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Le Sezioni Unite plasmano le sanzioni IVA per il reverse charge

Avv. Clino De Ieso

Iva e Dogane

La sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 22727/2022 , che si occupa dei limiti all’applicazione del regime di favore per le sanzioni IVA in materia di reverse charge, muove dalla cruciale distinzione fra le operazioni inesistenti con o senza IVA. Tale suddivisione ha come base giuridica l’assioma, tanto diffuso nella giurisprudenza, per cui è indetraibile l’IVA indicata nella fattura oggettivamente e soggettivamente falsa. Fermo restando che, nell’ipotesi di inesistenza soggettiva dell’operazione, il cliente che prova la sua estraneità alla frode può beneficiare della sanzione ridotta. In un racconto di fantasia giudiziaria, si potrebbe immaginare un ordinamento nel quale i giudici tributari risolvano le controversie applicando alla singola fattispecie il significato della norma recepito dagli operatori economici al momento della sua entrata in vigore. Grande centralità assumerebbe il senso letterale della disposizione coordinato con le altre leggi vigenti, mentre ai fini interpretativi nessuna rilevanza avrebbe l’intenzione espressa dal legislatore nei lavori preparatori. Inoltre, non esisterebbe alcun intervento giurisprudenziale mosso dall’obiettivo di riscrivere la norma, essendo gli stessi giudici convinti che la loro mission è la ricerca del punto ideale che rappresenta quel bilanciamento equilibrato fra interesse pubblico e privato delineato non da una élite di magistrati, bensì dal potere legislativo. In questo sistema processuale, del tutto immaginario, le Sezioni Unite non si sarebbero occupate del tema specifico, oggetto della sentenza n. 22727/2022 in commento, che attiene alla possibilità di limitare le sanzioni più blande in materia di reverse charge alle sole operazioni inesistenti senza IVA, escludendo quelle inesistenti se imponibili assoggettate alle sanzioni piene. Leggendo il testo dell’art. 6, comma 9-bis.3, del D.Lgs. n. 471/1997 introdotto nel 2015 e comparativamente analizzando il più ampio quadro normativo allora esistente, nessun operatore avrebbe dubitato dell’inclusione di tutte le operazioni inesistenti nel regime sanzionatorio più favorevole. Il comma 9-bis.3 è molto chiaro nell’imporre al primo periodo la non sanzionabilità per assenza di danno erariale, laddove l’erronea adozione dell’inversione contabile riguardi una operazione esistente senza IVA. Altrettanto chiaro è il secondo periodo, che allarga il raggio di applicazione della “disposizione” del primo periodo alle “operazioni inesistenti” per le quali è irrogabile una sanzione di lieve entità la cui misura risulta proporzionata all’utilizzo, sebbene non corretto, dello strumento antifrode dell’inversione contabile: il quale, spostando sul cliente la funzione originaria o derivata di debitore dell’imposta, riduce la pericolosità insita nell’inesistenza della cessione o servizio. In teoria, questo nuovo regime sanzionatorio potrebbe sostituire la “sanzione impropria” per l’IVA non dovuta che non dovrebbe essere applicabile, a partire dal 2015, alle operazioni inesistenti in reverse charge.
Per quest’ultime la neutralità, garantita dalla compensazione fra l’imposta a debito che è uguale a quella a credito, non viene più alterata dalla combinazione fra la sanzione “impropria” e la sanzione per indebita detrazione la cui sommatoria comportava, in sostanza, il disconoscimento della detrazione in capo al cliente. Una ricostruzione di questo tipo - passando dalla fantasia alla realtà giuridica - è ostacolata dalla Cassazione. La quale, dovendosi muovere in un disordine legislativo di taglio casistico, esercita la propria funzione nomofilattica raccordando le varie disposizioni attraverso un metodo “per principi” che permette all’interprete di andare oltre il dato testuale e, così, plasmare la norma al servizio della finalità ritenuta dalla stessa Suprema Corte essere più giusto e che, nella sentenza in commento, è rappresentata dal contrasto alle condotte fraudolenti. Ecco il presupposto che veicola la regola sancita dalle Sezioni Unite, secondo cui le operazioni inesistenti, qualificabili come imponibili, sono estromesse dal regime di favore del comma 9-bis.3 che, tuttavia, solo in via eccezionale, “resterà applicabile anche al caso di operazioni soggettivamente inesistenti imponibili per le quali ricorrono comunque i requisiti per il riconoscimento del diritto alla detrazione, per carenza di prova dell’elemento psicologico, rientrando tali ipotesi nel cono d’ombra della previsione normativa, la quale intende comunque sanzionare condotte capaci di produrre effetti frodatori del sistema, ancora una volta dovendosi prediligere l’interpretazione che si allinea nel modo migliore alla ratio sottesa all’intervento sanzionatorio”. In altre parole, le Sezioni Unite introducono ai fini sanzionatori una distinzione fra le operazioni inesistenti imponibili (regola sanzione piena, eccezione sanzione ridotta) e inesistenti-esenti/non imponibili/non soggette (sanzione ridotta). Tale suddivisione, non essendo scritta nel testo del comma 9-bis.3, ha come base giuridica l’assioma, tanto diffuso nella giurisprudenza della Cassazione, per cui è indetraibile l’IVA indicata nella fattura oggettivamente e soggettivamente falsa. Fermo restando che, come stabilito dalle Sezioni Unite, nell’ipotesi di inesistenza soggettiva dell’operazione il cliente che prova la sua estraneità alla frode può mantenere il diritto alla detrazione e, inoltre, beneficiare del regime sanzionatorio di favore. Si ritorna, dunque, al famoso principio di derivazione giurisprudenziale del “sapeva o avrebbe dovuto sapere” di cui tutti ne parlano, anche se in termini non particolarmente chiari soprattutto riguardo al suo presupposto o alle diverse fattispecie che tale principio attrae nella sua sfera applicativa.

