news / Riforma fiscale: dalle società “di comodo” alle società “senza impresa”

torna alle news

Riforma fiscale: dalle società “di comodo” alle società “senza impresa”

Prof. Gianfranco Ferranti

Iva e Dogane

Nel disegno di legge delega per la riforma fiscale è prevista la revisione della disciplina delle società non operative, che dovrà riguardare soltanto quelle “senza impresa”, da individuare anche sulla base dei princìpi elaborati ai fini dell’IVA dalla giurisprudenza della Cassazione e della Corte di Giustizia UE. Dovranno essere, inoltre, determinate cause di esclusione che tengano conto anche dell’esistenza di un congruo numero di lavoratori dipendenti e dello svolgimento di attività in settori economici oggetto di specifica regolamentazione normativa.

  1. Premessa

L’art. 30 della legge n. 724 del 1994 ha introdotto alcune penalizzazioni intese a contrastare l’utilizzo di società non operative, considerando tali quelle che non superano il cosiddetto “test di operatività”: in tal caso il reddito e il valore della produzione rilevante ai fini dell’IRAP devono essere dichiarati in misura non inferiore a quella risultante dall’applicazione di criteri forfetari e sono poste delle limitazioni alla utilizzabilità dei crediti IVA. L’art. 9, comma 1, lettera b), numeri 1) e 2), del disegno di legge di delega fiscale prevede la revisione della detta disciplina, da effettuare sulla base di nuovi parametri, da aggiornare periodicamente, che consentano di individuare le società senza impresa, tenendo anche conto dei princìpi elaborati, in materia di imposta sul valore aggiunto, dalla giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte di giustizia dell’Unione europea. Dovranno essere, altresì, determinate cause di esclusione che tengano conto, tra l’altro, dell’esistenza di un congruo numero di lavoratori dipendenti e dello svolgimento di attività in settori economici oggetto di specifica regolamentazione normativa. Nella relazione illustrativa è stata delineata con chiarezza la finalità che la riforma intende perseguire, che è quella di “individuare le società senza impresa, riconducendo così la normativa alla sua ratio originaria di contrastare le società che esercitano un’attività di mero godimento e non un’effettiva attività d’impresa”. Si è, pertanto, ritenuto di non procedere all’abolizione della disciplina delle società non operative e ciò non solo per evitare la conseguente perdita di gettito ma soprattutto per uniformare la disciplina prevista ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP a quella stabilita ai fini dell’IVA, che è stata espressamente richiamata. L’attività di controllo verrebbe, in tal modo, effettuata congiuntamente ai fini di tali imposte. Si ricorda che ai fini dell’IVA le società “di mero godimento” non sono considerate esercitare un’attività d’impresa, anche in deroga alla presunzione assoluta di commercialità riguardante le società di capitali e quelle commerciali di persone (nonché gli enti commerciali). Si ritiene che in sede di attuazione della delega si possa stabilire che l’attività delle società “di mero godimento” non dà luogo a reddito d’impresa e che l’imposizione debba avvenire nei riguardi dei soci, come per le società semplici. In alternativa, potrebbe essere disconosciuta l’inerenza dei costi sostenuti dalla stessa società, trattandosi di un’attività non imprenditoriale consistente nel “godimento privato” dei beni. Tale disciplina dovrebbe essere naturalmente coordinata con quella relativa all’assegnazione dei beni in godimento ai soci o ai loro familiari di cui al D.L. n. 138 del 2011. L’accertamento dell’effettivo svolgimento dell’attività commerciale non appare, tuttavia, agevole e, al fine di evitare l’insorgere di numerose contestazioni e del relativo contenzioso, è stata prevista l’individuazione di “nuovi” parametri, da aggiornare periodicamente, tenendo anche conto dei princìpi elaborati, in materia di IVA, dalla giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte di giustizia dell’Unione europea. Dovrebbero essere, quindi, risolte le questioni oggi controverse relative alla finalità della disciplina e alla prova contraria - che dovrebbe avere ad oggetto la dimostrazione dell’effettivo svolgimento di una attività imprenditoriale – e agli attuali “coefficienti di rendimento presuntivo”, che potrebbero essere sostituiti da altri parametri, ispirati a quelli previsti ai fini dell’IVA nonché a quelli contenuti nella proposta di Direttiva COM (2021) 565 Final, concernente le misure per contrastare “l’uso improprio di società di comodo ai fini fiscali” – c.d. shell companies -. L’applicazione della nuova disciplina dovrà essere esclusa in presenza di un “congruo numero di lavoratori dipendenti e dello svolgimento di attività in settori economici oggetto di specifica regolamentazione normativa”. La tempestiva attuazione della riforma in esame appare opportuna anche in considerazione della attuale lunga fase di crisi economica conseguente alla emergenza epidemiologica e agli eventi bellici, che ha incrementato i casi nei quali le società non riescono a superare il c.d. test di operatività.

  1. Le criticità della disciplina vigente

L’attuale disciplina si applica alle società di capitali (per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata, con esclusione delle società cooperative e di mutua assicurazione e di quelle consortili), in nome collettivo e in accomandita semplice (e quelle ad esse equiparate ai sensi dell’art. 5 del TUIR), nonché alle società e agli enti di ogni tipo non residenti, con stabile organizzazione nel territorio dello Stato. La disciplina in esame, basata su coefficienti predeterminati da applicare alla media triennale dei ricavi, risulta peraltro - come evidenziato dal menzionato Consiglio Nazionale – “oltremodo complessa e foriera di ingiustificabili disparità di trattamento, essendo detti coefficienti applicabili in modo indistinto a tutti i settori di attività, con inevitabile arbitrarietà, illogicità e irrazionalità dei risultati del test di operatività. Lo stesso dicasi per i coefficienti di redditività con cui si effettua il calcolo del reddito minimo attribuibile alla società non operativa che, attualmente, non distinguono né in ordine al settore di attività svolta (i coefficienti sono infatti identici per tutti i settori), né in ordine all’anno di acquisizione delle immobilizzazioni impiegate nell’attività (è evidente che le immobilizzazioni acquisite più di recente “pesano” maggiormente ai fini del calcolo del reddito minimo, in virtù del più recente costo di acquisto, che costituisce la base di calcolo su cui applicare il coefficiente di redditività)”. Nella risposta all’interrogazione parlamentare n. 5-00186 del 30 maggio 2013 è stato, inoltre, affermato che per i “coefficienti di rendimento presuntivo” non è prevista alcuna forma di aggiornamento rimessa all’Amministrazione finanziaria, né alcuna modalità di adeguamento automatico degli stessi. Quindi per un’eventuale modifica dei detti coefficienti occorre un’apposita iniziativa legislativa e gli stessi non sono mai stati aggiornati per tenere conto dell’effettivo andamento della situazione economica (basti pensare, a tale riguardo, alla crisi che sta attraversando negli ultimi anni il settore immobiliare). La crisi economica che ha fatto seguito alla emergenza epidemiologica da COVID-19 ha aumentato inevitabilmente i casi nei quali le società non risultano in grado di superare il c.d. test di operatività. In sede di risposta all’interrogazione parlamentare 23 giugno 2021, n. 5-06289, è stato ricordato che il tema della “sterilizzazione in via automatica” delle disposizioni dettate per le società di comodo “in ragione degli effetti connessi all’emergenza epidemiologica (tali da ritenere sussistenti condizioni straordinarie di svolgimento dell’attività economica) è stato oggetto di una proposta di modifica normativa, non approvata, anche in ragione dei negativi effetti di gettito alla stessa ascritti dalla Ragioneria Generale dello Stato. Ciò premesso, anche in considerazione dell’eterogeneità delle situazioni riscontrabili, l’Agenzia delle entrate fa presente che potrà comunque valutare caso per caso, in base alle previsioni rispettivamente recate dall’articolo 30, comma 4-bis, della legge n. 724 del 1994 e dall’articolo 2, comma 36-decies, del decreto-legge n. 138 del 2011, gli interpelli presentati … da parte delle società che intendano dimostrare come l’emergenza epidemiologica abbia oggettivamente reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito, ovvero non abbia consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto”.

  1. La finalità della disciplina delle società non operative

La finalità della vigente disciplina dei soggetti in esame risulta controversa. E’ stato giustamente osservato che la finalità antievasiva sarebbe l'unica convincente giustificazione dell'istituto, in quanto esistono alcuni beni che sono “oggettivamente fruttiferi”, il cui inserimento all'interno delle società rafforza la presunzione di un loro impiego a scopi reddituali, ma a cui non corrisponde un reddito imponibile.

