news / Le società a ristretta base azionaria: accertamenti a cascata dei soci e diritto di difesa

torna alle news

Le società a ristretta base azionaria: accertamenti a cascata dei soci e diritto di difesa

Avv. Francesca Lorusso

Accertamento

Premessa all'articolo

Nell’ambito del tema del congresso, il contributo della CAT di Bari si è incentrato sulle criticità degli accertamenti nei confronti delle società a ristretta base azionaria. Il punto focale di questa situazione critica è proprio rappresentato, allo stato attuale, dalla circostanza che è ormai prassi consolidata degli Uffici presumere la distribuzione di utili in nero ai soci delle società di capitali “a ristretta base proprietaria o familiare” laddove l’attività di controllo sulla compagine sociale si sia conclusa con la ricostruzione di maggiori componenti positivi di reddito. Tale modus operandi, di costruzione meramente giurisprudenziale, trae fondamento dal fatto che una tale compagine sociale determina tra i suoi partecipanti un vincolo di solidarietà o un legame familiare, che costituisce il fatto noto dal quale presumere quello ignoto della distribuzione ai soci del predetto reddito occulto societario.

Un primo problema è rappresentato dalla circostanza che manca una definizione di ristretta base azionaria poiché non esiste un dato normativo né tanto meno un orientamento giurisprudenziale che definisca un numero prestabilito di soci in presenza del quale scatta la presunzione.

In pratica, la “indefinita” ristretta base societaria - secondo la Suprema Corte - implica un rapporto di solidarietà e di reciproco controllo della gestione societaria da parte dei soci “che fa ritenere plausibile in tutti la conoscenza degli affari sociali e la consapevolezza della esistenza di utili extrabilancio, alla cui distribuzione è plausibilmente ragionevole ritenere che tutti i soci abbiano, in assenza di validi elementi deponenti in senso contrario, partecipato in misura conforme al loro apporto sociale” (Cass. n. 28542/2017).

Altre problematiche sostanziali riguardano il periodo di imputazione degli utili ai soci, il recupero dei costi in capo alla società e la tutela del diritto di difesa.

Periodo di imputazione degli utili ai soci

Quanto al periodo temporale di imputazione ai soci degli utili extra-bilancio accertati a carico della società, in generale, in base all’art. 2433 c.c., le società di capitali possono distribuire utili ai propri soci soltanto a seguito dell’approvazione del bilancio e della relativa deliberazione: una volta che siano stati effettivamente percepiti, questi utili divengono per i soci reddito di capitale, secondo il principio di cassa, ai sensi dell’art. 45 del T.U.I.R. (Tale modalità di tassazione subisce una deroga nell’ipotesi di opzione per il regime di trasparenza ex artt. 115e 116 del T.U.I.R).

Questo vale - ovviamente - per gli utili che transitano attraverso il bilancio e che non possono essere distribuiti se prima non vi è stata la sua formale approvazione.

Nel caso in esame, invece, siamo in presenza di utili “occulti” che - per definizione - non sono stati oggetto di alcuna rilevazione contabile/fiscale né tanto meno di una delibera di distribuzione; in questo caso, gli Uffici finanziari procedono ad imputare ai soci la percezione di tali utili nel medesimo anno d’imposta interessato dal recupero (e dal conseguente accertamento) a carico della società.

Tale tempismo ha suscitato non poche perplessità sia perché vi è una netta discordanza tra il momento di realizzazione dei ricavi (determinato in base al criterio di competenza) e la distribuzione degli utili (che viene tassata per cassa) e sia perché - a differenza delle società di persone - la percezione dei dividendi per i soci di società di capitali costituisce una mera aspettativa.

Individuare, quindi, nel medesimo anno d’imposta il momento di tassazione sia per la società che per i soci è apparsa come una sorta di presunzione fondata su di un’altra presunzione, ed in pratica una “forzatura” da parte del Fisco.

La giurisprudenza di legittimità (cfr.Cass. n. 8988/2017; Id., n. 25468/2015; Id., n. 5327/2015; Id., n. 26428/2010; Id., n. 13223/2009; Id., n. 28789/2008; Id., n. 20251/2008; Id., n. 8867/2008; Id., n. 3896/2008; Id., n. 1924/2008; ecc..), tuttavia, con un orientamento consolidato nel tempo, ha mostrato di condividere l’operato degli Uffici fondato sulla presunzione di distribuzione degli utili nello stesso periodo di imposta oggetto di accertamento.

La distribuzione di utili “occulti” in base al principio di cassa attiene, secondo il citato orientamento giurisprudenziale, ad una gestione societaria che si potrebbe definire “patologica”, nella quale l’interesse finale appare essere quello di sfruttare lo schermo societario e di conseguire gli utili non contabilizzati.

