticare le indicazioni del giudice europeo sempre attento nell’ammonire gli Stati membri a non sconfinare in limitazioni del diritto al rimborso che possano ledere i principi generali dell’ordinamento dell’Unione.
Pertanto, prima di esaminare la specifica questione devoluta alle Sezioni Unite e focalizzata sul tema del diritto al rimborso dell’IVA corrisposta per la realizzazione di opere su beni di terzi, s’impone un tentativo di sistemazione della materia che possa fare da preludio ad una possibile soluzione delle problematiche, emerse nell’ordinanza in esame, volta ad assicurare una piena neutralità economica e concorrenziale fra i soggetti passivi.
Il rimborso non è alternativo alla detrazione
Preliminarmente, merita qualche puntualizzazione la diffusa convinzione che inquadra il binomio detrazione-rimborso in un rapporto di alternatività per cui il credito IVA può essere recuperato con la prima e, in mancanza, con il secondo. Sul punto, appiano opportune alcune precisazioni. Anzitutto, l’alternanza fra i due istituti non sembra sostenibile alla luce del tessuto normativo nazionale. La Legge IVA italiana è lineare nel prevedere che il soggetto passivo possa recuperare il credito IVA, che nasce con l’effettivo acquisto di un bene o servizio, attraverso la detrazione il cui esercizio è subordinato al possesso della fattura, alla sua rituale registrazione, nonché all’esigibilità dell’imposta.
Al verificarsi di queste condizioni, l’operatore economico procede in sede di liquidazione ad una compensazione interna che, ove l’ammontare del credito IVA sia maggiore dell’imposta a debito, può generare una eccedenza creditoria recuperabile, a sua volta, con differenti modalità all’avverarsi di specifici presupposti. Si tratta, in particolare (i) del riporto a nuovo nella dichiarazione dell’anno successivo, in modo da effettuare un’altra compensazione interna con l’imposta che risulterà a debito (ii) della compensazione orizzontale con altri tributi (iii) del rimborso nel sistema IVA ex art. 30 del D.P.R. n. 633/1972.
Questa sintetica ricostruzione schematica, seppur sommaria, dimostra come il rimborso sia alternativo soltanto alle modalità di recupero (riporto a nuovo e compensazione orizzontale) e non, invece, alla detrazione a cui è legata da un nesso di pregiudizialità-dipendenza. Difatti, il rimborso, essendo la conseguenza della detrazione, presuppone l’avveramento sia di una condizione “esterna”, per l’appunto, l’esistenza del diritto alla detrazione, sia delle ulteriori condizioni “interne” previste dall’art. 30 citato.
Le diverse finalità del rimborso dentro il sistema
Si è fatto cenno ai requisiti dell’art. 30 del D.P.R. n. 633/1972 per la richiesta di rimborso, mediante la presentazione della dichiarazione IVA. Anche senza approfondire una tematica tanto complessa, si può comunque rilevare che le fattispecie individuate dalla norma sono piuttosto disomogenee essendo, del resto, ispirate da diverse finalità. Ad esempio, nel caso di cessazione dell’attività il soggetto passivo può richiedere integralmente il rimborso, senza alcun limite quantitativo, avuto riguardo all’impossibilità di riportare a nuovo il credito IVA nella dichiarazione dell’anno successivo. In altri casi la richiesta di rimborso, se superiore alla somma di euro 2.582,28, è ammessa per gli operatori che, trovandosi costantemente a credito nei confronti dell’Erario, non possono utilizzare l’eccedenza creditoria per compensarla con l’IVA addebitata sulle operazioni attive. Differente è, invece, la ratio sottesa alla possibilità per il soggetto passivo di richiedere il rimborso dell’imposta, sempre che non sia inferiore all’importo di euro 2.582,28, per l’acquisto di beni ammortizzabili.