PROSPETTIVE FUTURE

Le società senza impresa

Nel disegno di legge delega per la riforma tributaria è prevista la revisione della disciplina delle società non operative – c.d. “di comodo” -, da effettuare sulla base di nuovi parametri, da aggiornare periodicamente, che consentano di individuare le società senza impresa, tenendo anche conto dei princìpi elaborati, in materia di imposta sul valore aggiunto, dalla giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Nella Relazione illustrativa è chiarito che la riforma intende perseguire la finalità che di “individuare le società senza impresa, riconducendo così la normativa alla sua ratio originaria di contrastare le società che esercitano un’attività di mero godimento e non un’effettiva attività d’impresa”.

Dall'altra parte, la fiscalità prevista per gli immobili avrebbe potuto essere aggirata cedendo le quote sociali, e mantenendo gli stessi intestati alle società: non sarebbe, quindi, casuale che l'istituto sia stato, come detto, modificato nel 2006, in concomitanza con una serie di interventi nel settore immobiliare. Altri vantaggi fiscali deriverebbero dalla possibilità di dedurre interessi passivi, spese di manutenzione e compensi degli amministratori. Pertanto, la finalità della disciplina in esame appare quella di contrastare comportamenti sostanzialmente riconducibili alla simulazione. È stato, inoltre, sostenuto che, soprattutto dopo le modifiche normative introdotte dal D.L. n. 223/2006 e dalla legge Finanziaria 2007, si affiancherebbe alla finalità antievasiva quella di scoraggiare utilizzi impropri dello schermo societario, miranti ad attuare lo spossessamento formale tra i beni e i loro proprietari, nascondendo dietro al paravento societario un'attività di mero godimento. L'obiettivo di ridurre il numero delle società commerciali risulterebbe, d'altra parte, confermato dall'introduzione di disposizioni agevolative in materia di scioglimento delle società non operative e di trasformazione delle stesse in società semplici. E’ stata, altresì, prospettata l’esistenza di una surrettizia tassazione di tipo patrimoniale, in quanto il prelievo sulle società non operative assumerebbe la valenza di una tassa sulla personalità giuridica e sulla responsabilità limitata o, comunque, sulla creazione di patrimoni autonomi e separati rispetto alla sfera degli effettivi proprietari. Si ricorda che l'Agenzia delle entrate ha affermato, nella circolare del 29 marzo 2013, n. 7/E, che la disciplina delle società di comodo è stata concepita per: • contrastare le società che, indipendentemente dall’oggetto sociale adottato, gestiscono il proprio patrimonio essenzialmente nell’interesse dei soci senza esercitare un’effettiva attività d’impresa ed impedire, di conseguenza, il proliferare di società costituite esclusivamente con l’intento di conseguire finalità estranee alla causa sociale, sostanzialmente prive dello scopo lucrativo; • scoraggiare la permanenza in vita di società, “costituite senza finalità elusive, ma prive di obiettivi imprenditoriali concreti e immediati”, che, per diverse ragioni, non svolgono alcuna effettiva attività imprenditoriale. E’ stata, quindi, di fatto prevista, sempre a parere dell’Agenzia, una normativa “antielusiva” basata sul presupposto che “alcuni beni patrimoniali ben individuati siano in grado, in modo oggettivo, di generare un livello minimo di reddito”. Il riferimento alla finalità antielusiva appare ormai superato, alla luce del disposto dell’art. 10-bis della Legge n. 212 del 2000 e tenendo anche conto di quanto stabilito nell’ambito della riforma della disciplina degli interpelli operata con il D. Lgs. n. 156 del 2015, che non inquadra più quello relativo alle società di comodo nell’ambito degli interpelli antielusivi bensì tra quelli cosiddetti “probatori”. La giurisprudenza di legittimità sta, peraltro, attribuendo alla normativa in discorso una finalità prevalentemente antielusiva, che convivrebbe, tuttavia, con quella antievasiva. La Corte di cassazione ha, da ultimo, affermato, nelle ordinanze dell’8 maggio 2023, n. 12218, e del 23 maggio 2022, n. 16472, che la stessa “ha più volte precisato che il legislatore … ha inteso disincentivare la costituzione di società ‘di comodo’, ovvero il ricorso all'utilizzo dello schema societario per il raggiungimento di scopi eterogenei rispetto alla normale dinamica degli enti collettivi commerciali (come quello, proprio delle società c.d. di mero godimento, dell'amministrazione dei patrimoni personali dei soci con risparmio fiscale)”. E’ stata richiamata la precedente ordinanza del 24 febbraio 2021, n. 4946, nella quale è stato precisato che “il disfavore dell'ordinamento per tale incoerente impiego del modulo societario - ricavabile, oltre che dalla disciplina fiscale antielusiva, dal più generale divieto, desumibile dall'art. 2248 c.c., di regolare la comunione dei diritti reali con le norme in materia societaria trova spiegazione nella distonia tra l'interesse che la società di mero godimento è diretta a soddisfare e lo scopo produttivo al quale il contratto di società è preordinato … Per tale ragione, si fa riferimento a società ‘senza impresa’, o di mero godimento, e dunque ‘di comodo’ … La L. n. 724 del 1994, art. 30 ha, dunque, la finalità di fungere da antidoto al dilagare di società anomale, utilizzate quale involucro per il perseguimento di finalità estranee alla causa contrattuale, spesso prive di un vero e proprio scopo lucrativo e talvolta strutturalmente in perdita, al fine di eludere la disciplina tributaria”. E’ stato, infine, affermato che la disciplina in esame risponde “all'esigenza di dare piena attuazione al principio di capacità contributiva, di cui la disciplina antielusiva è espressione” ma “ha contemporaneamente un contenuto anti evasivo, perché diretto a far emergere proventi non dichiarati, cosicché sussiste una necessaria e stretta correlazione tra la condizione di ‘non operatività’ delle società di comodo e la presunzione legislativa di una loro redditività minima e la conseguente manifestazione di capacità contributiva che ne giustifica, sul piano della legittimità, la tassazione sulla base, appunto, di un reddito minimo presunto”.

