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La tassazione delle plusvalenze in caso di cessione dell’immobile ristrutturato

Prof. Gianfranco Ferranti

Imposte dirette

L’Agenzia delle entrate ha recentemente affermato che, ai fini dell’imposizione delle plusvalenze realizzate mediante la cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, non rileva la circostanza che l’immobile sia stato oggetto di un intervento di ristrutturazione e di ampliamento, dovendosi fare riferimento soltanto all’acquisto dello stesso. Tale conclusione appare condivisibile con riferimento, però, ai casi nei quali non è configurabile, dopo l’ultimazione della ristrutturazione, l’esistenza di una “nuova costruzione”.

1. Premessa

Nella prima parte della lett. b) del comma 1 dell’art. 67 del TUIR è stabilito che rientrano nell’ambito dei redditi diversi le plusvalenze realizzate mediante la cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, esclusi quelli acquisiti per successione e le unità immobiliari urbane che per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari. Rientrano nell’ambito di tale previsione normativa, ad esempio, le plusvalenze derivanti da cessioni di unità immobiliari non locate. La previsione normativa in esame trova applicazione, come chiarito dall’Agenzia delle entrate nella risposta ad interpello del 18 maggio 2021, n. 350, anche qualora la cessione abbia ad oggetto immobili situati all'estero di proprietà di una persona fisica residente in Italia. L’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione ha affermato, nella Rassegna della giurisprudenza di legittimità del 1° semestre 2019, che “la ratio dell’art. 67 è tassare una ricchezza prodotta; proprio per questo, il legislatore considera in questa norma le cessioni infraquinquennali di immobili, perché si presume in tali operazioni un intento speculativo, consistendo in operazioni in cui un soggetto realizza o acquista la proprietà di un immobile e nel giro di 5 anni lo rivende, evidenziando così un fine speculativo dell’operazione. Per converso, la stessa norma esclude dalla propria operatività gli acquisti per successione o le abitazioni principali, proprio perché in questo caso il titolo in base al quale si è divenuti proprietari o la destinazione di un immobile che viene rivenduto entro 5 anni esclude, per sua natura, un intento speculativo all’origine”. La cessione dell’immobile non deve, evidentemente, rientrare nell’ambito delle attività produttive di reddito d’impresa ai sensi dell’art. 55 del TUIR, per la configurabilità delle quali devono sussistere i requisiti della abitualità e della professionalità. L’Agenzia delle entrate ha, da ultimo, affermato, nella risposta a interpello del 18 novembre 2022, n. 560, che, ai fini del computo del quinquennio di cui all’art. 67, comma 1, lettera b), del TUIR, “non rileva la circostanza che l’immobile sia stato oggetto di un intervento di ristrutturazione e di ampliamento, essendo, invece, rilevante ai predetti fini l’acquisto dell’immobile stesso”. Tale conclusione appare, in via di principio, condivisibile ma restano da chiarire alcune problematiche interpretative riguardanti le ipotesi di frazionamento del fabbricato e di modifica della sua destinazione d’uso nonché la distinzione tra ristrutturazione dell’immobile e “nuova costruzione” dello stesso. Il Consiglio Nazionale del Notariato ha ritenuto, nello studio n. 182-2019/T del 2020, che occorra, con riferimento alle prime due ipotesi, accertare la tipologia dell’intervento edilizio eseguito, al fine di verificare se prima della cessione del fabbricato sia stata realizzata una attività edilizia di “risanamento o ristrutturazione” tale da far considerare l’appartamento venduto “come un quid novi”, nel qual caso la relativa cessione risulterebbe “idonea a far conseguire plusvalenze, in quanto collocabile nello spazio applicativo proprio della vendita infra-quinquennale di ‘bene costruito’ di cui all’art. 67, comma 1, lett. b), del TUIR”. Si ritiene, però, che tale conclusione risulti in parte superata dal chiarimento fornito dall’Agenzia delle entrate nella menzionata risposta a interpello n. 560 del 2022 ma resta da verificare se la ristrutturazione dell’immobile risulti così profonda da configurare, dopo la sua ultimazione, l’esistenza di una “nuova costruzione”, dalla cui ultimazione decorrerebbe il detto periodo quinquennale. Il Consiglio di Stato ha, al riguardo, più volte stabilito che la detta “nuova costruzione” sussiste quando l’immobile viene stravolto nelle sue caratteristiche essenziali, così come autorizzate, a seguito di incrementi volumetrici ovvero di sagoma e prospetti. Si è, invece, in presenza di un intervento di ristrutturazione edilizia quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso. Restano, inoltre, aperte alcune questioni interpretative riguardanti il detto requisito del possesso quinquennale.

2. Le esclusioni

In merito all’esclusione prevista per le unità immobiliari adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari, si ricorda che l’Agenzia delle entrate ha precisato, nella risoluzione del 30 maggio 2008, n. 218, che: • per l’individuazione dei familiari “occorre far riferimento all’art. 5, ultimo comma del TUIR, ove si afferma che, ai fini delle imposte dirette, si intendono come tali il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado”; • “per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente o i suoi familiari dimorano abitualmente”. E’ stato, inoltre, precisato che “la circostanza che il contribuente dimora (o ha dimorato per un certo periodo) abitualmente in un luogo diverso da quello risultante dai registri anagrafici deve poter essere dimostrata sulla base di circostanze oggettive, quali l’intestazione delle utenze domestiche, l’utilizzo effettivo dei servizi connessi e l’indicazione del domicilio nella corrispondenza ordinaria … Ove, non si verifichi tale condizione la plusvalenza da assoggettare a tassazione risulta costituita dalla differenza tra il corrispettivo percepito per la cessione dell’immobile … e il prezzo … pagato per la nuda proprietà, aumentato di ogni altro costo inerente al bene, ai sensi dell’art. 68 del TUIR e rivalutato secondo gli indici ISTAT”. Nella risoluzione del 7 marzo 2008, n. 82/E, è stato precisato che il coniuge può trovarsi anche in regime di separazione. La Corte di cassazione ha affermato, nella ordinanza del 16 luglio 2019, n. 18963, che il modesto consumo delle utenze domestiche (energia elettrica, gas e telefono) autorizza, salvo prova contraria, l’ufficio a ritenere che l’immobile ceduto a titolo oneroso prima del decorso dei cinque anni non sia stato adibito ad abitazione principale per la maggior parte del periodo di possesso. Nella ordinanza del 23 febbraio 2021, n. 4757, è stato, altresì, specificato che la mancata destinazione ad abitazione principale di un immobile acquistato con tale finalità e poi rivenduto entro i successivi cinque anni, a causa della persistente occupazione abusiva del conduttore che ha determinato l’impossibilità per l’acquirente di conseguire la disponibilità materiale dell’immobile, non costituisce causa di forza maggiore; talché l’imposta sostitutiva versata a titolo di plusvalenza resta dovuta e non può essere oggetto di rimborso. Si è posta la questione se l’immissione dell’immobile sotto il vincolo di trust interrompa o meno il decorso del quinquennio di possesso in corso di maturazione presso il settlor. Si ritiene che tale decorso non subisca, in tal caso, un’interruzione perché lo “spossessamento” dei beni in sede di dotazione del trust avviene ai soli fini di amministrazione, come chiarito nella circolare n. 48/E del 2007. Anche nella circolare del 20 ottobre 2022, n. 34/E, è stato precisato che “nel caso di apporto al trust di beni diversi da quelli relativi all’impresa, in assenza di corrispettivo, non si genera materia imponibile, ai fini della imposizione sui redditi, né in capo al disponente non imprenditore né in capo al trust, sempreché lo stesso non si qualifichi commerciale”.
Sono, altresì, escluse: • le plusvalenze derivanti dalla rivendita infra-quinquennale di fabbricati acquisiti per usucapione, atteso che la prima parte della lett. b) contempla solo le fattispecie in cui gli immobili ceduti sono stati acquisiti mediante atto traslativo di carattere oneroso e non acquisiti a titolo originario. L’Agenzia delle entrate si è espressa in tal senso nella risoluzione del 31 marzo 2003, n. 78/E. Il Consiglio Nazionale del Notariato, nello studio del 31 gennaio 2020, n. 182-2019/T, ha posto la questione se tale conclusione, relativa all’ipotesi di usucapione “giudiziale”, possa valere anche in caso di rivendita di fabbricati e terreni non suscettibili di utilizzazione edificatoria posta in essere nei cinque anni dalla data di deposito del verbale di mediazione che ne accerti l’avvenuta usucapione ai fini della trascrizione ex art. 2643, n.12-bis, c.c. Al riguardo è stato osservato che la questione non è di agevole soluzione perché quest’ultima ipotesi di acquisto si considera avvenuta in parte a titolo derivativo e in parte a titolo originario; • le plusvalenze derivanti da cessioni effettuate a titolo gratuito, dopo la modifica normativa operata con il D.L. n. 223 del 2006. Nella risoluzione del 14 febbraio 2014, n. 20/E, è stato affermato che la risoluzione per mutuo consenso di una donazione costituisce un negozio risolutorio e ripristinatorio con effetti retroattivi, a seguito del quale il donante viene ripristinato nella proprietà del bene donato con effetto ex tunc. Pertanto, il periodo quinquennale decorre dalla data di acquisto dell’immobile da parte dell’originario donante e il costo rilevante è quello dallo stesso sostenuto.

3. La determinazione della plusvalenza

L’art. 68, comma 1, del TUIR prevede che le plusvalenze di cui all’art. 67, comma 1, lett. a) e b), sono costituite dalla differenza tra i corrispettivi percepiti nel periodo d’imposta e il prezzo di acquisto o il costo di costruzione del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo specificamente inerente al bene medesimo. La Corte di cassazione ha affermato, nella ordinanza del 12 gennaio 2022, n. 782, che la plusvalenza deve essere calcolata prendendo in considerazione solo le quote parti dei beni immobili acquistati e successivamente ceduti. Pertanto, se solo il 50 per cento dell’immobile è stato acquistato e successivamente venduto, la plusvalenza deve essere calcolata sottraendo al prezzo di vendita quello di acquisto e dividendo il risultato per due. Si ritiene che tra i costi specificamente inerenti rientrino, ad esempio, le imposte sui trasferimenti, le spese notarili, i compensi corrisposti agli intermediari, le spese sostenute per liberare l’immobile da servitù, oneri e altri vincoli. Il Consiglio nazionale del Notariato ha affermato, nello studio n. 34-2006/T, che tra i costi inerenti rientrino anche le spese sostenute dal cedente e necessarie alla vita del bene, comprese (oltre alle spese sopra evidenziate) quelle di costruzione del fabbricato (spese di progettazione, per consulenze professionali, relative al contratto di appalto, di demolizione dei manufatti preesistenti sul terreno), di manutenzione straordinaria e volte ad incrementarne il valore, indicate nell’art. 13 del d.P.R. n. 643/1972 (diverse, quindi, dalle spese attinenti alla ordinaria manutenzione e gestione del bene) nonché le spese relative alle opere di urbanizzazione primaria o secondaria che risultano da convenzione o da altri atti di impegno stipulati con i Comuni o dalle delibere degli stessi. Non dovrebbero, invece, essere inclusi gli interessi passivi sostenuti in relazione alla costruzione del fabbricato, che non incrementano il valore dello stesso. Rientra tra le spese incrementative, rilevanti per la determinazione delle plusvalenze in esame, la quota parte di quelle sostenute a livello condominiale per gli interventi di miglioramento antisismico dell’edificio in cui è sita l’unità immobiliare oggetto di cessione infra-quinquennale, nonché le spese sostenute a livello individuale direttamente dal possessore della singola unità immobiliare per gli interventi di sostituzione dei serramenti interni. L’Agenzia delle entrate ha, infatti, precisato che “risulta irrilevante, ai fini del calcolo della plusvalenza, la circostanza che per le spese sostenute per l'acquisto dell'immobile ceduto a titolo oneroso si sia fruito di una detrazione, ivi compreso il Superbonus di cui al citato articolo 119 del decreto Rilancio. Risulta, altresì, irrilevante, ai medesimi fini, che per le predette spese l'istante eserciti l'opzione, ai sensi del citato articolo 121 del medesimo decreto Rilancio, per il cd. "sconto in fattura" o cessione del credito, trattandosi di una modalità alternativa alla fruizione diretta della predetta detrazione”. Si ritiene che tali precisazioni siano estendibili anche agli altri “bonus edilizi”. Il legislatore ha individuato espressamente come momento di imputazione temporale dei redditi in esame quello della “percezione” del corrispettivo e, quindi, gli stessi partecipano alla formazione del reddito complessivo in basae al principio di cassa. La Corte di cassazione ha affermato, nell’ordinanza del 2 ottobre 2020, n. 21115, che nel caso di vendita di un terreno edificabile per il quale, a causa di una truffa, il cedente non ha percepito il corrispettivo di vendita, la plusvalenza immobiliare non è tassabile. Nella sentenza del 24 luglio 2013, n. 17960, la stessa Corte ha precisato che se il prezzo della cessione è stato corrisposto anteriormente alla stipula dell’atto di cessione dell’immobile, sulla base di un contratto preliminare, i pagamenti parziali avvenuti anteriormente all’atto di cessione assumono rilevanza, ai fini impositivi, nel momento del trasferimento immobiliare. Ciò in quanto l’art. 67, comma 1, lett. b), del TUIR stabilisce che costituiscono redditi diversi le plusvalenze “realizzate” mediante cessioni a titolo oneroso e il realizzo della plusvalenza richiede un atto di trasferimento di proprietà a titolo oneroso. Adottando una diversa soluzione interpretativa si dovrebbero “considerare imponibili corrispettivi che si riferiscono ad una cessione non ancora compiuta; ciò renderebbe concretamente serio il rischio di mancato assoggettamento della plusvalenza a tassazione, favorendo ipotesi di strategie elusive indirizzate a differire sine die l’effetto traslativo, pur essendo stato corrisposto l’intero corrispettivo da cui emerge la plusvalenza”. Tale orientamento interpretativo ha trovato conferma nelle successive ordinanze del 21 gennaio 2020, n. 1242, e del 30 gennaio 2020, n. 2154, nelle quali è stato affermato che non rileva il pagamento del corrispettivo sulla base di un contratto preliminare - ancorché con immediata consegna del bene -, attesi gli effetti solo obbligatori dello stesso, bensì il momento in cui si verifica l’effetto traslativo del negozio coincidente con la stipula del contratto definitivo. Il differimento finanziario del pagamento del prezzo nella vendita a rate senza riserva di proprietà assume rilevanza, ai fini della determinazione del momento di imponibilità della plusvalenza, a seconda della scelta operata dal contribuente circa l’assoggettamento a tassazione ordinaria o ad imposizione sostitutiva del 26 per cento. Al riguardo il Consiglio nazionale del notariato ha osservato, nello studio n. 182-2019/T, che in quest’ultimo caso il pagamento dell’imposta dovrebbe avvenire integralmente al momento della cessione, e non in relazione al pagamento delle singole rate.

4. Il possesso quinquennale

Appare utile ricordare i chiarimenti forniti dall’Amministrazione finanziaria anche in merito al requisito temporale del quinquennio. Nella circolare del 4 agosto 2006, n. 28/E, è stato sancito che in caso di immobili acquisiti per donazione occorre avere riguardo alla data di acquisto da parte del donante e non a quella in cui è avvenuta la donazione. Nella già menzionata risoluzione n. 20/E del 2014, è stato ritenuto, con riguardo al caso della risoluzione per “mutuo consenso” di un atto di donazione avente per oggetto diritti reali immobiliari, che il periodo di cinque anni debba essere determinato a partire dalla data di acquisto dell’immobile da parte dell’originario donante. L’Agenzia delle entrate ha, inoltre, ricordato, nella già citata risoluzione n. 218 del 2008, che nella categoria dei diritti reali “si situano i cd. diritti reali su cosa altrui, i quali, presuppongono una scissione di facoltà nell’ambito del diritto di proprietà, nel senso che talune di esse sono compresse, con il consenso e, talvolta, anche contro la volontà del proprietario, così da permettere a un terzo di esercitare un diritto che ha come contenuto dette facoltà. Ai sensi dell’art. 981 del Codice civile, l’usufrutto attribuisce all’usufruttuario il diritto di godere e di usare la cosa, facendone però salva la destinazione economica. Data la temporaneità dell’usufrutto (art. 979 c.c.), in caso di morte del titolare, il diritto di proprietà riacquista automaticamente la propria pienezza, senza bisogno di alcuna forma giuridica di riappropriazione e senza, dunque, alcun atto di retrocessione (si parla al riguardo di consolidazione). Colui che acquista il diritto di nuda proprietà ha già potenzialmente acquistato il diritto della proprietà integrale. Quindi, quando interviene la consolidazione, il nudo proprietario dell’immobile non acquista un nuovo diritto reale sull’immobile, ma vede riespandersi il diritto di proprietà già presente nel suo patrimonio. Pertanto, in sede di consolidazione della nuda proprietà con il diritto di usufrutto, non trova applicazione l’art. 9 comma 5 del TUIR, il quale stabilisce che ai fini delle imposte sui redditi le disposizioni relative alle cessioni a titolo oneroso valgono anche per gli atti a titolo oneroso che importano costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento”. Di conseguenza, al fine di verificare l’eventuale emersione di una plusvalenza imponibile ai sensi dell’art. 67 comma 1 lett. b), “occorre riferirsi al momento dell’acquisto della nuda proprietà”. Con riguardo ai fabbricati in corso di costruzione, la stessa Agenzia ha affermato, nella risoluzione del 28 gennaio 2009, n. 23/E, che il termine quinquennale decorre dal momento in cui l’immobile è stato realizzato. A tal fine, perché si abbia un fabbricato esistente è sufficiente che esista almeno un rustico comprensivo delle mura perimetrali, delle singole unità e che sia completata la copertura, conformemente a quanto disposto dall’art. 2645-bis, comma 6, c.c. Nella risoluzione del 30 gennaio 2009, n. 28/E, è stato affermato che in caso di vendita a rate con riserva di proprietà il momento di decorrenza del quinquennio è quello in cui si verifica l’effetto traslativo (con il pagamento dell’ultima rata del prezzo), mentre non assume rilevanza il momento di stipula dell’atto di compravendita. Alla medesima conclusione è pervenuta la Corte di cassazione nella sentenza del 20 novembre 2015, n. 23751, in quanto, in mancanza di una espressa disposizione derogatoria, le cessioni a titolo oneroso con clausola di riserva della proprietà debbono essere valutate fiscalmente secondo la regola generale che assume l’effetto traslativo come presupposto impositivo. In tale sentenza è stata, inoltre, assimilata l’iniziale immissione nel possesso dell’immobile all’esercizio di un diritto reale di godimento e precisato che tale situazione, “connotata da realità”, può essere essa stessa oggetto di cessione a titolo oneroso ai sensi dell’art. 1406 c.c., nel qual caso assume rilevanza fiscale l’eventuale autonoma cessione