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Detrazione IVA nei contesti fraudolenti: prevale il giustizialismo o la giustizia?

Avv. Clino De Ieso

Iva e Dogane

La sentenza della Corte di Giustizia in causa C-281/20 del 2021, che ha concluso per il disconoscimento della detrazione IVA esercitata dal cessionario in un contesto di frode, solleva delle problematiche dogmatiche delicatissime, fra cui l’individuazione delle misure legislative per contrastare il fenomeno delle operazioni soggettivamente inesistenti. Al di là della soluzione offerta dalla Corte, senz’altro giustificata dalla piena consapevolezza da parte del cessionario che gli acquisti provenivano da una catena di operazioni illecite, non appare del tutto convincente la scelta del giudice relatore di negare il diritto alla detrazione onerando il cliente della prova - che, in alcuni casi, potrebbe rivelarsi impossibile da assolvere, dunque, diabolica - deviando, così, dalla più logica e consolidata giurisprudenza europea in tema di frodi, che, invece, condiziona la detrazione alla buona fede dell’operatore.

Quali sono le misure che l’Autorità tributaria dovrebbe adottare, qualora accerti che il cliente abbia fraudolentemente occultato in fattura l’identità del vero fornitore della cessione o prestazione IVA? Si può ritenere che la motivazione della sentenza in commento della Corte UE, relativa alla causa C-281/20 del 2021, sia davvero in sintonia con le indicazioni della Corte di Giustizia in materia di frode? Specialmente, laddove nega la detrazione onerando il cliente di una prova diabolica circa la qualifica di soggetto passivo IVA del suo fornitore e, così, deviando dalla più logica e consolidata giurisprudenza europea. La quale, invece, condiziona il diritto di detrazione ad una condotta in buona fede dell’operatore, cioè, diligente ed accorta e che, quindi, lo mette al riparo dall’essere coinvolto in contesti che, successivamente all’effettuazione dell’operazione, si possano rivelare fraudolenti. Sono alcune delle questioni dogmaticamente delicatissime, sollevate dalla sentenza in commento, che andranno risolte attraverso soluzioni non sommarie e neppure affidate ad un isolato giustizialismo, ma capaci di abbracciare, tramite un bilanciamento ragionevole, le esigenze ugualmente contrapposte dell’Erario e degli operatori economici: i quali, com’è noto, sono attualmente costretti a verificare l’affidabilità della controparte contrattuale non su una via lastricata di norme e documenti di prassi ben scolpite, ma in uno spazio giuridico ancora fluido in cui i concetti risultano troppo sfuggenti ed incerti. Su queste basi, si proverà ad inquadrare la pronuncia in esame e le sue ricadute applicative nell’ambito della complessiva evoluzione degli orientamenti assunti dalla giurisprudenza, sia europea che nazionale, in relazione alla tematica delle frodi IVA.