Secondo l’Agenzia delle entrate, “La norma in questione [cioè, l’art. 30, comma 3, lett. c], che riguarda quegli operatori economici che effettuano operazioni di investimento in beni ammortizzabili, è finalizzata ad un più sollecito recupero dell’IVA assolta sui beni acquistati, evitando, in tal modo, un aggravio dell’esposizione finanziaria del contribuente". Particolarmente interessante è la modalità con la quale viene attuato il “sollecito recupero” del credito, vale a dire, attraverso il riconoscimento di un rimborso immediato che si traduce, di fatto, in una anticipazione dell’effetto della detrazione consistente nel ridurre l’IVA a debito dovuta dal soggetto passivo sulle operazioni attive.
D’altronde, nel sistema IVA la detrazione ha una natura, per così dire, finanziaria in quanto è immediatamente esercitabile, ove prospetticamente possibile, anche qualora il bene o servizio acquistato non sia ribaltato a valle nelle operazioni imponibili. Ciò significa che il soggetto passivo può ottenere subito il rimborso integrale dell’IVA per l’acquisto di beni ammortizzabili nonostante il loro utilizzo nel ciclo produttivo dell’attività, che produrrà operazioni attive soggette ad IVA, sia in divenire nei successivi esercizi di funzionamento degli stessi beni.
Al di fuori delle ipotesi retro evidenziate, è facoltà degli operatori richiedere un rimborso che, tuttavia, viene rallentato dalle condizioni più stringenti di cui al comma 4 dell’art. 30 citato, le quali spostano in avanti di tre anni il recupero dell’imposta (limite temporale) in misura non superiore al minore del triennio (limite quantitativo). È evidente, come messo in risalto dalla giurisprudenza, che i destinatari del comma 4 sono le “imprese in piena attività che hanno, cioè, la possibilità di recuperare l’imposta assolta sugli acquisti e sulle importazioni nel corso delle future operazioni imponibili”. Viceversa, le “imprese” che “hanno cessato l’attività o che sono fallite e che, quindi, versano nell’impossibilità di effettuare ulteriori operazioni imponibili, debbono necessariamente ricorrere all’istituto del rimborso per il recupero dei loro crediti d’imposta, con la conseguenza che, se tale diritto venisse loro negato, si procurerebbe, tra l’altro, un indebito arricchimento dell’Erario. La profonda ingiustizia che ne risulterebbe basta da sola a respingere il sospetto di illegittimità costituzionale della norma sollevato dall’Avvocatura”. Dopo questo rapida analisi teorica dell’art. 30, commi 3 e 4, sembra chiaro che il meccanismo di rimborso tramite la dichiarazione rappresenta uno strumento ordinario in quanto si colloca all’interno del sistema contabile dell’imposta al fine di consentire - come osservato in dottrina - ad “un’impresa sana” il recupero di un “credito d’imposta” determinato, “in linea di massima, da alcuni fenomeni spesso ricorrenti nella gestione aziendale oppure dalla struttura stessa del tributo e cioè da: investimenti eseguiti nell’anno, aumento delle giacenze, differenza di aliquota tra gli acquisti e le vendite, esportazioni”.
Si percepisce, da questa osservazione, che l’eccezionalità del rimborso ex art. 30 cit., più volte evocata negli interventi della Cassazione, non è riferita alla procedura del rimborso che resta di natura ordinaria in quanto incanalato nella disciplina del tributo, ma è legato alla circostanza, per l’appunto, eccezionale, che gli acquisti siano maggiori delle vendite. “Si tratta, come è ovvio, di una condizione atipica, poiché nel regolare l’esercizio di un’attività d’impresa le operazioni attive dovrebbero superare quelle passive”. Una simile puntualizzazione è quanto mai opportuna, considerato che una inesatta qualificazione del rimborso, come meccanismo eccezionale anziché ordinario, potrebbe prestare il fianco a pericolose interpretazioni della norma viziate da possibili derive interpretative funzionali ad una ingiustificata restrizione del diritto al rimborso e, dunque, della detrazione.
La questione di diritto devoluta alle Sezioni Unite
Le osservazioni appena svolte sono propedeutiche all’esame dell’ordinanza in commento relativa ad un contenzioso promosso da un soggetto passivo, esercente l’attività di agriturismo, contro un atto di recupero del credito IVA emesso dall’ente impositore. Ai fini della controversia, è rilevante individuare le fattispecie che possono ricadere nella sfera applicativa del richiamato art. 30, comma 3, lett. c).
L’Agenzia delle entrate ritiene che il limite oggettivo della norma sia definito, in via esclusiva, dall’IVA versata per l’acquisto di beni ammortizzabili intesi, ai sensi degli artt. 102 e 103 del T.U.I.R., come i “beni strumentali all’attività di impresa di cui gli esercenti hanno il possesso o la titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale”. Di conseguenza, secondo l’ente impositore, l’imposta non sarebbe rimborsabile in quanto riferita a “lavori [che] sono stati eseguiti su beni di terzi e quindi relativamente a beni non ammortizzabili” ai sensi del T.U.I.R.
Difforme è la posizione del giudice di appello che, nel confermare la sentenza di primo grado favorevole al contribuente, ha riconosciuto il diritto al rimborso avuto riguardo all’inerenza fra “le opere realizzate su beni di terzi e l’attività di impresa esercitata”. Conclusione che ha come base di appoggio il principio stabilito dalle Sezioni Unite, in materia di detrazione, con la sentenza n. 11533/2018: “Deve riconoscersi il diritto alla detrazione IVA per lavori di ristrutturazione o manutenzione anche in ipotesi di immobili di proprietà di terzi, purché sia presente un nesso di strumentalità con l’attività d’impresa o professionale, anche se quest’ultima sia potenziale o di prospettiva. E ciò pur se - per cause estranee al contribuente - la predetta attività non abbia poi potuto concretamente esercitarsi”.
Trattasi, secondo quanto precisato dalle Sezioni Unite, di “una soluzione mediana - anche recentissimamente reiterata” dalla “giurisprudenza unionale” - “del tutto coerente con il carattere tendenzialmente assoluto del principio di neutralità dell’imposta come costantemente predicato dalla medesima Corte di Giustizia”.
Questo passaggio merita di essere approfondito, in quanto necessita di alcune distinzioni connesse al principio di neutralità che può assumere diversi significati.
Il più noto è la neutralità economica che garantisce al soggetto passivo, chiamato a riscuotere l’IVA per conto dell’Erario di non restare definitivamente inciso dall’imposta nell’ambito della sua attività soggetta ad IVA a prescindere dallo scopo o dai risultati della medesima attività. “Tuttavia”, in questa accezione, “il principio di neutralità fiscale non è una norma di diritto primario, ma un principio interpretativo che deve essere applicato insieme ad altri principi, tra cui quello della certezza del diritto”. Tant’è che nella decisione del 7 luglio 2022, riguardante la causa C-194/21, i giudici europei hanno negato il diritto alla detrazione in capo all’operatore a cui, pertanto, è rimasto il peso dell’IVA avendo colpevolmente lasciato scadere il termine decadenziale per l’esercizio della detrazione.
Come si vede, nel bilanciare gli opposti interessi dell’Erario e degli operatori commerciali, la Corte ha ritenuto che dovesse prevalere la certezza del diritto (decadenza) sulla neutralità. Va, però, evidenziato che nel richiamato arresto delle Sezioni Unite la neutralità è declinata in un’altra prospettiva. Precisamente, come principio di neutralità concorrenziale posto a tutela dei soggetti passivi i quali devono poter operare, nel mercato dell’Unione, senza che l’imposta si trasformi in un fattore che possa arrecare ad essi un vantaggio o uno svantaggio economico-finanziario rispetto agli altri operatori. L’obiettivo di questo principio è chiaro: evitare il rischio di iniquità sotto il profilo della parità di trattamento fra i soggetti passivi e, di conseguenza, trattare le situazioni simili (quindi, tra loro comparabili) nello stesso modo e, invece, non trattare in maniera identica le situazioni diverse, a meno che un tale trattamento non sia oggettivamente giustificato. Valga, a riguardo, il monito dei giudici europei che, nel mettere in guardia gli Stati membri dalla tendenza ad introdurre delle deroghe al funzionamento dell’imposta stabilito dalla Direttiva, hanno messo in evidenza che “uno strappo alla neutralità concorrenziale” è ammessa soltanto in casi eccezionali.
Si converrà che senza questa digressione, utile per chiarire le varietà di sfumature intorno al principio di neutralità, sarebbe stato difficile cogliere il senso profondo dell’amletico quesito posto con l’ordinanza in commento alle Sezioni Unite: riconoscere o non riconoscere il rimborso dell’IVA assolta per beni non ammortizzabili che sono inerenti all’attività economica? Per tentare di offrire una risposta concreta all’interrogativo non può essere sufficiente esaminare l’eccezione sollevata dall’Avvocatura dello Stato che, in sede di ricorso in cassazione, ha criticato la sentenza di appello per avere ritenuto l’IVA rimborsabile sulla base della sola esistenza della detrazione senza, quindi, verificare l’avveramento delle condizioni proprie del diritto al rimborso. Certo, il motivo dedotto dalla difesa erariale coglie nel segno visto che, come sopra evidenziato, manca una identità di presupposti applicativi fra la detrazione e il rimborso, sicché il giudice d’appello avrebbe dovuto compiere un accertamento anche sui requisiti di rimborsabilità ex art. 30 del D.P.R. n. 633/1972.
Ma tale censura non sembra risolutiva per concludere nel senso che il dispositivo della sentenza di secondo grado, favorevole al contribuente, non sia allineato alle indicazioni della giurisprudenza europea in materia di rimborso. Questo è l’aspetto - infra analizzato - che maggiormente interessa visto che la Suprema Corte potrebbe limitarsi a correggere la motivazione, qualora ritenesse che il dispositivo della decisione “sia conforme al diritto”.
I possibili scenari interpretativi
Sembrano configurabili, in astratto, due possibili soluzioni alla questione posta dall’ordinanza in commento. In un primo scenario, si potrebbe confermare l’orientamento, maggiormente aderente al tenore letterale dell’art. 30 D.P.R. citato, che concede il rimborso integrale immediato ai soli acquisti di beni ammortizzabili. È una linea interpretativa che, però, rischia di alimentare un conflitto con l’ordinamento unionale. Occorre, infatti, chiedersi se il rinvio di tre anni della rimborsabilità dell’imposta per i beni non ammortizzabili, peraltro fino a concorrenza dell’importo minore del triennio, possa scontrarsi con il principio di neutralità concorrenziale.
Come si è visto, l’art. 30, lett. c) non ha una finalità antielusiva in quanto mira ad agevolare il recupero dell’IVA assolta per l’acquisto di beni ammortizzabili a prescindere dall’utilizzo (fisico e immediato) dei medesimi beni nella produzione di corrispettivi soggetti ad imposta. E con ciò si ritorna alla cruciale domanda: per quale ragione, in assenza di condotte fraudolente o abusive, la misura agevolativa di cui alla lett. c), che anticipa gli effetti della detrazione prima del ribaltamento dei beni nelle operazioni attive a valle, non è applicabile ai beni non ammortizzabili inerenti all’attività d’impresa?
La questione è, perciò, estremamente delicata atteso che l’esclusione ingiustificata di alcuni soggetti passivi dal diritto al rimborso potrebbe far emergere arbitrarie disparità di trattamento a svantaggio, per esempio, degli operatori che si trovano a gestire considerevoli quantitativi di scorte di magazzino alle quali è riconosciuta la detrazione, sebbene il ribaltamento avvenga in periodi di imposta successivi. Oppure, come si è fatto notare in dottrina, risultano penalizzate “quelle società che per oggetto sociale effettuano ingenti investimenti per la realizzazione di progetti che prevedono notevoli investimenti su beni di terzi, maturando credito IVA in quanto la produzione dei ricavi avverrà solo ad ultimazione del progetto. Tale circostanza per la società risulta avere - evidentemente - un impatto negativo a livello finanziario in quanto, la stessa, non producendo ricavi, non ha la possibilità di portare l’IVA a credito in detrazione costituendo di fatto un onere oltre che un rischio finanziario”.
Diventa, quindi, dirimente ai fini della soluzione al quesito devoluto alle Sezioni Unite sondare l’esistenza di una valida giustificazione che consenta di introdurre, tramite la lett. c) dell’art. 30 citato, una deroga alla neutralità concorrenziale: deroga che, in ogni caso, non può giustificarsi con la scusante, spesso argomentata, di modellare la disciplina IVA sulla nozione di bene ammortizzabile definita dal T.U.I.R. Tralasciando il fatto che la giurisprudenza europea vieta le “contaminazioni da altri settori fiscali”, è utile chiarire come a differenza del settore delle imposte dirette, ove la deduzione del costo del bene ammortizzato avviene in modo frazionato in virtù del suo utilizzo pluriennale, nel sistema IVA è ammessa la detrazione finanziaria, cioè, istantanea della spesa sostenuta salvo, ovviamente, la rettifica ex post dell’importo inizialmente detratto ove il bene acquistato non si ribalta sulle vendite imponibili.
Conclusivamente, si può ritenere che le Sezioni Unite, in assenza di quella eccezionale giustificazione allo “strappo” della “neutralità concorrenziale”, dovrebbero - ed è questo il secondo scenario ipotizzabile - allargare la via stretta del rimborso ex art. 30, lett. c) anche ai beni non ammortizzabili inerenti all’attività d’impresa.
E non sarebbe la prima volta, dato che la Cassazione, seppur in riferimento ad una diversa problematica connessa ai beni ammortizzabili acquistati in leasing dall’utilizzatore, ha già ampliato in via interpretativa i confini oggettivi del rimborso ex art. 30, lett. c) al fine di forgiare un regime IVA nazionale che assicuri una parità di trattamento fra gli operatori commerciali.
Del resto, come ricordato nella ordinanza in esame, la Direttiva concede ai legislatori nazionali una libertà di manovra nello stabilire le condizioni pratiche del rimborso IVA che, tuttavia, non devono creare alcun rischio finanziario al soggetto passivo tranne per prevenire il rischio di abusi. In quest’ottica, un ingiustificato rinvio di tre anni del rimborso violerebbe apertamente anche la neutralità economica che si fonda sulla detrazione finanziaria-immediata ex artt. 19 ss. D.P.R. n. 633/1972 la quale, nel caso, sarebbe limitata e, dunque, rallentata per i beni non ammortizzabili dal comma 4 dell’art. 30 citato a differenza dei beni ammortizzabili per i quali, invece, viene concesso un rimborso integrale e, quindi, accelerato con la specifica previsione dell’art. 30, lett. c).
A parte l’illogicità e l’incoerenza di questa ricostruzione sistematica che conduce ad un trattamento IVA diverso fra situazioni simili (violazione della neutralità concorrenziale), appare indubbio che lo spostamento in avanti del recupero del credito IVA per i beni non ammortizzabili confligge con la neutralità economica, nella misura in cui determina una diminuzione del patrimonio del soggetto passivo in violazione dell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che tutela il diritto di proprietà dei beni acquistati legalmente.
Fonte: Corriere Tributario, n. 11, 1 novembre 2023, p. 953
Avv. Clino De Ieso, Avvocato Tributarista cassazionista, Partner Studio Legale Tributario Centore