ai fini dell’accertamento della plusvalenza eventualmente realizzata. In presenza, invece, di una vendita a rate senza riserva di proprietà l’effetto traslativo avviene alla stipula dell’atto e a tale momento va ricondotto l’inizio del quinquennio di proprietà rilevante ai fini impositivi. Nella circolare del 19 febbraio 2015, n. 4/E, l’Agenzia ha ritenuto che, in presenza di immobili oggetto di un contratto di godimento in funzione della loro successiva alienazione (c.d. rent to buy), poiché le parti contraenti sono tenute ad indicare nel contratto la quota di canone imputato al corrispettivo della vendita dell’immobile, detta quota di canone debba essere assimilata, ai fini fiscali, agli acconti-prezzo della successiva vendita dell’immobile. Tali quote di canone sono, quindi, imponibili per il proprietario/concedente non durante il periodo di concessione in godimento dell’immobile ma in quello della cessione dello stesso (ossia quando il conduttore si avvale del diritto di acquistarlo) entro il termine di 5 anni dall’acquisto o costruzione. Diversamente, se la cessione dell’immobile interviene in una data successiva, il corrispettivo che il proprietario riceve non rileva ai fini delle imposte sui redditi. Se non si procede alla stipula del contratto di compravendita, detti acconti prezzo assumono rilevanza fiscale quali redditi diversi derivanti dall’assunzione di obblighi riconducibili a quelli di fare, non fare e permettere, di cui all’art. 67, comma 1, lett. l), del TUIR. L’Agenzia ha, altresì, fornito, con la circolare del 20 aprile 2018, n. 6, chiarimenti in merito al trattamento fiscale dei corrispettivi ricevuti a seguito di costituzione e cessione di diritto reale di superficie, facendo riferimento al disposto dell’art. 9, comma 5, del TUIR e all’orientamento espresso dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 15333 del 2014. E’ stato ritenuto che alla costituzione ed alla cessione di diritti reali di superficie debba essere applicata la disciplina delle cessioni a titolo oneroso e, in particolare, quella contenuta negli artt. 67 e 68 del TUIR. Pertanto, se la persona fisica o la società semplice costituisce un diritto di superficie su un’area fabbricabile, il corrispettivo percepito concorre in ogni caso a formare la plusvalenza da assoggettare ad imposizione quale reddito diverso. Qualora, invece, il diritto di superficie sia costituito su un terreno a destinazione agricola (comprensivo dei fabbricati rurali strumentali), il corrispettivo percepito è imponibile soltanto se non siano trascorsi almeno cinque anni dall’acquisto del terreno o dello stesso diritto di superficie. Tale conclusione appare condivisibile, atteso che l’art. 9, comma 5, del TUIR stabilisce che, ai fini delle imposte sui redditi, le disposizioni relative alle cessioni a titolo oneroso si applicano anche con riguardo agli atti che comportano la costituzione o il trasferimento di diritti reali di godimento. Nella risposta a interpello del 22 novembre 2018, n. 83, è stato affermato che in caso di vendita infra-quinquennale del box auto destinato a pertinenza dell’abitazione principale autonomamente da quest’ultima l’eventuale plusvalenza deve essere assoggettata ad imposizione. E’ stato ricordato che il vincolo pertinenziale richiede la sussistenza di due elementi: a) uno oggettivo, consistente nella destinazione durevole e funzionale a servizio o ad ornamento intercorrente tra un bene e un altro (bene principale) per il migliore uso di quest’ultimo; b) uno soggettivo, che si traduce nella volontà, manifestata dal titolare del bene principale o da chi ne abbia sul medesimo un diritto reale, di porre la pertinenza in un rapporto di strumentalità funzionale con la cosa principale. Inoltre, in base al successivo articolo 818 c.c., alle pertinenze si applica, se non diversamente disposto, lo stesso regime giuridico stabilito per la cosa principale. E’ stato poi ribadito che l’art. 10, comma 3-bis, del TUIR stabilisce che “per abitazione principale si intende quella nella quale la persona fisica, che la possiede a titolo di proprietà o altro diritto reale, o i suoi familiari dimorano abitualmente”. Costituiscono, inoltre, pertinenze, ai sensi dello stesso articolo, “le cose immobili di cui all’art. 817 del codice civile, classificate o classificabili in categorie diverse da quelle ad uso abitativo, destinate ed effettivamente utilizzate in modo durevole a servizio delle unità immobiliari adibite ad abitazione principale delle persone fisiche”. L’Agenzia ha, quindi, ritenuto che nel caso in cui la pertinenza venga ceduta separatamente dall’abitazione principale si elide il vincolo di strumentalità funzionale della pertinenza rispetto al bene principale, per cui l’operazione posta in essere assume una diversa connotazione, avendo ad oggetto un immobile che non può essere assimilato all’abitazione principale. Ad una diversa conclusione era, invece, pervenuto, con riguardo alla cessione di uno scantinato pertinenziale all’abitazione principale, il Consiglio Nazionale del Notariato nello studio del 23 settembre 2011, 45/2011/T, nel quale era stato evidenziato che l’art. 67, comma 1, lett. b), del TUIR fa riferimento alla cessione onerosa infra-quinquennale di unità immobiliari urbane, la cui definizione può essere desunta dall’art. 36 del TUIR, nel quale sono menzionati “i fabbricati e le altre costruzioni stabili o le loro porzioni suscettibili di reddito autonomo” e si considerano parti integranti dell’“unità immobiliare urbana” anche le aree occupate dalle costruzioni nonché le pertinenze. A favore della possibilità di equiparare l’ipotesi di cessione infra-quinquennale della sola pertinenza a quella dell’unità abitativa principale era stato rilevato che nel detto art. 10, comma 3-bis, viene riservato alla pertinenza il medesimo trattamento di esenzione, consentendo una deduzione dal reddito complessivo anche per la rendita catastale rivalutata della pertinenza. Tale disposizione dimostrerebbe, pertanto, l’intento del legislatore di valorizzare la connessione “economica” (e non meramente “materiale”) tra il bene principale ed il bene accessorio. Adottando tale soluzione interpretativa sarebbe sufficiente che il vincolo pertinenziale sussista sino al momento della cessione “separata”. Quest’ultimo orientamento appare condivisibile, atteso che la norma presume che l’intento speculativo non sussista dopo che siano trascorsi cinque anni di ininterrotto possesso (ovvero in caso di utilizzo diretto del bene come abitazione principale). Si ritiene, pertanto, che anche i casi in esame debbano essere valutati alla luce di tali previsioni normative. Con riferimento, invece, ad una operazione di scissione parziale asimmetrica di una società semplice, finalizzata alla creazione di due società semplici, di proprietà di due diversi nuclei familiari, che intendono dividersi il patrimonio immobiliare, l’Agenzia delle entrate, con la risposta all’interpello del 4 dicembre 2018, n. 91, ha chiarito che il trasferimento di beni dalla società scissa alla società beneficiaria “appare, sotto il profilo fiscale, irrilevante perché la stessa non è riconducibile nell’ambito oggettivo di applicazione dell’articolo 67 del Tuir, che individua compiutamente le operazioni dei soggetti passivi persone fisiche (articolo che si rende applicabile anche nei confronti degli atti della società semplice, come soggetto passivo d’imposta). Più in particolare, il richiamato trasferimento di beni dalla società scissa alle società beneficiarie, se da un lato rappresenta un’operazione di scissione lecita e disciplinata dal codice civile, dall’altro non trova compiuta e corrispondente disciplina nelle disposizioni di carattere fiscale riferibili alle società semplici. Ne consegue l’irrilevanza dell’operazione sotto tale ultimo profilo”. L’Agenzia delle entrate ha poi affrontato, nelle risposte ad interpello dell’8 ottobre 2021, nn. 689 e 691, la questione concernente la rilevanza, ai fini della disciplina in esame, dello scioglimento della società semplice, chiarendo che se quest’ultima detiene immobili da più di cinque anni la loro assegnazione ai soci non assume rilevanza impositiva.

5. Gli immobili ristrutturati

L’Agenzia delle entrate ha, da ultimo, preso in esame, nella risposta a interpello del 18 novembre 2022, n. 560, il caso di un fabbricato posseduto da una persona fisica non residente in Italia proprietaria di un “villino (categoria catastale A/7 ‘Abitazioni in villini') con piscina, corte esclusiva e terreno pertinenziale” posseduto da più di cinque anni, oggetto di “opere di ristrutturazione del fabbricato esistente ed un piccolo ampliamento” e ceduto dopo un breve lasso temporale dal termine di tali opere. L’Agenzia ha, al riguardo, affermato che, ai fini del computo del quinquennio di cui all’art. 67, comma 1, lettera b), del TUIR, “non rileva la circostanza che l’immobile sia stato oggetto di un intervento di ristrutturazione e di ampliamento, essendo, invece, rilevante ai predetti fini l’acquisto dell’immobile stesso”. E’ stato, pertanto, ritenuto che la cessione dell’immobile dopo il quinquennio dalla data di acquisto dello stesso non determini l’emersione di una plusvalenza imponibile quale reddito diverso, a condizione che l’istante effettui la detta cessione al di fuori dell’esercizio di attività di impresa, arti e professioni. Tale conclusione appare condivisibile perché la ristrutturazione dell’immobile non può essere equiparata all’acquisizione o alla costruzione dello stesso, che è avvenuta in precedenza. Ciò sempre che dopo l’ultimazione della detta ristrutturazione non sia configurabile l’esistenza di una “nuova costruzione”. Restano, però, aperte alcune problematiche. La prima è stata affrontata dal Consiglio Nazionale del Notariato nel già menzionato studio n. 182-2019/T del 2020 e riguarda il caso della cessione avvenuta dopo i cinque anni dall’acquisto del fabbricato originario ed avente ad oggetto solo la parte di quest’ultimo che risulta ottenuta a seguito di frazionamento edilizio eseguito negli ultimi cinque anni. In tale studio è stato osservato che in merito a tale caso l’Agenzia delle entrate si è espressa, nella risoluzione del 30 maggio 2008, n. 219/E, “in maniera equivoca”, avendo affermato che “la vendita delle unità immobiliari risultanti dal frazionamento dell’appartamento non determina plusvalenza tassabile, sempreché lo stesso sia stato destinato ad abitazione principale dal contribuente o dai suoi familiari per la maggior parte del tempo intercorrente tra la data d’acquisto dell’immobile, successivamente frazionato, e la data di vendita di entrambi gli appartamenti risultanti dal frazionamento ovvero le date delle singole cessioni, se effettuate separatamente”. A parere del Consiglio Nazionale tale affermazione “potrebbe essere letta nel senso che la vendita dell’appartamento frazionato non faccia emergere plusvalenze imponibili, ma potrebbe anche equivalere a dire che, se non fosse ricorsa la causa di esclusione, la stessa vendita del bene frazionato avrebbe potuto far conseguire un reddito tassabile”. E’ stato ritenuto, al riguardo, necessario verificare se prima della cessione del fabbricato sia stata realizzata una attività edilizia di “risanamento o ristrutturazione” – comprensiva anche del frazionamento – tale da far considerare l’appartamento venduto nel quinquennio successivo a quest’ultimo “come un quid novi”, nel qual caso la relativa cessione risulterebbe “idonea a far conseguire plusvalenze, in quanto collocabile nello spazio applicativo proprio della vendita infra-quinquennale di ‘bene costruito’ di cui all’art. 67, comma 1, lett. b), del TUIR”. Qualora, invece, “il frazionamento fosse stato autorizzato con una semplice Cila, ci troveremmo di fronte a un frazionamento autonomo e di portata ‘minore’ e potremmo ritenere la relativa cessione come non plusvalente” qualora sia possibile far valere la causa di esclusione relativa al decorso del quinquennio dall’acquisto, “perché sostanzialmente la cessione riguarderebbe, sia pur soltanto in minor consistenza, lo stesso bene di cui il cedente risultava già proprietario da tale data”. La descritta impostazione interpretativa appare, però, in parte superata dal chiarimento fornito dall’Agenzia delle entrate nella risposta a interpello n. 560 del 2022, nella quale è stato affermato che “ai fini del computo del quinquennio … non rileva la circostanza che l’immobile sia stato oggetto di un intervento di ristrutturazione e ampliamento essendo, invece, rilevante ai predetti fini l’acquisto dell’immobile stesso”. E’ stato, evidentemente, ritenuto che tale tipologia di intervento non sia in grado, almeno in via di principio, di configurare “un quid novi” rispetto al fabbricato già esistente. Pertanto, si ritiene che la decorrenza del quinquennio in esame vada verificata a partire dalla data dell’acquisto e non da quella del frazionamento del bene. Nel richiamato studio del Consiglio Nazionale del Notariato è stata affrontata anche la questione concernente l’ipotesi di modifica di destinazione d’uso dell’immobile. E’ stato, al riguardo, ricordato che anche in questo caso l’Agenzia delle entrate, nella risoluzione del 21 maggio 2007, n. 105/E, “ha assunto una posizione non definita, ritenendo che l’immobile risultante dalla modifica d’uso da C2 ad A7 ‘possa essere considerato idoneo all’uso abitativo solo dalla data in cui sia stato effettivamente iscritto nella categoria catastale A7’. Pur escludendosi, infatti, correttamente ogni possibilità di utilizzo di parametri soggettivi, non si fa riferimento anche alla specifica tipologia di intervento da cui sia scaturita la modifica di destinazione d’uso ma soltanto alla variazione della classificazione catastale, dalla quale però non risulterebbe possibile stabilire con la certezza richiesta dal sistema se ci sia stata una ‘effettiva ultimazione della costruzione’ nel senso richiesto dall’art. 67, lett. b), del TUIR”. A parere del Consiglio Nazionale occorrerebbe, invece, accertare la tipologia dell’intervento edilizio eseguito, analogamente a quanto sostenuto con riguardo all’ipotesi di frazionamento. Si ritiene che anche tale conclusione vada “riletta” alla luce della conclusione cui è pervenuta la risposta a interpello n. 560 in esame. Resta, però, la necessità di verificare, con riguardo ad entrambe le problematiche sopra esaminate, se la ristrutturazione dell’immobile risulti così profonda da configurare, dopo la sua ultimazione, l’esistenza di una “nuova costruzione”. Il Consiglio di Stato, sez. VI, nella sentenza del 13 gennaio 2021, n. 423, ha affermato, richiamando un proprio consolidato orientamento, che “quando un manufatto viene stravolto nelle sue caratteristiche essenziali, così come autorizzate, l’intervento è da qualificare non di ‘ristrutturazione’ bensì di ‘nuova costruzione’. Con tale locuzione si intende qualsiasi intervento che consista in una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, attuata attraverso opere di rimodellamento della morfologia del terreno, ovvero costruzioni lato sensu intese che … presentino un simultaneo carattere di stabilità fisica e di permanenza temporale, dovendosi con ciò intendere qualunque manufatto che sia fisicamente ancorato al suolo”. Nel parere del 15 febbraio 2022, n. 378, emesso dalla Adunanza della prima Sezione del Consiglio di Stato, è stata poi sancita la sostanziale assimilabilità dell’intervento di ristrutturazione edilizia caratterizzato da incrementi volumetrici ovvero di sagoma e prospetti a quello di nuova costruzione, quantomeno per le porzioni che costituiscono un novum rispetto all’immobile preesistente. Da ultimo, nella sentenza del 15 settembre 2022, n. 7993, è stata ribadita la nozione di ‘nuova costruzione’ contenuta nella precedente sentenza n. 423 del 2021 e precisato che l'intervento di ristrutturazione edilizia sussiste, invece, quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso. Tuttavia, qualora il manufatto sia stato totalmente trasformato, con conseguente creazione non solo di un apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume complessivo dell'intero fabbricato) ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli della struttura originaria, l'intervento rientra nella nozione di nuova costruzione, nella quale possono, quindi, rientrare anche gli interventi di ristrutturazione qualora, in considerazione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione dell'immobile, possa parlarsi di una modifica radicale dello stesso, con la conseguenza che l'opera realizzata nel suo complesso sia oggettivamente diversa da quella preesistente. In definitiva, pur consentendo l'art. 10, comma 1, lett. c), del DPR n. 380 del 2001 di qualificare come interventi di ristrutturazione edilizia anche le attività volte a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente - implicanti modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti – la stessa si può configurare solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma siano di portata limitata e comunque riconducibili all'organismo preesistente. Il Consiglio di Stato ha, inoltre, precisato che il restauro e il risanamento conservativo non possono mai portare a configurare un “organismo in tutto o in parte diverso dal preesistente”, avendo sempre la finalità di “conservare l'organismo edilizio” ovvero di “assicurarne la funzionalità”.

Fonte: Corriere Tributario n. 1/2023

Prof. Gianfranco Ferranti, Ordinario Diritto Tributario Scuola Nazionale dell’Amministrazione, Direttore Rivista “Il Fisco”, Condirettore scientifico della rivista “Corriere Tributario”

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