  1. La prova contraria

E’ già stato evidenziato in un precedente articolo sulla Rivista che sussistono dubbi interpretativi anche in merito alle modalità mediante le quali le società possono dimostrare di non essere “di comodo” e disapplicare la relativa disciplina. Nell’ambito della giurisprudenza di legittimità stanno, infatti, insorgendo alcune incertezze con riguardo alla possibilità di far valere lo svolgimento di una “effettiva attività imprenditoriale”, oltre che la sussistenza di oggettive situazioni che hanno impedito il conseguimento dei “valori minimi” richiesti al fine di superare il test di operatività.

PROSPETTIVE FUTURE

Gli effetti della riforma

L’attuazione della delega consentirà di risolvere le questioni oggi controverse relative alla finalità della disciplina e alla prova contraria, che dovrebbe avere ad oggetto la dimostrazione dell’effettivo svolgimento di una attività imprenditoriale, e agli attuali “coefficienti di rendimento presuntivo”, che potranno essere sostituiti da altri parametri, ispirati a quelli previsti ai fini dell’IVA e dalla proposta di Direttiva COM(2021) 565 final, concernente le misure per contrastare “l’uso improprio di società di comodo ai fini fiscali” - c.d. shell companies -.

E’ stato, a tale riguardo, sostenuto che in sede giurisdizionale la società, per superare la presunzione di legge, “deve dare prova di risultare ente che non abusa della persona giuridica e che, quindi, svolge un’effettiva attività economica”, mentre le oggettive situazioni che hanno impedito il conseguimento dei ricavi e dei valori minimi assumono rilevanza “soltanto nella fase amministrativa dell’(eventuale) interpello rivolto all’Amministrazione finanziaria”. In passato la giurisprudenza di legittimità ha circoscritto l’ambito della prova contraria che può essere fornita dalla società alle oggettive situazioni che hanno impedito il conseguimento dei “valori minimi” richiesti al fine di superare il test di operatività. Nella ordinanza del 28 settembre 2021, n. 26219, la Corte, ha, invece, affermato che il contribuente può superare la presunzione normativa anche dimostrando in sede giurisdizionale, a prescindere dalla eventuale presentazione dell’istanza di interpello probatorio, l'insussistenza di elementi patrimoniali valorizzati dall'Amministrazione finanziaria ai fini del test di operatività “o la sussistenza di un'effettiva attività imprenditoriale”, ferma restando, comunque, la possibilità di provare l’esistenza “di una situazione oggettiva e non imputabile all'interessato che giustifichi la scarsità dei ricavi e del reddito”. Le altre pronunce intervenute nel corso del 2021 hanno, però, sostanzialmente confermato il precedente orientamento interpretativo. Nella menzionata ordinanza n. 16472 del 2022 la Suprema corte ha, tuttavia, affermato che “l'onere probatorio può essere assolto non solo dimostrando che, nel caso concreto, l'esito quantitativo del test di operatività è erroneo o non ha la valenza sintomatica che gli ha attribuito il legislatore, giacché il livello inferiore dei ricavi è dipeso invece da situazioni oggettive che ne hanno impedito una maggior realizzazione; ma anche dando direttamente la prova proprio di quella circostanza che, nella sostanza, dal livello dei ricavi si dovrebbe presumere inesistente, ovvero dimostrando la sussistenza di un' attività imprenditoriale effettiva, caratterizzata dalla prospettiva del lucro obiettivo e della continuità aziendale, e dunque l'operatività reale della società ... Tale conclusione, del resto, appare coerente con la formula ‘salvo prova contraria’ inserita” nella disposizione normativa in esame. Inoltre, “essa appare logicamente indotta anche dalla considerazione che se è rilevante