Le misure legislative di contrasto alle frodi IVA

L’essenza dell’imposta sul valore aggiunto non è rintracciabile né dal suo nome, né tanto meno dalla sua natura di imposta sul consumo. In realtà, il tratto caratterizzante dell’IVA è il presupposto oggettivo in quanto il tributo colpisce l’operazione, sia essa B2B o B2C. Mentre, a corollario di ciò, il passaggio al consumo del bene o servizio, irrilevante ai fini dell’imposizione, è invece dirimente per far ricadere sul consumatore finale il peso definitivo del prelievo di cui, invece, resta tendenzialmente indenne non solo l’Erario, ma anche l’operatore che possiede e spende lo status di soggetto passivo “nella sua qualità di collettore d’imposta per conto dello Stato”. Questa peculiarità fa sì che il sistema IVA non sia assimilabile agli altri settori fiscali, in cui l’Autorità tributaria si trova sempre in una posizione dominante rispetto al contribuente. La Direttiva 2006/112/CE è, infatti, costruita per assicurare ai soggetti passivi un livello - che si equivale a quello dell’Erario - di protezione del loro diritto alla neutralità sempre che le operazioni siano effettuate al di fuori di un contesto illecito, abusivo o fraudolento. Diversamente, cioè, quando l’operatore diventa un complice di chi compie un’evasione, l’interesse erariale ritorna a primeggiare e, quindi, il soggetto passivo è chiamato a rispondere del danno erariale prodotto dalla catena di operazioni fraudolente. Utile a questa ricostruzione è la sentenza Tribunal Económico Administrativo Regional de Galicia3. La vicenda si svolge nell’ambito delle feste patronali e delle sagre nella Regione spagnola della Galizia. La gestione delle feste viene affidata ad un gruppo di imprese per il tramite di un agente artistico che, a nome del gruppo, contatta i comitati per le feste negoziando, fra l’altro, l’esibizione delle orchestre. L’agente artistico, per il servizio reso, riceve il 10% delle entrate del gruppo. All’esito del controllo fiscale, i verificatori accertano che tutti i soggetti hanno fraudolentemente occultato l’operazione. Difatti, sia il gruppo che l’agente artistico non hanno fatturato, né contabilizzato e tanto meno dichiarato i pagamenti a loro favore avvenuti, com’era immaginabile, rigorosamente in contanti. Come si vede, l’evasione è clamorosa: eppure la Corte di Giustizia si preoccupa di salvare il principio di neutralità stabilendo che il prezzo dell’operazione “in nero” debba intendersi non escluso, ma “comprensivo dell’IVA che ha gravato su detta operazione (...) a meno che, secondo il diritto nazionale, i soggetti passivi abbiano la possibilità di ripercuotere e detrarre successivamente l’IVA in questione, nonostante l’evasione” (punti 34 e 39). Tale motivazione, che può sembrare sorprendente, è invece tipica delle moderne Corti sovranazionali che ricercano, in ogni decisione, una risposta che garantisca l’ordine e la coesione sociale attraverso un bilanciamento fra gli interessi contrapposti delle parti. Sicché, osservano i giudici europei, la conclusione che porta nella specie a considerare “l’IVA compresa” nel corrispettivo non fatturato e non dichiarato, ma realmente percepito dall’agente artistico, “a prescindere dal fatto che tali omissioni siano o meno frutto di un intento fraudolento”, diventa fondamentale per mitigare il “margine inevitabile di incertezza” che esiste nelle risultanze di “un’ispezione fiscale” effettuata “dall’Amministrazione nazionale interessata” e diretta “a ripristinare la situazione quale sarebbe esistita in assenza di irregolarità e, a fortiori, di frode”. Del resto, aggiunge la Corte, nonostante “tale Amministrazione si sforza, mediante diversi metodi, di ricostruire le operazioni occultate e i redditi elusi, si deve tuttavia rilevare che tali metodi non possono pretendere un’affidabilità perfetta” (punti 32 e 33). È un approdo che - si badi bene - non va nella direzione di abbassare il livello di guardia nel contrasto all’evasione, ma, al contrario, secondo l’esortazione della Corte rivolta ai legislatori nazionali, di combatterla in modo sempre più efficace “non”, per l’appunto, “mediante la determinazione della base imponibile” (punto 38), ma con sanzioni punitive o dissuasive, ovvero con misure ripristinatorie in grado di ristabilire la situazione antecedente alla violazione. Ne è un esempio, la facoltà riconosciuta agli Stati dell’Unione di introdurre una responsabilità solidale del cliente per il pagamento dell’IVA a debito non assolta dal fornitore. In tal caso, l’eliminazione del danno erariale non avviene negando al cliente la detrazione dell’imposta corrisposta sugli acquisiti, che dunque resta pienamente legittima, ma obbligando lo stesso cliente a corrispondere all’Erario l’IVA a debito non pagata dal fornitore. Ed è esattamente quanto stabilito dall’art. 60- bis del D.P.R. n. 633/1972, in relazione alle ipotesi di sovrafatturazione per determinate operazioni a rischio di frode. A riguardo, come puntualizzato dalla Cassazione, “il richiamato art. 60-bis (...) prevede”, “in luogo del disconoscimento della detrazione a monte”, “l’obbligo autonomo” a carico del cessionario “di pagare quanto dovuto e non versato dal cedente. La disciplina pertanto non implica la rettifica della posizione del cessionario e trova applicazione l’obbligazione solidale per il semplice fatto giuridico dell’omesso versamento del dovuto da parte del cedente, senza alcuna necessità di ulteriore attività accertativa”.

L’indefinito dovere di diligenza dell’operatore

Nell’attesa che si realizzi un’efficace strategia legislativa a livello europeo contro le frodi IVA, la Corte di Giustizia ha fornito un prezioso assist agli Stati introducendo, in via giurisprudenziale, un principio generale che punisce l’operatore coinvolto nella frode. Secondo tale principio, la perdita di gettito viene recuperata negando al cliente la detrazione dell’IVA o il regime di non imponibilità. Certo, sono lontani i tempi in cui la Cassazione riteneva sufficiente per l’indetraibilità dell’imposta una valutazione riferita al solo risultato oggettivo, vale a dire, al danno generato dalla condotta illecita considerando, per contro, irrilevante la buona fede del soggetto passivo. Oggi non è più così. La Suprema Corte, allineandosi all’insegnamento dei giudici europei, disconosce la detrazione all’operatore che partecipa attivamente nella frode, oppure risulti compartecipe cosciente della frode, seppur non dichiaratamente coinvolto. Ammettendo, viceversa, il diritto alla detrazione in favore del soggetto passivo estraneo, ma compartecipe in buona fede alla frode in quanto lo stesso, pur avendo adottato ragionevoli e proporzionati controlli per assicurarsi l’affidabilità del fornitore, secondo il canone della diligenza della prassi commerciale, non poteva, né avrebbe potuto rendersi conto che l’acquisto proveniva da una catena di operazioni nella quale l’IVA era stata (o sarebbe stata) evasa. Pertanto, come osservato in dottrina, “l’operatore economico anche se non ha preso parte attivamente nella frode, ovvero non ha tratto alcun vantaggio economico dalla stessa, può essere comunque coinvolto se non ha assunto un atteggiamento sufficientemente prudente nel valutare l’affidabilità del proprio cliente”. Inoltre, considerato che “non è possibile predeterminare in maniera oggettiva le verifiche a cui gli operatori sono tenuti, poiché la loro portata ed ampiezza deve essere valutata con riferimento al singolo caso”, “sarebbe opportuno che venissero adottate, in via regolamentare, delle linee guida alle quali i soggetti possono fare riferimento”. Le parole trascritte, che sono pienamente condivisibili, aiutano a constatare che le problematiche connesse al dovere di diligenza a carico dei soggetti passivi riguardano soprattutto le modalità di assunzione delle prove che, tuttavia, in assenza di una specifica disciplina contenuta dalla Direttiva, sono esclusivamente regolate dalle differenti norme nazionali.

Il coinvolgimento nella frode presuppone elementi di prova oggettivi

Dalle riflessioni che precedono è agevole cogliere un primo punto nodale, che sta nel valutare se, in sede di accertamento, l’Autorità fiscale possa presumere il coinvolgimento del soggetto passivo nella frode semplicemente puntando su mere “supposizioni” fondate su criteri standard, cioè, prestabiliti dalla prassi amministrativa e dalla giurisprudenza nazionale. In tema, meritano di essere lette, analizzate e meditate due decisioni, una della Corte di Giustizia, l’altra della Cassazione. In particolare, nell’ordinanza del 3 settembre 2020, riferita alla causa C-611/19, l’Autorità tributaria ungherese ha ripreso a tassazione l’IVA portata in detrazione dal cliente (Crewprint) che è stata indicata nelle fatture emesse dal sub-appaltatore (prestatore). Quest’ultimo, a valle di tale operazione, avrebbe ideato e partecipato ad una catena di operazioni fraudolente con altri sub-appaltatori. Il giudice del rinvio individua la genesi delle criticità nella circostanza che il recupero IVA è fondato su criteri standard (o, per dirla come la Cassazione, su “elementi sintomatici”) che, però, non prevedono l’obbligo a carico dell’ente impositore di verificare la buona fede del soggettivo passivo. La risposta della Corte di Giustizia è molto chiara: la prassi dell’Autorità fiscale ungherese è incompatibile con la Direttiva. Più chiaramente, la Corte osserva che, a fronte della pacifica esistenza delle cessioni di beni fra il fornitore e il sub-appaltatore, il diniego di detrazione presuppone la dimostrazione da parte dell’Autorità fiscale, con mezzi di prova diversi da mere “supposizioni”, che il fornitore abbia partecipato attivamente alla frode (nel caso, neppure provata), ovvero che il medesimo fornitore sapeva o avrebbe dovuto sapere che la catena di operazioni si inseriva nella presunta frode commessa dal sub-appaltatore. In più, precisa la Corte, è preclusa all’Autorità fiscale la possibilità di negare la detrazione addossando a carico del soggetto passivo una responsabilità di tipo oggettivo che sarebbe, ovviamente, illegittima in quanto sproporzionata rispetto alla tutela dell’interesse erariale. D’altronde, puntualizzano i giudici europei, i soggetti passivi sono liberi di scegliere e adottare le strutture organizzative e le forme contrattuali più adeguate alle loro attività economiche anche nell’ottica di limitare gli oneri fiscali purché, beninteso, non si tratti di costruzioni puramente artificiose e, dunque, abusive. Non si può, pertanto, imporre al soggetto passivo l’obbligo, che in realtà spetta all’ente impositore, di effettuare dei controlli complessi ed approfonditi nei confronti dei suoi fornitori o clienti. Ciò significa - chiosa la Corte - che sul piano processuale incombe sull’ente impositore l’onere di provare, con “elementi oggettivi”, il coinvolgimento dell’operatore nella frode. La stessa sensibilità giuridica è rintracciabile in una recente ordinanza della Cassazione n. 27745/2021, dove i Supremi giudici hanno giustamente osservato che, “se si ritenesse che siano sufficienti pochi indizi, non gravi, non precisi e non concordanti perché possa integrarsi la presunzione semplice di conoscenza o conoscibilità della frode, gli imprenditori sarebbero eccessivamente timorosi e potrebbero essere indotti a non rischiare, decidendo di non concludere molti affari, con grave nocumento per i traffici commerciali e quindi per l’economia in generale. In effetti principi cardine del nostro ordinamento giuridico, come il possesso di buona fede vale titolo e la legge di circolazione dei titoli di credito sono volti a favorire gli scambi senza che l’acquirente debba approfondire in maniera troppo approfondita la provenienza di quello che acquista”. Si tratta di una mirabile affermazione che, seppur non scolpita nel marmo, sembra aprire ad un nuovo corso della Cassazione che potrebbe, nel lungo periodo, sopire i contrasti interpretativi circa i controlli ai quali sono chiamati gli operatori nel momento di valutare l’affidabilità dei loro fornitori o clienti.

La “trilogia” di pronunce della Corte di Giustizia

Le osservazioni finora svolte rappresentano una sorta di necessaria introduzione per una riflessione, di più ampia portata, su tre pronunce della Corte di Giustizia in materia di frodi IVA le cui motivazioni sono opera dello stesso giudice relatore I. Jarukaitis. Nell’ordinanza HR del 14 aprile 2021 (causa C-108/20) il giudice relatore, richiamando opportunamente il diritto vivente della stessa Corte di Giustizia in materia di frodi IVA, ha facilmente messo in fuori gioco la detrazione dell’IVA sugli acquisti esercitata dalla signora HR che gestisce un’attività di vendita all’ingrosso di bevande. Il fornitore della signora HR, come accertato in sede penale con due sentenze passate in giudicato, aveva commesso una serie di evasioni fiscali con la collaborazione e, dunque, la complicità del coniuge della signora HR la quale, per tale motivo, era sicuramente consapevole di agevolare l’evasione con il suo acquisto. Tale schema motivazionale non è stato, tuttavia, utilizzato dal giudice relatore nelle altre due decisioni in cui alla Corte di Giustizia è stato chiesto se, a fronte di un acquisto reale, sia legittima la detrazione dell’IVA risultante, in un caso, dall’autofattura emessa dal cliente (causa Ferimet) e, nell’altro, dalla fattura emessa dal fornitore (causa ProChemie), nonostante in tali documenti contabili il cliente abbia deliberatamente occultato il vero fornitore del bene. In entrambi i casi, la risposta della Corte all’interrogativo è stata negativa. Quello che cambia sensibilmente rispetto alla prima ordinanza HR è, come accennato, il percorso motivazionale nel senso che il giudice relatore giustifica, anzitutto, il diniego di detrazione ripiegando sull’assenza di una prova che dimostri l’avveramento di una condizione sostanziale per l’esercizio della detrazione, segnatamente, che l’acquisto provenga da un soggetto passivo. L’argomentazione non è del tutto convincente, soprattutto perché sembra porsi in potenziale contrasto con altri precedenti della Corte di Giustizia. Iniziamo dalla sentenza in commento. Qui non è in discussione né l’effettività dell’acquisto dei materiali di recupero (rottami) da parte della società Ferimet, né tanto meno che l’operazione sia assoggettata alla procedura di inversione contabile. Sicché la Ferimet, dopo aver ricevuto la fattura (falsa) senza IVA dal fornitore, ha emesso una “autofattura” (vera) con IVA che è stata contabilizzata sia a debito che a credito. Ora, il dubbio interpretativo è se la Ferimet, già onerata dell’autofattura, cioè, di un valido antidoto legislativo contro le frodi, possa detrarsi l’imposta a prescindere dalla fattura - irrilevante ai fini IVA - emessa dal fornitore. In effetti, più di un dubbio sorge leggendo l’art. 178, lett. f) della Direttiva il quale, nel disciplinare l’ipotesi in cui il cliente è tenuto ad assolvere l’imposta del fornitore, condiziona la detrazione all’adempimento “delle formalità fissate da ogni Stato membro”. E, secondo la normativa spagnola, il diritto alla detrazione presuppone il “possesso” della autofattura e, inoltre, della “fattura emessa, se del caso, dal soggetto che ha ceduto i beni o fornito i servizi” (punti 10 e 11 della decisione).
È naturale, a questo punto, chiedersi - con spirito propositivo - a cosa possa servire la condizione supplementare del possesso di un documento privo di rilevanza IVA (fattura del fornitore) quando l’adempimento dell’autofattura da parte del cliente è già, di per sé, una misura che protegge lo Stato dalle condotte fraudolente. La problematica non è nuova, essendo già stata affrontata nella sentenza Bockemühl. In questo arresto, come osservato in dottrina, i giudici europei hanno scollegato il diritto alla detrazione, esercitato dal cliente obbligato all’inversione contabile, rispetto all’emissione del documento da parte del fornitore. Rilevando, in particolare, che “un soggetto passivo che, quale destinatario di servizi, è debitore dell’IVA corrispondente non è tenuto ad essere in possesso di una fattura” emessa dal fornitore “per poter esercitare il suo diritto a deduzione e”, pertanto, il cliente “deve unicamente assolvere le formalità stabilite dallo Stato membro interessato nell’esercizio della facoltà di scelta offerta allo stesso” (punto 47). Aggiungendo, altresì, che “in caso di autofatturazione” il controllo fiscale deve essere mirato a cercare e reperire le informazioni sulla qualifica IVA non del fornitore - come, invece, sostiene la sentenza Ferimet - ma del cliente in quanto l’Autorità fiscale “non può imporre, riguardo al diritto di tale soggetto passivo (cioè, il cliente) di dedurre la stessa IVA, condizioni supplementari (ossia, il possesso della fattura del fornitore) che possono avere l’effetto di vanificare l’esercizio dello stesso” (punto 51). Appare, dunque, evidente che l’iter motivazionale scelto dal giudice relatore Jarukaitis potrebbe trasformarsi in una pericolosa deviazione confliggente con il consolidato orientamento della stessa Corte di Giustizia che, come si è visto, è contraddistinto da un gioco di spinte e di controspinte continue alla ricerca di un bilanciamento che tuteli gli interessi dell’Erario e degli operatori. E ciò è tanto più chiaro ove si consideri che nella sentenza ProChemie, ove era impossibile identificare il fornitore che aveva effettivamente reso i servizi di pubblicità acquistati dal cliente, il giudice relatore ha riproposto il solito “mantra”: “spetta al soggetto passivo che esercita il diritto a detrazione dell’IVA, in linea di principio, dimostrare che il fornitore dei beni o dei servizi per i quali tale diritto è esercitato avesse la qualità di soggetto passivo” (punto 34). Ma se non si chiariscono le conseguenze che deriverebbero dall’intraprendere la strada indicata dal giudice relatore, si rischia di far passare la soluzione che il diritto di detrazione sia vincolato ad una prova impossibile da assolvere, dunque, diabolica. Del resto, tenendo a mente il dispositivo della decisione ProChemie, è lecito chiedersi quale informazione potrebbe fornire il soggetto passivo se il “vero fornitore (...) non” può essere “indentificato”. La risposta è, ovviamente, nessuna. Riecheggia, allora, forte il monito dell’Avvocato Generale Juliane Jokott secondo cui “Talvolta una risposta può sembrare anche ovvia, tuttavia si rivela in pratica per nulla semplice, ove si ipotizzi una soluzione che tenga conto anche di considerazioni di ordine dogmatico, logico-sistematico e del tenore letterale della Direttiva IVA”. In questa prospettiva, le sentenze Ferimet e ProChemie non convincono perché sembrano ispirate da una visione giustizialista quasi a voler punire l’operatore per aver occultato l’identità del fornitore, tradendo però la funzione della Corte chiamata ad offrire una giustizia che, oltre ad affondare le proprie decisioni nel diritto, sia ragionevole, proporzionata e prudente.

Considerazioni conclusive

Le segnalate incongruenze sistematiche, latenti nelle motivazioni dei recenti interventi della Corte di Giustizia, limitano l’impatto di tali sentenze nell’ordinamento italiano che, analogamente alla legge IVA spagnola, assoggetta le cessioni di rottami alla procedura del reverse charge a carico dell’acquirente onerato di integrare la fattura senza IVA del cedente. Dunque, se la società Ferimet fosse stata italiana, l’Agenzia delle entrate avrebbe probabilmente opposto l’indetraibilità dell’IVA facendo leva sull’inesistenza soggettiva dell’operazione applicando, inoltre, le sanzioni piene tenuto conto che la Cassazione è incline ad escludere le fattispecie di inesistenza soggettiva dai trattamenti sanzionatori più miti previsti per il reverse charge. Nello scenario così delineato la società, oltre a difendersi in sede giudiziale, potrebbe attivarsi per l’eliminazione del danno erariale, sempre che vi sia stato, così da poter richiedere la restituzione dell’imposta indetraibile, ex art. 30- ter D.P.R. n. 633/1972, direttamente all’Amministrazione finanziaria avuto riguardo all’impossibilità di recuperala dal fornitore che, come detto, non è identificabile. A pensarci bene, è la via interpretativa che si potrebbe utilizzare per potere rivitalizzare la misura di semplificazione, prevista dall’art. 6, comma 6 del D.Lgs. n. 471/1997, che garantisce al cliente il recupero immediato dell’IVA erroneamente addebitata dal fornitore. Come altrove osservato, gli effetti di tale misura sono stati quasi totalmente disinnescati dalla Cassazione nella convinzione che la norma, per come è stata scritta, non possa superare il vaglio della Corte di Giustizia in quanto per quest’ultima l’imposta detraibile è solo quella “dovuta”. Ma - si ripete - non sembra questo il vero problema, perché la misura di semplificazione introduce una sorta di auto-rimborso accelerato che non è finalizzato a “salvare” la detrazione sostanziale, bensì a ripristinare la neutralità evitando, così, che il soggetto passivo resti inciso dal peso del tributo. Si intravede, da ciò, che il punto debole dell’art. 6, comma 6 citato è, semmai, un altro, ossia, che l’auto-rimborso accelerato non presuppone l’assenza di danno erariale. E potrebbe essere questa la chiave per aprire ad una nuova lettura, unionalmente orientata, dell’anzidetta norma. Sicché, nell’ipotesi in cui il cliente, in sede di accertamento, dimostri all’ente impositore di aver eliminato qualsiasi rischio di perdita di gettito, non vi dovrebbe essere alcun ostacolo al via libera dell’auto-rimborso accelerato che - è bene sottolineare - fa ottenere un vantaggio a tutti i soggetti coinvolti, in primis, all’Amministrazione finanziaria. In tal senso, appare illuminante quanto affermato dall’Avvocato Generale Kokott che, in relazione ad un errore di applicazione dell’IVA su un’operazione esente, ha osservato che, “successivamente alla scoperta dell’errore, l’Amministrazione finanziaria ‘rinuncia’, inter alia anche per ragioni di semplificazione amministrativa, alla riscossione a posteriori presso il prestatore in quanto molti dei destinatari avrebbero diritto alla detrazione dell’IVA. Sotto il profilo fiscale, ciò sarebbe un ‘gioco a somma zero’ con rilevanti oneri amministrativi a carico di tutte le parti”. E il mistero si infittisce, se si considera l’irrazionalità dell’ordinamento italiano che, da un lato, limita l’auto-rimborso accelerato sebbene esso sia sottoposto al controllo dell’Amministrazione finanziaria e non arrechi alcun danno erariale, trattandosi di un “gioco a somma zero”. Mentre, dall’altro lato, lo stesso ordinamento accetta il rischio che lo Stato subisca una perdita di gettito consentendo al fornitore di recuperare, tramite la nota di credito, l’imposta fatturata che non verrà pagata dal cliente il quale, diventato nel frattempo insolvente, non procederà neppure alla rettifica della detrazione che era stata, in precedenza, esercitata.

Avv. Clino De Ieso Avvocato Tributarista cassazionista, Partner Studio Legale Tributario Centore

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