La definizione di frode codificata dal legislatore europeo

La giurisprudenza in materia di frodi IVA può essere invocata dall’Autorità fiscale nel caso in cui il cliente, al momento dell’acquisto, era a conoscenza delle difficoltà finanziarie del fornitore che non ha assolto l’IVA a debito? Di questa perdita di gettito è responsabile l’acquirente che sapeva o avrebbe dovuto sapere che il fornitore, a causa del suo stato di insolvenza, non avrebbe versato oppure non sarebbe stato in grado di versare l’IVA all’Erario? Nella causa C-227/21, l’Amministrazione fiscale della Lituania ha prospettato una risposta positiva ai quesiti dando per presupposto e per scontato che la condotta della società HA.EN. (acquirente) fosse abusiva o fraudolenta. Quest’ultima, nel 2015, ha rilevato dalla banca tutti i crediti e l’ipoteca volontaria, relativa ad un terreno su cui insisteva un edificio in costruzione, conseguenti al mutuo concesso nel 2007 dalla medesima banca ad un altro soggetto (mutuatario). L’immobile, nel 2016, è stato assegnato alla HA.EN all’esito della vendita all’asta giudiziaria al pubblico incanto. Ai fini IVA, l’operazione è stata regolarmente fatturata, registrata e dichiarata sia dal mutuatario (venditore) che da HA.EN. (acquirente). Il primo, nel frattempo dichiarato fallito, non ha versato l’IVA indicata in fattura, mentre il secondo si è detratto l’imposta che ha generato in dichiarazione un credito chiesto a rimborso. Da qui, si intravede la genesi del contenzioso che ruota intorno alla “questione se, nei casi di perdite dovute a insolvenza” del fornitore, “sia responsabile lo Stato o la controparte”, cioè, il cliente a cui l’Autorità fiscale nega la detrazione e, per l’effetto, disconosce il rimborso in quanto la HA.EN., in “occasione della stipula del contratto” di cessione del credito stipulato con la banca, “ha (...) confermato di essere venuta a conoscenza della situazione economica e finanziaria nonché dello status giuridico del venditore e che quest’ultimo era insolvente ed era pendente una procedura di insolvenza nei suoi confronti dinanzi al (...) Tribunale regionale di Vilnius, Lituania”. Tuttavia, sia per l’Avvocato Generale che per la Corte di Giustizia, il comportamento dell’acquirente HA.EN. non è sanzionabile con la perdita della detrazione. Da tale conclusione sembra potersi trarre una sorta di corollario non del tutto banale: l’essere a conoscenza delle difficoltà finanziarie del fornitore non è un requisito necessario e sufficiente per ritenere che la condotta del cliente integri una frode o un abuso. Quanto all’abuso, osserva la Corte, mancano le due condizioni indicate dalla giurisprudenza europea. Il vantaggio fiscale (detrazione), aderente alla Direttiva che ammette l’inversione contabile per la cessione di beni immobili in una vendita giudiziale, non è la finalità essenziale dell’operazione identificabile, invece, nella “volontà [di HA.EN] di recuperare in tutto o in parte il suo credito nei confronti di un debitore in situazione di insolvenza, tramite mezzi legali a sua disposizione, quali una vendita giudiziale al pubblico incanto” (Punto 39). Ciò vale, a maggior ragione, considerato che la cessione ha avuto “luogo nell’ambito di una vendita disciplinata dalla legge, vendita che è certamente destinata ad applicarsi in un contesto eccezionale, quello dell’insolvenza di un operatore economico, ma ciò nondimeno inerente alla vita economica, e considerato l’obiettivo a priori legittimo che essa persegue, una siffatta operazione non può essere equiparata a una costruzione meramente artificiosa, priva di effettività economica e realizzata al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale, che il principio di divieto di pratiche abusive induce a vietare (...)” (Punto 40). Passando alla frode, i giudici europei riaffermano che l’IVA dichiarata, ma non versata, non determina per l’operatore economico alcun vantaggio in quanto l’imposta resta comunque dovuta. Sicché, “nei limiti in cui il soggetto passivo ha debitamente adempiuto i propri obblighi dichiarativi in materia di IVA, il mero omesso versamento dell’IVA debitamente dichiarata non può, indipendentemente dal carattere intenzionale o meno di una siffatta omissione, costituire una frode in materia IVA (...)”. Pertanto, “in una vendita giudiziaria al pubblico incanto disciplinata dalla legge”, “non è possibile (...) addebitare all’acquirente (...) il fatto che egli sapeva o avrebbe dovuto sapere che, acquistando” il “bene” immobile da un soggetto passivo che “versi in difficoltà finanziarie”, “partecipava a un’operazione che si iscriveva in una frode in materia di IVA.” (Punti 32 e 33). Del resto, come evidenziato dall’Avvocato Generale (punto 51), la società HA.EN. ha compiuto operazioni con “determinati soggetti non criminali”, cioè, la banca e una impresa che, seppur in difficoltà finanziarie, svolge un’attività economica “legale”. In più, la condotta di HA.EN. non ha avuto alcuna influenza causale sull’omesso assolvimento dell’imposta da parte del venditore e, inoltre, non ha ostacolato l’attività accertativa dell’ente impositore. Sicché, l’Autorità fiscale - aggiunge la Corte - non può far ricadere sul cliente la scelta del legislatore nazionale di non optare per il regime di reverse charge che, se applicato alla fattispecie, avrebbe senz’altro eliminato il rischio a carico dello Stato di insolvenza per l’IVA. In definitiva, tentando una sintesi del pensiero dei giudici europei, la detrazione dell’acquirente è legittima, nonostante l’Erario non possa recuperare l’IVA a debito, poiché il mancato pagamento dell’imposta da parte del fornitore non è avvenuto in un contesto di frode che, come codificata dal legislatore europeo nel settore penale, “lede gli interessi finanziari dell’Unione” attraverso una “azione od omissione relativa (...) all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti, cui consegua l’appropriazione indebita o la ritenzione illecita di fondi o beni provenienti dal bilancio dell’Unione o dai bilanci gestiti da quest’ultima, o per suo conto”.

La perdita della detrazione presuppone la prova del danno erariale

Come si è appena visto, la Corte di Giustizia ha risposto al quesito del caso HA.EN richiamando la nozione di frode prevista nel settore penale. Occorre, a riguardo, sottolineare un aspetto, per nulla secondario, della forza persuasiva delle decisioni della Corte di Lussemburgo. È il dispositivo della sentenza, con la quale la Corte fornisce l’interpretazione richiesta tramite la domanda pregiudiziale, che vincola il giudice nazionale del rinvio e, analogamente, vincola gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposta un’identica questione sia in fatto che in diritto. La motivazione della pronuncia svolge una funzione “servente” al dispositivo, che viene costruito per risolvere un caso specifico. Troppo spesso ci si dimentica di questo profilo, con il rischio di deformare il pensiero dei giudici europei facendo dire alla Corte di Giustizia qualcosa in più. Per esempio, tenendo a mente la causa HA.EN., la Corte non ha detto che le nozioni autonome del diritto penale possono estendersi all’ambito fiscale, bensì che l’omesso versamento dell’IVA dichiarata non è una frode. Del resto, l’impostazione di fondo fra i due settori è profondamente diversa. Il sistema penale è finalizzato a reprimere la falsità dei documenti contabili, la cui insidiosità si manifesta nel profitto derivante dal reato che può consistere non solo nel danno erariale, ma anche in altri interessi economici come, per esempio, la precostituzione della “provvista per il pagamento delle dazioni corruttive”. Mentre, la ratio delle norme tributarie è la tutela dell’interesse erariale, tanto che le sanzioni sono proporzionate all’effettiva perdita di gettito che, nel caso Ferimet, sembra essere assente avendo il cliente - a cui è stata negata la detrazione - applicato l’imposta agli acquisti di rottami attraverso l’inversione contabile. Riguardo a tale arresto si impone una valutazione di particolare prudenza, tenuto conto della particolarità della vicenda che impedisce di attribuire al dispositivo della sentenza un valore di criterio-guida applicabile come regola generale per le controversie in materia di frode. Si pensi che la Corte, di fronte ad un cliente (per l’appunto, Ferimet) in “mala fede” e “complice” dei frodatori, ha posto a carico di quest’ultimo un obbligo supplementare che consiste nell’onere (diabolico) di provare lo status di soggetto passivo del vero fornitore - non indicato nella fattura soggettivamente inesistente - “deliberatamente occultato” con il placet di Ferimet. Si tratta di una soluzione che, laddove disconosce la detrazione in assenza di una comprovata effettiva lesione degli interessi finanziari dell’Unione, sembra muoversi più da uno slancio giustizialista che si prefigge di punire il contribuente tramite sanzioni penali all’interno del procedimento amministrativo. Se non si presta attenzione a questo aspetto, vi è il forte rischio di deviare verso nuove chiavi di lettura che, più o meno sottotraccia, possono aprire all’applicazione in ambito tributario di sanzioni penali mascherate le quali, a prescindere dalla perdita di gettito fiscale, reprimono con severità “ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale”. In questa prospettiva, è bene ribadire un punto fermo: nel settore fiscale, il danno erariale resta un requisito imprescindibile per sanzionare con la perdita della detrazione l’operatore che risulti complice dei frodatori o negligente nell’attività di controllo sull’affidabilità della controparte contrattuale nei limiti, ovviamente, dei poteri di indagine dei contribuenti che non sono paragonabili a quelli esercitabili dall’Autorità fiscale.

Il nuovo schema di ripartizione dell’onere probatorio

Uno sguardo, volutamente panoramico, in materia di frodi IVA non può che chiudersi con un discorso specifico sul tema della ripartizione dell’onere della prova non disciplinato dalla Direttiva. L’orientamento, ormai consolidato, della Corte di Giustizia, conferisce all’Amministrazione finanziaria il compito di individuare gli “elementi oggettivi” che dimostrano, “con mezzi che non siano supposizioni”, l’evasione IVA “secondo le norme in materia di prova previste dal diritto nazionale” e che “non devono pregiudicare l’efficacia del diritto dell’Unione”. Altrettanto consolidata è la posizione della Cassazione, secondo cui “gli elementi oggettivi” possono essere comprovati tramite la prova presuntiva per cui dal fatto noto (indizio) si risale al fatto ignoto (evasione). Questo schema sembra essere stato spazzato via dalla recente “rivoluzione copernicana” che ha riformato “l’istruttoria del processo tributario”. Il riferimento è al nuovo comma 5-bis dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992 [20] che si segnala non tanto per la sua eleganza stilistica, ma per la chiarezza con la quale addossa a carico dell’ente impositore un onere probatorio certamente più complesso (“circostanziato e puntuale”) da adempiere rispetto al passato. Ed era forse la sola via per cercare di riequilibrare la parità fra l’Amministrazione finanziaria ed il contribuente il quale, sul piano delle regole sostanziali, si trova in una posizione di netto svantaggio rispetto al Fisco. Si pensi all’inutilizzabilità in giudizio dei documenti non prodotti durante la fase amministrativa, ovvero alle presunzioni legali di cessione e di acquisto. Certo, quest’ultime, al pari delle presunzioni di legge a favore dei soggetti passivi, dovrebbero beneficiare dello scudo protettivo previsto dal comma 5-bis che, infatti, salva “la normativa tributaria sostanziale”. Ma, secondo la naturale gerarchia delle fonti, le presunzioni create dalla giurisprudenza in materia di frode, racchiuse nell’espressione “sapeva o avrebbe dovuto sapere”, dovrebbero essere destinate a soccombere rispetto alla specifica disciplina regolata dal novellato comma 5-bis. Idea che è stata subito respinta da un primo intervento della Cassazione, secondo cui nulla è cambiato nella sostanza per le operazioni soggettivamente inesistenti, in quanto “la nuova formulazione legislativa (...) non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale”. Appare evidente che, sotto lo slogan della urgente lotta alla frode, la Cassazione cerca di affrancarsi dal giogo della legge rivendicando il proprio ruolo di primo e autentico interprete delle norme e dei fatti di causa. Illuminanti, a riguardo, sono le parole del Presidente della Corte costituzionale che, lo scorso 13 settembre 2022, ha manifestato la sua contrarietà “a tesi che ritenevo ormai sepolte sulla giurisprudenza come fonte del diritto al pari della legislazione e sulla legittimazione che ciò avrebbe nella previsione costituzionale secondo cui la giustizia è amministrata in nome del popolo”. Ecco perché, nonostante i continui tentativi di attribuire alle sentenze una forza non più persuasiva ma addirittura vincolante per i giudici di merito o predittiva per gli operatori economici grazie all’algoritmo che indica l’esito probabile delle controversie, l’intervento legislativo che ha ridefinito nel processo tributario le regole sulla ripartizione dell’onere probatorio va salutato come una consacrazione del principio di legalità. L’Ufficio non può più ridurre la sua attività giudiziale alla sola descrizione dello schema fraudolento, lasciando al contribuente la prova negativa della sua buona fede che, nei fatti, si trasforma in una autentica probatio diabolica, a conferma che le presunzioni relative giurisprudenziali dissimulano una vera e propria presunzione assoluta. Per ottemperare al comma 5-bis, l’ente impositore è chiamato a giustificare la pretesa erariale sulla base di una istruttoria “rafforzata”, fondata sull’analisi dei flussi finanziari, che si concluda con la dimostrazione suffragata da elementi documentali (i) della perdita di gettito e, in particolare, in quale anello della catena si è realizzato il salto d’imposta (ii); della notifica dell’atto di accertamento a tutti i soggetti partecipanti alla frode e, inoltre (iii) che nessuno di questi soggetti, in via solidale, ha corrisposto l’IVA eliminando il danno erariale; (iv) della consapevolezza della frode da parte del soggetto passivo estraneo alla condotta fraudolenta. Diversamente, cioè, se tali prove mancano o, se esistenti, risultino contraddittorie o insufficienti, il giudizio tributario promosso dal contribuente non può che terminare con una sentenza di annullamento dell’atto impositivo.

Fonte: Corriere Tributario, n. 12, 1 dicembre 2022, p. 1061

Avv. Clino De Ieso, Avvocato Tributarista cassazionista, Partner Studio Legale Tributario Centore

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