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Soggetto ad imposizione il corrispettivo percepito per l’attività illecita di emissione di fatture false

Avv. Alberto Renda

Penale Tributario

Premessa

La vexata quaestio della tassazione dei proventi illeciti, della quale continua ad occuparsi la giurispru-denza della Corte di Cassazione, consente di soffermarsi non soltanto sui criteri di imposizione dei proventi, ma anche sugli effetti che atti quali la confisca o la restituzione delle somme percepite possono avere sulla tassazione del soggetto che è tenuto a neutralizzare gli incrementi reddituali derivanti dall’attività illecita.
Considerato che il presupposto impositivo, secondo il legislatore, viene meno nel caso dell’applicazione di misure penali che privino il contribuente dell’arricchimento patrimoniale derivante dal compimento dell’atto o dell’attività illeciti, ci si interroga sulle soluzioni perseguibili in tali circostanze.

La fattispecie oggetto della pronuncia

La giurisprudenza di legittimità torna periodicamente sull’interpretazione delle disposizioni sulla tassa-zione dei proventi illeciti, di cui all’art. 14, comma 4, della Legge 24 dicembre 1993, n. 537, che ven-gono specificamente assunte quali parametri essenziali di riferimento ai fini della soluzione di una problematica che, se tutt’oggi è oggetto di provvedimenti giurisdizionali, evidentemente non trova uni-formità di vedute tra gli operatori chiamati a gestirne i differenti risvolti applicativi . I punti cardine di tale problematica, che preme qui rapportare alle decisioni adottate dall’ordinanza n. 2615/2023 in commento, sono essenzialmente tre e riguardano, la questione della tassabilità o meno dei proventi illeciti, quella dei criteri di tassabilità in concreto di siffatti proventi, e quella, infine, dei rapporti fra la tassazione di questi proventi e l’adozione di misure sanzionatorie come la confisca o la condanna alla restituzione delle somme illecitamente incassate. Venendo, nello specifico, all’oggetto della pronuncia della Corte di cassazione, la lettura della motiva-zione consente di riassumere nei seguenti termini i principi in essa enucleati. Qualora una società di capitali - o un soggetto contribuente esercente attività di impresa, arte o profes-sione - abbia apparentemente il solo scopo di creare falsa fatturazione attiva e passiva per simulare un volume d’affari, in realtà inesistente, oggetto dell’imposizione diretta non sono i ricavi, pacificamente non esistenti, risultanti della contabilità riconosciuta fittizia, ma il reddito sinteticamente determinato, sulla base dei dati comunque venuti in possesso dell’Ufficio e con l’uso di presunzioni, anche prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. Le norme sull’imposizione diretta, ispirate all’art. 53 Cost., non contemplano ipotesi di responsabilità fiscale “oggettiva” sganciata dalla esistenza di un red-dito effettivo, e non è consentito al giudice tributario, investito del ricorso contro l’accertamento anali-tico, procedere di sua iniziativa alla determinazione induttiva dell’utile di gestione. Sul punto, evidenzia la Cassazione, in tema di imposte sui redditi, per quanto riguarda la falsa fattura-zione, il citato art. 14 della Legge n. 537/1993, laddove stabilisce che nelle categorie di reddito di cui all’art. 6 del T.U.I.R. devono ritenersi compresi i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, costituisce non solo interpretazione autentica della nor-mativa contenuta nel citato Testo Unico, ma anche criterio ermeneutico decisivo per giungere ad iden-tica conclusione con riguardo alla previgente disciplina degli artt. 1 e 6 del T.U.I.R., stante la sostanzia-le identità della disciplina in relazione all’individuazione dei presupposti della tassazione . Di conseguenza, il c.d. pretium sceleris nel caso di specie deve identificarsi nella percezione da parte del soggetto che ha costituito la società “cartiera” di un corrispettivo illecito versato per l’emissione delle false fatture; proprio il predetto corrispettivo deve quindi essere considerato come reddito impo-nibile e tale tassazione deve verificarsi anche se il contribuente sia stato condannato alla restituzione delle somme incassate in modo illecito ed al risarcimento del danno. La ratio decidendi della decisione della Cassazione può dunque riassumersi come segue: se un contrat-to è nullo per illiceità della causa, ed è evidentemente nullo il contratto tra due soggetti finalizzato alla “produzione” di fatture false per operazioni inesistenti verso il pagamento di un corrispettivo, ma il lu-cro da esso derivante si consolida nelle mani del percettore (perché il corrispettivo, una volta pagato, è irripetibile), tale lucro è ricchezza reale e riconosciuta ed assume i connotati di reddito tassabile.

L’imposizione sul reddito dei proventi derivanti da attività illecita

In materia di imposte dirette può quindi rilevarsi che non esiste un principio generale che possa esclu-dere la tassabilità delle attività illecite. Posta tale premessa, e volendo individuare i tratti distintivi della tassazione delle predette attività, è possibile riscontrare che la fonte dell’arricchimento da attività illecita è costituita dalla combinazione di due fattori, nessuno dei quali, per sé solo, risulta connotato dei caratteri indispensabili per trasfor-mare una semplice entrata in reddito mobiliare, derivante da una qualificata fonte produttiva. Tali fattori sono costituiti: (i) dall’acquisizione dell’arricchimento, costituito dal corrispettivo dell’attività illecita, che, come rilevato, è identificabile nel caso de quo nel prezzo pattuito tra le parti per l’emissione di fatture false e (ii) dall’operare del principio della soluti retentio, che è appunto iden-tificabile nella impossibilità per il soggetto che versa spontaneamente il corrispettivo di richiedere la restituzione di quanto pagato dal “committente” dell’attività illecita e, quindi, di agire giudizialmente per la tutela del credito insoddisfatto . L’arricchimento ottenuto dal soggetto che pone in essere l’attività illecita costituisce novella ricchezza e, quindi, reddito, in quanto la condotta del soggetto, che configura un’attività a contenuto negoziale, condiziona il risultato conseguito dallo stesso, comportando che il predetto arricchimento sia suscetti-bile di tassazione con la relativa imposta. È possibile, pertanto, ritenere che, se il reddito viene generalmente definito come un (i) incremento pa-trimoniale (ii) di immediata e diretta derivazione da una fonte produttiva, ai fini della imposta sul red-dito risulta rilevante ogni nuova ricchezza, scaturente da una qualsiasi fonte produttiva, sia essa lecita o illecita, fatta eccezione per gli arricchimenti aventi funzione meramente risarcitoria o reintegrativa delle perdite patrimoniali, in quanto manca una fonte produttiva riconducibile al beneficiario . Conseguentemente, affinché i proventi derivanti dalla attività illecita siano assoggettabili all’imposta sul reddito delle persone fisiche, è necessario che essi possano qualificarsi come reddito. In questo senso, come rilevato in dottrina, gli atti privi di assetto negoziale commutativo, ma ricondu-cibili a mere spoliazioni patrimoniali, come il furto, la rapina, l’estorsione, non possono essere assimi-lati a fattispecie imponibili, in quanto il trasferimento di ricchezza non presuppone una contropartita. Non sussiste in questi ultimi casi un’attività negoziale, ma un mero trasferimento patrimoniale.

La classificazione dei proventi di fonte illecita nell’ambito delle categorie reddituali

Una volta individuato un reddito tassabile, è necessario individuare le modalità di tassazione dello stesso, ma la norma speciale non stabilisce, in proposito, una classificazione peculiare dei proventi da attività illecita, riconducendoli al sistema ordinario di imposizione reddituale. Pertanto, trovano appli-cazione le regole ordinarie di identificazione del reddito imponibile sulla base della disciplina propria di ciascuna categoria reddituale. Come, infatti, ribadito dalla decisione in commento, la percezione di un compenso derivante dallo svolgimento di un’attività illecita non può sottrarsi ad imposizione quale reddito diverso. Il rinvio genericamente operato dai giudici di legittimità alla determinazione del reddito secondo le re-gole proprie della categoria dei redditi diversi non deve, tuttavia, far pensare che i redditi di prove-nienza illecita siano comunque classificabili tra quelli diversi, posto che, come rilevato, la tassazione di tali proventi dipende comunque dalla qualificazione tributaria della fonte produttiva secondo la lo-gica della nozione di reddito emergente nel sistema. In questo contesto si inserisce anche la norma di interpretazione autentica, di cui all’art. 36, comma 34-bis, D.L. 4 luglio 2006, n. 223, che precisa che, laddove il pretium sceleris non può essere ricon-dotto in una delle categorie dell’art. 6 T.U.I.R., esso comunque dovrà essere qualificato come reddito diverso e dunque essere assoggettato a tassazione secondo le regole dell’art. 67 T.U.I.R... Tale norma, che include, tra gli altri, i redditi derivanti da attività commerciali e di lavoro autonomo non esercitate abitualmente o qualsiasi reddito derivante dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere, tuttavia, non impone di tassare comunque i proventi illeciti non riconducibili ad alcuna ca-tegoria reddituale, ma andrebbe letta nel senso di considerare i redditi diversi come “contenitore resi-duale” al quale ricondurre le fattispecie dubbie che, pur rimanendo ancorate ad una fonte produttiva, sono carenti di un elemento strutturale necessario per la loro qualificazione fiscale e, pertanto, seguo-no le regole di imposizione proprie della categoria dei redditi diversi . Nella verifica sull’eventuale assoggettamento ad imposizione dei proventi illeciti anche il giudice do-vrà quindi, in primo luogo, accertare se il provento è riconducibile a fonti produttive assimilabili a quelle rappresentate dalle specifiche categorie reddituali e, successivamente, una volta individuata la fonte, dovrà riscontrare se la tassazione è avvenuta secondo le regole proprie della categoria che in-clude quella specifica fonte di reddito, vale a dire il lavoro autonomo, l’attività imprenditoriale, il reddito di lavoro dipendente, ecc. Sarebbe dunque errata un’interpretazione della norma che, al fine di evitare di inquadrare correttamente le regole di determinazione dell’imponibile correlate al provento illecito, si rifugi nella semplicistica classificazione del reddito tra quelli diversi. Nel caso deciso dai giudici di legittimità non è possibile verificare dal testo della motivazione dell’ordinanza se il soggetto sottoposto ad accertamento esercitasse abitualmente o occasionalmente l’attività illecita di emissione di fatture per operazioni inesistenti e se per svolgere detta attività si avva-lesse o meno di una struttura produttiva o comunque di un’organizzazione di mezzi e capitali. A tal proposito, la necessità ravvisata dal legislatore di “costringere” i proventi illeciti nelle categorie di cui all’art. 6 può ritenersi efficace se accompagnata da un’interpretazione delle regole di determina-zione del reddito d’impresa o di lavoro autonomo che non escluda la rilevanza dei costi derivanti da attività illecite nonché la deducibilità delle sanzioni, rendendo la neutralità dell’illecito un principio ge-nerale che rilevi non soltanto per la tassazione dei proventi, ma anche per la deduzione dei correlati costi. Esulerebbe da questo inquadramento sistematico la sola disciplina dell’indeducibilità dei costi da reato, di cui al citato art. 14 della Legge n. 537/1993, che circoscrive le ipotesi di indeducibilità, ai fini delle imposte sui redditi, ai soli costi e spese relativi a beni o prestazioni di servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per i quali il Pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale, ovvero il giudice dell’udienza preliminare abbia emesso il decreto che dispone il giudizio o, ancora, sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione del reato.

La condanna alla restituzione delle somme illecitamente incassate e gli effetti sull’imposizione

Un ulteriore aspetto sul quale occorre soffermarsi, in quanto esaminato dalla pronuncia in commento, ancorché incidenter tantum, concerne l’imponibilità del pretium sceleris anche nei casi in cui il contri-buente sia stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate ed al risarcimento dei danni cagionati. Nell’interpretazione della giurisprudenza di legittimità, tale assunto troverebbe giustificazione nella cir-costanza secondo la quale la condanna alla restituzione è un fatto che, in linea di principio, non può influire sulla nascita della obbligazione tributaria, perché, logicamente e cronologicamente, è successi-vo al verificarsi del presupposto d’imposta dal quale deriva la obbligazione; in ipotesi, l’atto restituto-rio potrebbe rilevare successivamente nell’anno di competenza, se ed in quanto previsto come perdita deducibile e documentata. Inoltre, il fatto che ci sia stata la condanna alla restituzione ed al risarcimento non significa che la sen-tenza sia stata anche eseguita e, quindi, non vi è prova che l’incremento di ricchezza, lecito od illecito che fosse, sia stato “azzerato”, ammesso che la regressione finanziaria potesse incidere, retroattiva-mente, nell’anno di imposta oggetto di accertamento o in quelli successivi . L’orientamento della Cassazione, tuttavia, deve essere raffrontato con l’enunciato normativo che esclude la tassazione dei proventi illeciti, se sottoposti a sequestro o a confisca penale. Il presupposto impositivo, secondo il legislatore, viene meno nel caso dell’applicazione di misure pe-nali che privino il contribuente dell’arricchimento patrimoniale derivante dal compimento dell’atto o dell’attività illeciti. Laddove manchi un incremento reddituale in conseguenza dell’applicazione di strumenti di tutela del patrimonio, previsti dal diritto penale, non si realizza la fattispecie imponibile. Tuttavia, l’affermazione, generica, del fatto che, se il provvedimento ablativo travolge il possesso della ricchezza, l’imposizione deve escludersi, pone due ulteriori questioni, una relativa all’analoga sorte dei provvedimenti di condanna alla restituzione delle somme illecitamente incassate, cui si riferisce la de-cisione, l’altra relativa all’estensione temporale minima che la disponibilità della ricchezza deve avere, perché sia definitivamente realizzato il presupposto d’imposta . In primo luogo, la condanna alla restituzione delle somme, di cui all’art. 538 c.p.p., presuppone una decisione del giudice penale a seguito della costituzione di parte civile con la quale la persona offesa dal reato richiede la restituzione del quantum e, quindi, il ripristino della situazione giuridica o di fatto preesistente alla commissione del reato. Secondo la giurisprudenza di legittimità, qualora l’incremento patrimoniale derivante dell’attività illeci-ta non sia effettivo, in quanto il soggetto accertato abbia volontariamente restituito al legittimo titolare i proventi percepiti nell’esecuzione di detta attività, non si realizza il presupposto d’imposta e, dunque, al pari del sequestro e della confisca, non può concretizzarsi la tassazione dei proventi illeciti . Pertanto, considerato che in tutti i casi in cui intervenga un evento, sia esso un sequestro, una confisca o una restituzione volontaria dei proventi imponibili che neutralizzi l’incremento reddituale, l’imposizione prevista dal legislatore non può realizzarsi, anche l’eventuale restituzione dovuta ad una condanna del giudice, dovrebbe essere considerata quale circostanza che esclude l’imposizione. Tuttavia, per espressa disposizione legislativa, i provvedimenti ablatori assumono rilevanza “neutraliz-zante” in quanto “già” intervenuti nel momento in cui si realizza il presupposto impositivo, dovendo individuarsi nella locuzione avverbiale “già”, impiegata dal legislatore, l’elemento indefettibile del collegamento causale richiesto tra fatti fiscalmente rilevanti, cronologicamente consecutivi; nell’unitario periodo fiscale (l’anno d’imposta) al fatto successivamente verificatosi (eliminazione di ricchezza) de-ve potersi attribuire l’effetto di elidere il fatto anteriore (produzione di ricchezza) . Le stesse regole dovrebbero potersi applicare nei casi di restituzione volontaria o indotta da un prov-vedimento del giudice. Ne consegue che, qualora nel corso dell’istruttoria l’ente impositore dovesse accertare che nel mede-simo periodo d’imposta di conseguimento del provento illecito sia intervenuto un evento contrapposto che determina l’insussistenza della una nuova ricchezza, quale un provvedimento di confisca, una re-stituzione volontaria ovvero indotta da un provvedimento giudiziale, nessun atto impositivo dovrebbe essere notificato all’autore dell’illecito, il quale sarebbe comunque onerato della prova della perdita della disponibilità del provento nell’anno di maturazione dello stesso . Se, invece, il provvedimento di sequestro o confisca dovesse intervenire successivamente alla chiusura del periodo d’imposta cui è imputabile il reddito, allora, in coerenza con la tassazione dei proventi le-citi, i proventi illeciti dovrebbero essere assoggettati ad imposizione nel periodo di maturazione, men-tre, successivamente al provvedimento ablativo, sarebbe possibile il rimedio dell’azione di rimborso . Nei casi di restituzione volontaria o conseguente ad una condanna alla restituzione delle somme illeci-tamente percepite, qualora l’evento dovesse realizzarsi in periodi d’imposta successivi a quello di ma-turazione del “reddito”, potrebbero contribuire a “neutralizzare” l’effetto della precedente imposizio-ne, in alternativa all’azione di ripetizione, le disposizioni sulla deducibilità delle somme restituite al soggetto erogatore, se assoggettate a tassazione in anni precedenti (art. 10, comma 1, lett. d-bis, del T.U.I.R.) oppure, per i redditi d’impresa, le disposizioni sulla deducibilità delle sopravvenienze passi-ve relative alla sopravvenuta insussistenza di proventi già tassati in precedenti esercizi (art. 101, com-ma 4, del T.U.I.R.). Le considerazioni che precedono consentono quindi di ritenere che quando la giurisprudenza di legit-timità afferma l’imponibilità del pretium sceleris, anche se il contribuente sia stato condannato alla re-stituzione delle somme illecitamente incassate ed al risarcimento dei danni cagionati, ribadisce la rile-vanza impositiva del provento nel periodo della percezione, nel rispetto del principio di autonomia dei periodi d’imposta, ma, allo stesso tempo, non nega che un successivo ed effettivo evento restitutorio possa assumere rilevanza in termini di riduzione dell’imponibile di periodi d’imposta successivi.

Fonte: Corriere Tributario

Alberto Renda, Avvocato Cassazionista, Dottore di ricerca in diritto tributario delle Società, Docente a contratto di Diritto tributario Università di Teramo, Associato CAT Abruzzo

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