Quindi, se potrebbe essere condivisa la premessa (realizzazione di utili extra-bilancio della società) sarebbe forzato, ma al tempo stesso più comodo, per l’Amministrazione Finanziaria procedere all’imputazione ai soci degli stessi utili nello stesso periodo d’imposta nel quale avrebbero dovuto essere contabilizzati dalla società, apparendo una tale presunzione di secondo grado.

Recupero dei costi

Un altro aspetto fortemente dibattuto è costituito dall’imputazione di maggiori utili ai soci nel caso di ripresa a tassazione di costi in capo alla società. Spieghiamoci meglio.

Può capitare che l’Ufficio, all’esito dell’istruttoria, riconosca come non deducibili alcuni costi contabilizzati dalla società perché relativi a fatture inesistenti o perché ritenuti non inerenti. Considerato che in entrambi i casi l’eliminazione di quella posta negativa modifica in aumento l’utile della società, gli Uffici procedono - per alcune ipotesi - ad emettere avvisi di accertamento anche nei confronti dei soci, contestando un maggior reddito.

A legittimare un tale recupero si possono registrare due sentenze della Cassazione (a precisamente Cass. nn. 17959/2012 e 17960/2012) nelle quali i giudici hanno (“discutibilmente”) chiarito che “i costi costituiscono un elemento importante ai fini della determinazione del reddito d’impresa, sicché, allorquando essi siano fittizi o indeducibili, scatta la presunzione che il medesimo è maggiore di quanto dichiarato, con la conseguenza che non può riscontrarsi alcuna differenza tra la percezione di maggiori ricavi e l’indeducibilità o inesistenza di costi”.

Secondo la Suprema Corte, quindi, non sembrerebbe sussistere alcuna differenza - almeno ai fini dell’imputazione di maggiori utili ai soci - tra un costo inesistente e uno indeducibile: in entrambi i casi, l’imputazione di quello specifico costo ha influenzato in concreto la liquidazione del reddito della società e pertanto l’Ufficio può procedere nei confronti dei soci per recuperare i maggiori utili distribuiti.

Questo non condivisibile modus operandi ha suscitato accese critiche basate sulla insostenibile parificazione sostenuta dagli Ermellini tra costi indeducibili e costi inesistenti.

In sostanza quello che si contesta è che il costo sostenuto dalla società - nel caso in cui sia ritenuto meramente indeducibile ai fini fiscali - “rappresenta pur sempre un esborso di denaro” con la conseguenza che tali somme poiché “già destinate al soggetto fornitore del bene o del servizio” non possono affatto trasformarsi in somme distribuite ai soci a seguito del rilievo dell’Ufficio.

Quello che mancherebbe in questi casi - a differenza di quello che accade in presenza di fatture false - è la “prova concreta della disponibilità finanziaria occulta in capo alla società" (e quindi della successiva distribuzione). Infatti in primo luogo occorre che si tatti di proventi suscettibili di tradursi in flussi monetari disponibili per il socio. Questo accade in presenza di ricavi non contabilizzati o di costi fittizi, ma non certo in presenza di costi effettivi ma indeducibili oppure di accantonamenti non deducibili o ancora di recuperi afferenti a poste di origine valutativa.

Questo pensiero è stato ripreso anche dalle Corti di merito secondo le quali le “uniche ipotesi in cui logicamente è presumibile che i soci abbiano materialmente appreso somme in nero” sono quelle nelle quali viene accertata l’esistenza di “di ricavi non contabilizzati e/o costi inesistenti in capo alla società stessa" (cfr. Comm. trib. reg. Lazio Roma, Sez. I, n. 574/2010. In tal senso anche Comm. trib. reg. Puglia n. 146/2015: “È evidente quindi che se la società ha sostenuto un costo e questo non è contestato nella sua esistenza ma solo nella sua deducibilità, non se ne può sostenere la sua distribuzione poiché solo i maggiori ricavi (non contabilizzati, in quanto evasi) si possono presumere distribuiti. Il caso in questione, infatti, è ben diverso da quello di una società di persone nella quale si imputa ai soci il reddito fiscale. Nella distribuzione extracontabile di redditi evasi da società di capitali a ristretta base azionaria, infatti, si deve fare riferimento solo esclusivamente ai maggiori redditi derivanti da componenti positivi evasi, non potendo logicamente considerarsi distribuiti componenti negativi di reddito (i quali sono tassati mediante la ripresa fiscale solo ed unicamente in capa alla società di capitali accertata)”.

Nel caso invece di inesistenza i giudici di legittimità (Cass. n. 20721/2010) hanno già chiarito che i maggiori utili accertati possono derivare anche dall’imputazione di costi per operazioni inesistenti poiché il disconoscimento di un costo, incidendo sul risultato economico, influisce direttamente sulla misura dell’utile e cioè sul reddito tassabile in capo alla società. Di conseguenza il costo inesistente - essendo indeducibile - determina una modifica del risultato del conto economico, ottenendo un maggior utile per il socio pertanto “i costi non riconosciuti si convertono automaticamente in ricavi”.

La difesa del contribuente

Sulla base di tutto quanto esposto la criticità maggiore manifestata da tale sistema di presunzioni è sicuramente quella che risiede nella confutazione per il contribuente della presunzione della solidarietà o complicità tra i soci, che si traduce nella dimostrazione della inesistenza della condizione di società a ristretta base, alternativamente, vuoi sotto il profilo della obiettiva non ristrettezza della base sociale, che renderebbe superflua qualsiasi ulteriore allegazione oppositiva, vuoi sotto il profilo della acclarata estraneità del socio ai profili gestionali ascrivibili ad altri.

Ugualmente complesso, se non pressoché impossibile nella normalità dei casi, è il compito di attestare la mancata percezione degli utili extra bilancio, in tutto o in parte.

Dovrebbe essere invece indubbiamente rilevante la natura e tipologia del maggior reddito accertato in capo alla società. In primo luogo, occorre infatti che si tratti di proventi suscettibili di tradursi in flussi monetari disponibili per il socio.

Secondo un orientamento garantista della Cassazione, inoltre, il reddito accertato in capo alla società deve essere connotato da certezza, nel senso che occorre *“che sussista un valido accertamento a carico della società in ordine ai ricavi non contabilizzati, il quale costituisce il presupposto per l’accertamento a carico dei soci in ordine ai dividendi".

Non è chiaro tuttavia quali siano le conseguenze dell’avvenuto ribaltamento sul socio di utili accertati solo presuntivamente in capo alla società. A stretto rigore, l’atto spiccato nei confronti del socio dovrebbe essere annullato, poiché non risulterebbe legittimato il meccanismo presuntivo che postula necessariamente l’esistenza di utili non di chiarati. In tale ottica l’Amministrazione finanziaria potrebbe agire nei riguardi dei soci solo dopo l’avvenuta definizione del reddito in capo alla società.

Conclusione e spunti di riflessione

Ulteriori spunti di riflessione sull’argomento derivano dai nuovi scenari aperti dalle conseguenze delle vicende estintive delle società di capitali.

Senza volere in questa sede approfondire i termini della questione, è sufficiente ricordare come, alla luce del novellato disposto dell’art. 2495 c.c., la cancellazione delle società dal registro delle imprese produce effetti costitutivi dell’estinzione dell’ente collettivo.

La giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha in proposito ravvisato non già il venir meno delle obbligazioni sociali bensì un evento di tipo successorio in forza del quale le stesse obbligazioni si trasmettono ai soci della società estinta, nei limiti dell’importo delle somme da questi riscosse in esito al bilancio finale di liquidazione.

Ci si chiede pertanto con quali modalità possa svolgersi la dinamica dell’accertamento in esame in tale evenienza?

Al riguardo, va innanzitutto evidenziato come non possano in alcun modo trovare ingresso “scorciatoie” consistenti nell’emissione dell’avviso intestato alla società estinta secondo le ordinarie formalità procedurali, al solo scopo strumentale di precostituirsi il titolo per poi procedere contro i soci. Vale in proposito ribadire, infatti, che **elemento indefettibile della legittimità e fondatezza dell’accertamento spiccato a carico dei soci degli enti a ristretta base è la presenza di un valido accertamento definito nei confronti della società. **

Ne deriva che il Fisco non può precostituirsi tale titolo purchessia ma deve necessariamente seguire le indicazioni fornite dalla citata giurisprudenza di vertice ai fini della corretta contestazione di violazioni fiscali ascrivibili al soggetto estinto. Da ciò consegue ulteriormente che l’atto dovrà essere intestato ai singoli soci, nella loro qualità di “successori” della società cancellata dal registro delle imprese, e notificato ad essi, qualora l’emissione avvenga oltre l’anno dalla cancellazione. Una volta così perfezionata la procedura accertativa relativa alla società, è evidente che l’interesse dei soci a impugnare l’atto in questione non sarà solo determinato dalla circostanza di essere o meno beneficiari di somme attribuite in sede di bilancio finale di liquidazione, poiché dall’eventuale definizione anche per inerzia del provvedimento impositivo in origine ascrivibile al soggetto estinto potranno derivare conseguenze in termini di reddito di capitale omesso da parte dei soci medesimi. Da qui, l’esigenza di valutare con attenzione l’opportunità di coltivare il contenzioso originato dai comportamenti della società cancellata, al di là dei limiti quantitativi opponibili alla pretesa erariale, rivenienti dal disposto del solo art. 2495 c.c.

Forse i tempi sono ormai maturi per un intervento della Cassazione, nel suo più autorevole consesso, al fine di offrire una chiara interpretazione in materia, evitando così di ingolfare ulteriormente la macchina giudiziaria tributaria. Meglio ancora, un intervento legislativo teso a disciplinare in tutti i critici aspetti la nota presunzione relativa alle società a ristretta base azionaria.

Avv. Francesca Lorusso, avvocato cassazionista, Presidente CAT Bari

Condividi su: