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Via libera alle modalità di recupero dell’IVA erroneamente addebitata

Prof. Nicola Galleani d’Agliano

Sanzioni

Con la sentenza del 18 marzo 2021, nella causa C-48/20, la Corte di Giustizia UE ha riaffermato, per l’ennesima volta, che il principio di neutralità dell’IVA obbliga gli Stati dell’Unione a riconoscere ai soggetti passivi la possibilità di rettificare l’IVA sulle operazioni attive fatturate in modo erroneo. Le indicazioni della Corte di Giustizia lanciano un messaggio molto chiaro: la certezza che lo Stato non potrà subire alcun danno erariale fa scattare, automaticamente, il diritto di rettifica dell’IVA non dovuta anche in un contesto di frode.

La vicenda, esaminata dai giudici europei, riguarda la società UAB stabilita in Lituania che, nel 2011, ha acquistato con IVA del carburante, presso delle stazioni di servizi polacche, per poi rivenderlo, sempre con IVA, alle società di trasporto anch’esse lituane le quali, pertanto, potevano richiedere il rimborso in Polonia dell’imposta indicata nelle fatture d’acquisto.

L’autorità fiscale polacca sostiene che la società UAB si sarebbe limitata a gestire l’operazione da un punto di vista finanziario (servizio esente dall’IVA), senza che l’operazione potesse configurarsi in capo alla società come un acquisto e rivendita di carburante. Di conseguenza l’unica cessione di beni, soggetta ad imposta, sarebbe stata realizzata direttamente fra le Stazioni di servizio e le Società di Trasporto.

Da qui, quale effetto a cascata, secondo il ragionamento dell’Amministrazione tributaria, l’indetraibilità dell’IVA sugli acquisti effettuati dalla società UAB e, al contempo, l’obbligo per quest’ultima di versare l’imposta erroneamente esposta nelle fatture attive: senza neppure poterla recuperare, nonostante la sua buona fede e l’assenza di danno erariale, secondo quanto stabilito dalla norma interna. La quale, com’era immaginabile, risulta incompatibile con la direttiva n. 2006/112/CE in quanto, come precisato nella sentenza in commento, “il rifiuto di concedere la possibilità di rettificare le fatture di carburante che menzionano indebitamente l’IVA emesse all’attenzione di società di trasporto, mentre le cessioni di carburante effettuate dalle stazioni di servizio a tali società di trasporto sono anch’esse assoggettate all’IVA, equivarrebbe ad imporre alla ricorrente nel procedimento principale di sopportare un onere fiscale in violazione del principio di neutralità dell’IVA.” (Punto 34).

Sicché, concludono i giudici di Lussemburgo, “[…] l’articolo 203 della direttiva 2006/112 e i principi di proporzionalità e di neutralità dell’IVA devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che, a seguito dell’avvio di un procedimento di verifica fiscale, non consente al soggetto passivo in buona fede di rettificare fatture sulle quali sia indebitamente esposta l’IVA, quando invece il destinatario di tali fatture avrebbe avuto diritto al rimborso di detta imposta se le operazioni oggetto di tali fatture fossero state debitamente dichiarate.” (Punto 35).

Effetti diretti e riflessi delle sentenze della Corte UE sulla disciplina IVA italiana Naturalmente, la consolidata linea interpretativa della Corte di Giustizia in materia di IVA indebitamente corrisposta, testimoniata dalla sentenza in esame, non può non avere un significativo impatto sul riconoscimento da parte dell’Agenzia delle Entrate del diritto del fornitore al recupero dell’imposta erroneamente fatturata. Dunque, occorre domandarsi quali siano le implicazioni che ne derivano. Prima alcune precisazioni necessarie per inquadrare il tema. L’IVA non dovuta presuppone un errore del soggetto emittente che, a seconda dei casi, può manifestarsi nell’inesistenza dell’operazione sottostante, ovvero nella errata qualificazione dell’operazione realizzata o, ancora, nell’errore di aliquota. Per queste ipotesi l’art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633/1972 impone al fornitore di versare all’erario “l’intero ammontare” dell’imposta indicata nella fattura. Quest’ultima norma è la trasposizione dell’art. 203 della direttiva n. 2006/112 (“l'IVA è dovuta da chiunque indichi tale imposta in una fattura”) la cui ratio legis è chiara: eliminare completamente il rischio di perdita del gettito fiscale conseguente all’emissione del documento, in forza del quale il cliente può esercitare il diritto di detrazione (CGUE, Sent. 11 aprile 2013, C‑138/12, Rusedespred, Punto 24).

Tutto ciò ha una sua logica. Sebbene - in teoria - ove il tributo risulti inapplicabile non dovrebbe sussistere alcun obbligo di versamento dell’imposta, pena l’arricchimento senza causa dell’erario. Ma, come retro evidenziato, prevale l’esigenza di tutela dell’erario. In ogni caso, a fronte della fattura erroneamente emessa, il cessionario o committente che ha registrato il documento nella sua contabilità, esercitando il diritto alla detrazione, può vedersi subito contestare tale diritto sul presupposto che è ammessa in detrazione solo l’IVA effettivamente dovuta sull’operazione. Dal momento che “il diritto a detrazione […] non può essere esteso anche all’IVA erroneamente addebitata e versata all’erario” (CGUE, Sent. 15 marzo 2007, C-35/05, Reemtsma Cigarettenfabriken, punto 27). Inoltre, “quando un’operazione di acquisto di un bene o di un servizio è inesistente, essa non può avere alcun collegamento con le operazioni del soggetto passivo tassato a valle. Di conseguenza, quando manca la realizzazione effettiva della cessione di beni o della prestazione di servizi, non può sorgere alcun diritto a detrazione” (CGUE, Sent. 8 maggio 2019, C712/17, EN.SA, Punto 24).

Nello scenario così delineato, si colloca la posizione dell’Agenzia delle Entrate che, trincerandosi dietro le rigide barricate dell’art. 26, comma 3, D.P.R. 633/1972, si allontana dalla visione dei giudici europei ammettendo la rettifica della fattura che esponga un’IVA indebita, ma solo entro il termine annuale fissato dall’anzidetta disposizione. Vi è comunque da osservare che seguendo lo schema della Corte di Giustizia, laddove il termine per l’emissione della nota di variazione sia spirato, va riconosciuta al fornitore la facoltà di richiedere il rimborso dell’IVA non dovuta attraverso la procedura di cui all’art. 30-ter, comma 1, tenendo però conto che sussistono delle differenze sostanziali tra le due modalità di recupero (Cfr., Comm. Trib. Reg. Lombardia di Milano, Sez. I, Sent., 25/10/2019, n. 4211, secondo cui la Corte di Giustizia, con la sentenza EN.SA, Causa 712/17, ha “confermato la legittimità dell'art. 21 c. 7 del D.P.R. n. 633 del 1972 in quanto il sistema italiano consente in alcuni casi (art. 26 del D.P.R. n. 633 del 1972) di emettere una nota di variazione, recuperando l'IVA indebitamente assolta; in alternativa poi il contribuente può sempre optare per l'esercizio dell'azione generale di rimborso della stessa IVA, previa dimostrazione di aver eliminato qualsiasi potenzialità dannosa per l'Erario”). Innanzitutto, la procedura di cui all’art. 26, comma 3 - di natura facoltativa - prescinde completamente da una previa verifica circa l’effettiva rimozione del rischio di perdita del gettito fiscale.

Più specificamente, tale procedura prevede, nel termine annuale, che il fornitore debba emettere un documento denominato “nota di credito” che consente di rettificare l’IVA dovuta, indipendentemente dalla restituzione dell’IVA addebita a titolo di rivalsa. Tale documento, in analogia con l’art. 21 del D.P.R. n. 633/1972, deve essere inviato al cliente, il quale è tenuto alla registrazione dello stesso (comma 5) rettificando, di conseguenza, l’IVA detraibile senza che, peraltro, quest’ultimo adempimento sia una condizione necessaria affinché il fornitore possa procedere alla rettifica della fattura emessa. Diversamente, l’art. 30-ter del D.P.R. n. 633/1972, nel riconoscere il rimborso dell’IVA non dovuta, non prevede alcun obbligo di emissione e di registrazione dei documenti rettificativi. Si aggiunga, poi, un importante chiarimento, vale a dire che, secondo i giudici europei, il rimborso è condizionato al fatto che il fornitore accerti che non esista, oppure sia stato rimosso, il rischio di perdita fiscale con la differenza che, nel comma 2, la rimozione del rischio di danno erariale avviene a seguito di una attività di accertamento da parte dell’ente impositore. Invece, nel comma 1, è necessario che il fornitore proceda, per proprio conto, a verificare se il rischio di perdita (detrazione da parte del cliente) siano venuto meno. A titolo di esempio, si pensi al cliente che rettifica autonomamente la detrazione ovvero non registra la fattura ricevuta dal fornitore.

Se, come si è visto, la rimozione del rischio di perdita del gettito è l’unico presupposto per la rettifica, allora, è lecito chiedersi se possa ancora sopravvivere il limite, introdotto dal comma 3 dell’art. 30-ter, che preclude la restituzione dell’IVA non dovuta “qualora il versamento sia avvenuto in un contesto di frode fiscale”. Per rispondere a questo interrogativo, risultano decisive le indicazioni della Corte di Giustizia che lanciano un messaggio molto chiaro: la certezza che lo Stato non potrà subire alcun danno erariale fa scattare, automaticamente, il diritto di rettifica dell’IVA non dovuta anche in un contesto di frode.

Ciò impone riflessioni più approfondite sui confini applicativi dell’art. 6, comma 6, D.Lgs. n. 471/1997 che, pur irrogando la sanzione, riconosce al cessionario o committente la detrazione dell’IVA non dovuta, tranne che nei casi di frode.

Ora, secondo una classica logica binaria (tertium non datur), delle due l’una. Il fornitore ha diritto di richiedere la restituzione dell’imposta non dovuta, ovvero si riconosce al cliente il diritto di detrarre tale l’imposta. Preso atto dell’impostazione dei giudici europei, appare incomprensibile e del tutto ingiustificabile la resistenza della Cassazione che tende a disconoscere la portata generale dell’art. 6, comma 6 citato riducendone fortemente il suo ambito applicativo ai soli errori di aliquota.

Nicola Galleani d’Agliano, Professore a contratto di Diritto Tributario avanzato Università Pavia, Commercialista, Partner Studio P. Centore & Associati

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