la prova contraria rappresentata dalla necessaria dimostrazione della carenza indiziaria degli elementi sintomatici (l'esito quantitativo del test) sui quali la presunzione legale di un fatto (l'inoperatività della società) si fonda, non può non essere rilevante anche la prova contraria che dimostri proprio l'inesistenza dello stesso fatto presunto (ovvero che provi l'operatività della società e l'effettività dell'impresa)”. Nella successiva ordinanza n. 30762 del 2022 la Corte è poi tornata a menzionare soltanto le “oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito … ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto”. Da ultimo, nella citata ordinanza n. 12218 del 2023 sono state, invece, ribadite le affermazioni contenute nella precedente ordinanza n. 16472 del 2022. Resta, in ogni caso, difficoltoso dimostrare “la sussistenza di un’effettiva attività imprenditoriale”, analogamente a quanto avviene ai fini civilistici. Si ricorda che l’art. 2247 del codice civile stabilisce che “con il contratto di società due o più soggetti conferiscono beni e servizi per l’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili” mentre il successivo art. 2248 sancisce che “la comunione costituita o mantenuta al solo scopo del godimento di una o più cose” è regolata dalle norme relative alla comunione di cui agli articoli da 1100 a 1116 dello stesso codice. E’ stato, al riguardo, osservato che “la linea di discrimine fra fattispecie societaria e quella di mera comunione di godimento risulta di difficile individuazione e priva di criteri aprioristici e generali, risultando dunque difficilmente identificabile il fenomeno delle società di comodo dal punto di vista civilistico. È infatti sufficiente dichiarare nell’atto costitutivo la volontà di svolgere un’attività economica (ed uno scopo lucrativo), che però, nella realtà dei fatti, non viene svolta. Si realizza, così, un abuso del fenomeno societario, ossia il c.d. abuso della persona giuridica. A tale fine, una possibile soluzione potrebbe essere rappresentata dal ricorso all’istituto della simulazione ex articoli 1414 ss. c.c.” ma la Cassazione ha affermato, in numerose sentenze, “l’irrilevanza della simulazione in materia di società di capitali, tra le quali si citano, per tutte, le pronunce n. 6515 del 9 luglio 1994 e n. 3666 del 28 aprile 1997 della stessa Corte di Cassazione. I giudici di legittimità, in particolare affermano che, una volta costituita, la società vive di vita propria senza che l’intento simulatorio originario dei soci possa influire sugli atti in cui la vita sociale consiste”. In dottrina è stato sostenuto che il contratto di una società di comodo potrebbe essere contestato dai creditori dei singoli soci avvalendosi dell’azione revocatoria ai sensi dell’art. 2901 c.c. ovvero invocando la frode alla legge, di cui al precedente art. 1344, nella misura in cui il contrasto tra lo scopo di attività imprenditoriale enunciato nel contratto societario e l’attività di mero godimento effettivamente poi svolta dai soci della società diviene strumento per l’elusione di norme imperative.

  1. La riforma proposta

Nella relazione illustrativa del disegno di legge di delega fiscale è stato evidenziato che lo scopo della riforma è quella di “individuare le società senza impresa, riconducendo così la normativa alla sua ratio originaria di contrastare le società che esercitano un’attività di mero godimento e non un’effettiva attività d’impresa”. Dovrebbero, pertanto, trovare in tal modo soluzione le questioni, esaminate in precedenza, relative alla finalità della disciplina e alla prova contraria, che dovrebbe avere ad oggetto la dimostrazione dell’effettivo svolgimento di una attività imprenditoriale.

PROSPETTIVE FUTURE

Le cause di esclusione

In sede di attuazione della delega dovranno essere determinate cause di esclusione che tengano conto, tra l’altro, dell’esistenza di un congruo numero di lavoratori dipendenti e dello svolgimento di attività in settori economici oggetto di specifica regolamentazione normativa. Potranno essere tenute, al riguardo, in considerazione le proposte formulate in passato dal Consiglio Nazionale dei dottori commercialisti e le previsioni contenute nella proposta di Direttiva sulle c.d. shell companies.

Si ritiene che in sede di attuazione della stessa delega si potrebbe “disattivare” la presunzione assoluta di commercialità delle società commerciali di persone e di quelle di capitali stabilita negli articoli 6, comma 3, e 81 del TUIR e stabilire normativamente le condizioni in presenza delle quali si considera esercitata un’attività di mero godimento e non d’impresa. Si tratterebbe di una soluzione analoga a quella prevista ai fini dell’IVA - la cui disciplina è stata espressamente richiamata sia nella norma di delega che nella relazione illustrativa – in base alla quale le società “di mero godimento” non sono considerate esercitare un’attività d’impresa, anche in deroga alla presunzione assoluta di commercialità riguardante le società di capitali e quelle commerciali di persone nonché gli enti commerciali. La presunzione assoluta di esercizio d’impresa in capo alle società ha dato luogo nel tempo, ai fini della detta imposta, ad alcune distorsioni – a volte frodi vere e proprie -, in presenza delle quali i contribuenti si sono opposti agli accertamenti invocando la presunzione di commercialità delle operazioni. Per tale motivo è stato stabilito, nell'art. 4, comma 5, del DPR n. 633 del 1972, che non è detraibile l’IVA pagata da società ed enti per l’acquisto di beni (unità immobiliari classificati o classificabili in categoria catastale A – tranne A10 – e loro pertinenze, unità da diporto, aeromobili da turismo o qualsiasi altro mezzo di trasporto ad uso privato e complessi sportivi o ricreativi, compresi quelli destinati all’ormeggio, al ricovero e al servizio di unità da diporto) che vengono gestiti e messi a disposizione dei soci e partecipanti, e dei loro familiari, gratuitamente o a fronte di un corrispettivo inferiore al valore normale. Tale disposizione si applica anche se il godimento, personale o familiare, dei beni o degli impianti sia conseguito indirettamente dai soci o partecipanti anche attraverso la partecipazione ad associazioni, enti o altre organizzazioni. La disposizione non si applica se si dimostra che si tratta di un bene utilizzato nell’esercizio di un’attività imprenditoriale del socio, al di fuori della finalità personali dello stesso. La relazione illustrativa della disposizione che ha introdotto tale previsione afferma che la modifica ha lo “scopo di eliminare alcuni effetti della attribuzione di carattere imprenditoriale a qualunque attività svolta da società commerciali”, individuando “alcune attività non rivolte al mercato, ma tipicamente finalizzate a consentire un mero godimento di beni e servizi da parte dei loro diretti o indiretti titolari”. L’effetto della esclusione dal campo di applicazione dell’IVA conduce: ◦ alla indetraibilità dell’imposta sugli acquisti di beni e servizi destinati a tale attività; ◦ all’autoconsumo dei beni e servizi acquistati nell’ambito di un’attività commerciale ma successivamente destinati ad un utilizzo di mero godimento; ◦ all’esecuzione degli adempimenti relativi alla cessazione dell’attività (se non si effettuano altre attività rilevanti ai fini IVA). La indetraibilità dell’IVA è stata, inoltre, stabilita nei riguardi delle holding di gestione, in caso di “possesso, non strumentale né accessorio ad altre attività esercitate, di partecipazioni o quote sociali, di obbligazioni o titoli similari, costituenti immobilizzazioni, al fine di percepire dividendi, interessi o altri frutti, senza strutture dirette ad esercitare attività finanziaria ovvero attività di indirizzo, di coordinamento o altri interventi nella gestione delle società partecipate”. La Corte di cassazione ha confermato, nella ordinanza del 25 febbraio 2021, n. 5156, che la holding di partecipazione che non interviene nella gestione delle società controllate è priva dello status di soggetto passivo ai fini IVA, in quanto occorre un’interferenza, diretta o indiretta, nella gestione delle società partecipate. L’Agenzia delle entrate ha affermato, nella risposta a interpello del 3 novembre 2021, n. 758, che la holding che opera nell’ambito di un’operazione di MLBO (Merger leveraged buy-out) può essere qualificata come soggetto passivo IVA. Tale società configura una holding “dinamica”, dotata di struttura operativa attraverso cui svolge la funzione di supporto nella definizione delle linee guida e degli obiettivi operativi del gruppo, verificandone la realizzazione in termini di crescita economica e di equilibrio finanziario. Nel caso esaminato la holding è intervenuta indirettamente nell’operazione di riorganizzazione, ha costituito il centro di imputazione di costi inerenti ed ha effettuato prestazioni di servizi infragruppo. L’Agenzia ha ricordato che, per costante giurisprudenza della CGUE, “non ha lo status di soggetto passivo dell’IVA … e non ha diritto a detrazioni … una holding il cui unico scopo sia l’assunzione di partecipazioni presso altre imprese, senza che tale società interferisca in modo diretto o indiretto nella gestione delle stesse, fatti salvi i diritti che detta holding possiede nella sua qualità di azionista o di socio”. E’, invece, rilevante la concessione di prestiti quando gli stessi costituiscono il prolungamento diretto, permanente e necessario dell’attività economica svolta dal soggetto passivo. In questo caso gli interessi percepiti rappresentano il corrispettivo della prestazione di servizio consistente nella concessione della disponibilità del capitale. Va, altresì, considerato che, in base alla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, la detrazione spetta anche in assenza di cessioni di beni e prestazioni di servizi relative all’attività commerciale qualora il mancato svolgimento dell’attività propria dell’impresa sia dovuta a circostanze estranee alla volontà del soggetto passivo, di carattere sia temporaneo che definitivo. Occorre, a tal fine, fare riferimento a parametri quali il periodo di tempo intercorso tra l’acquisto del bene ed il suo utilizzo effettivo, le iniziative intraprese dal soggetto passivo per rimuovere i possibili ostacoli all’utilizzo del bene e il confronto tra il concreto impiego del bene e le modalità con le quali viene normalmente esercitata l’attività d’impresa. L’Agenzia delle entrate ha affermato, nella circolare 24 dicembre 1997, n. 328/E, e nella risoluzione 7 settembre 1998, n. 124/E, che occorre dimostrare non soltanto che l’intenzione di svolgere un’effettiva attività d’impresa sussisteva al momento dell’acquisto dei beni ma anche che la mancata realizzazione di operazioni imponibili è imputabile a circostanze estranee al soggetto passivo.
La Corte di cassazione, con la ordinanza interlocutoria del 15 maggio 2022, n. 16091, ha, peraltro, rimesso alla Corte di Giustizia europea la questione di compatibilità di alcune disposizioni relative alla disciplina in esame, affermando che “la presunzione legale di inoperatività si fonda sulla massima di esperienza secondo la quale non vi è di norma effettività di impresa senza una continuità minima nei ricavi” e che “il disfavore dell’ordinamento nazionale deriva dall’incoerente impiego del modulo societario …..e trova spiegazione nella distonia tra l’interesse che la società di mero godimento è diretta a soddisfare e lo scopo produttivo al quale il contratto è preordinato”. In caso di assenza di un’effettiva attività d’impresa la società è priva del requisito della soggettività IVA e non sarebbe, pertanto, possibile limitare soltanto la possibilità di utilizzare il credito spettante ai fini di tale imposta. La disciplina prevista ai fini dell’IVA potrebbe essere, quindi, estesa alle imposte sui redditi, stabilendo che l’attività delle società “di mero godimento” non dà luogo a reddito d’impresa e che l’imposizione debba avvenire nei riguardi dei soci, come per le società semplici. L’attività di controllo verrebbe, in tal modo, effettuata congiuntamente ai fini di entrambe le imposte. In alternativa, potrebbe essere disconosciuta l’inerenza dei costi sostenuti dalla stessa società, trattandosi di un’attività non imprenditoriale consistente nel “godimento privato” dei beni. La nuova disciplina dovrebbe essere naturalmente coordinata con quella relativa all’assegnazione dei beni in godimento ai soci o ai loro familiari di cui al D.L. n. 138 del 2011, che sarà probabilmente superata. Sarà, altresì, possibile superare le criticità relative agli attuali “coefficienti di rendimento presuntivo”, che potrebbero essere sostituiti da altri parametri, ispirati non solo a quelli previsti ai fini dell’IVA ma anche a quelli contenuti nella proposta di Direttiva COM (2021) 565 Final, concernente le misure per contrastare «l’uso improprio di società di comodo ai fini fiscali» – shell companies -, presentata il 22 dicembre 2021. Il Parlamento UE ha espresso l’11 gennaio 2023 parere favorevole alla proposta. Quest’ultima affianca e non sostituisce le normative nazionali, che, come precisato nel Considerando n. 2, “non contemplano efficacemente le situazioni che coinvolgono più di uno Stato membro”. Viene, in particolare, stabilito un quadro minimo e comune di norme a livello unionale “per determinare ciò che dovrebbe essere considerato una sostanza insufficiente a fini fiscali nel mercato interno e per delineare le conseguenze fiscali specifiche connesse a tale sostanza insufficiente”. Anche la Corte di cassazione ha fatto riferimento a tale proposta nella ordinanza n. 16472 del 2022, nella quale è precisato che la stessa “stabilisce un ‘substance test’ per individuare, sulle base delle informazioni fornite dalle stesse imprese, quelle che esercitano un'attività economica, ma che non hanno un minimo di sostanze e che sono utilizzate in modo improprio al fine di ottenere vantaggi fiscali, consentendo comunque all' impresa sotto soglia di chiedere un'esenzione dagli obblighi nascenti da tale esito, attraverso la dimostrazione che essa viene utilizzata per attività commerciali autentiche e non per creare un vantaggio fiscale per se stessa, per il gruppo di società di cui fa parte o per il beneficiario effettivo finale. In difetto, la conseguente presunzione di mancanza di sostanze minime e di abuso fiscale si coniuga comunque con il diritto dei contribuenti di dimostrare il contrario, vale a dire di provare l'effettività dell’impresa, non utilizzata in modo improprio a fini fiscali poiché il test si basa su indicatori e potrebbe non cogliere i fatti e le circostanze specifici di ogni singolo caso”. La proposta prevede che per due anni va valutata la «sostanza» della entità (società, partnership ecc.) residente ai fini fiscali nella UE, sulla base dei seguenti tre indici di allerta, che devono ricorrere congiuntamente e sussistono se: • più 75% dei componenti positivi di reddito è costituito da passive income (interessi e proventi assimilati, quali quelli da criptovalute; royalties; dividendi; redditi da leasing finanziario; proventi immobiliari; proventi da beni mobili – diversi da denaro e azioni o altri titoli – detenuti per scopi privati con un valore di libro superiore a 1 milione di euro – es. yacht, jet e opere d’arte -; redditi da assicurazione; redditi da servizi «appaltati» a imprese associate); • è presente una «attività transfrontaliera», che sussiste se nei 2 anni precedenti, alternativamente: a) oltre il 60% del valore di libro dei beni immobili o dei beni mobili usati per scopi privati di valore superiore a 1 milione si trova in uno Stato diverso; b) almeno il 60% del reddito degli asset sub a) deriva da operazioni cross border;
• sono esternalizzati il processo decisionale relativo a funzioni significative e le operazioni ordinarie. Dovranno, inoltre, essere individuate cause di esclusione dell’applicazione della disciplina che apprezzino la circostanza che la società abbia in organico un numero minimo di lavoratori dipendenti. Il Consiglio Nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili aveva suggerito di fare riferimento, quale causa di esclusione dell’applicazione della disciplina in esame, alle società che impiegano almeno due lavoratori dipendenti “a tempo indeterminato (diversi dal coniuge, dai parenti entro il terzo grado e dagli affini entro il secondo grado)” e sostengono un “ammontare complessivo dei costi di acquisto delle immobilizzazioni impiegate nell’attività” superiore ad un determinato limite. Si ricorda che nella già menzionata proposta di Direttiva è stabilito che si presume che la società non sia “di comodo” se: • si tratta di società quotate, intermediari finanziari (compresi i fondi), holding con partecipate e titolari effettivi tutti residenti nello Stato membro; • vi sono almeno 5 dipendenti, o membri dello staff, che si dedicano a tempo pieno e in modo esclusivo alle attività che generano i passive income. Dovranno, altresì, essere escluse le società appartenenti a settori regolamentati che offrono garanzia di esclusione di utilizzo della forma societaria per l’esercizio di attività di mero godimento da parte delle persone fisiche.

Fonte: Corriere Tributario n. 1/2023

Prof. Gianfranco Ferranti, Ordinario Diritto Tributario Scuola Nazionale dell’Amministrazione, Direttore Rivista “Il Fisco”, Condirettore scientifico della rivista “Corriere Tributario”

Condividi su: