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L’elemento soggettivo delle sanzioni amministrative tributarie

Prof. avv. Alberto Marcheselli

Sanzioni

L’elemento soggettivo delle violazioni amministrative tributarie è un tema oggi avvolto in un fitto cono d'ombra, ma presenta, in realtà, elementi di notevole interesse, scientifico e applicativo, nell’attualità, e anche in prospettiva futura. L’evoluzione tecnologica in atto potrà in effetti sollecitare adeguamenti del sistema. Preliminarmente occorre inquadrare le sanzioni amministrative tributarie nel contesto generale. A fronte di una violazione, tre sono le risposte possibili: 1) una risposta volta alla reintegrazione patrimoniale del danneggiato dalla violazione; 2) una risposta volta alla punizione, intesa come prevenzione ottenuta attraverso la rieducazione, dell’autore della violazione, e 3) una risposta, una volta esaurita la (o accanto alla) funzione punitiva, volta alla prevenzione speciale. Queste tre risposte corrispondono a tre categorie di istituti giuridici: gli istituti di natura risarcitoria/riparatoria, gli istituti di tipo punitivo e le misure di prevenzione o di sicurezza. Tutte e tre queste galassie di istituti giuridici si presentano anche nell'ambito del diritto tributario, in relazione alla violazione delle relative norme. Indubbiamente finalizzati alla riparazione/restituzione patrimoniale sono istituti quali il recupero dell'imposta evasa, la corresponsione degli interessi moratori e delle spese di riscossione, l’aggio e simili, oltre alla condanna alla rifusione delle eventuali spese giudiziali. Volti alla punizione del reo, quindi con funzioni di sanzione punitiva (prevenzione attraverso rieducazione) sono, evidentemente le sanzioni penali e, secondo l'opinione nettamente prevalente e consolidata, le sanzioni amministrative oggetto della presente riflessione. Che le sanzioni amministrative tributarie appartengano all'ambito punitivo, infatti, appare pacifico. Ciò si desume dalla struttura di tutta la loro disciplina. Essa è ispirata univocamente ai principi di personalità e di colpevolezza, in generale, e contempla regole quali l'applicazione di tante sanzioni quando quanti sono gli autori delle violazioni, il riconoscimento del cumulo giuridico in luogo del cumulo materiale, ecc. Vale la pena di sottolineare che pare estranea alla sanzione amministrativa una funzione compensativa che è invece assolta da altri istituti, quali gli interessi, l’aggio, le spese di riscossione. Sottolineatura, questa, importante, perché riemerge talvolta, in maniera carsica, in giurisprudenza (ad esempio quando si tratta di giustificare la sostanziale disapplicazione del principio di specialità tra sanzioni amministrative e sanzioni penali), una latente configurazione spuria delle sanzioni amministrative, con il recupero di funzioni ulteriori rispetto a quelle punitive. A mio avviso questa configurazione sembra confliggere piuttosto nettamente col dato normativo: oltre agli elementi predetti si pensi al fatto che, nella loro determinazione, esse sono parametrate sui presupposti classici dell'articolo 133 del codice penale, del livello di colpevolezza, cioè entità della colpa e gravità del dolo, da un lato, ed entità del vantaggio ottenuto, ergo del danno arrecato (che è interamente compensato dal pagamento di imposta e interessi), mentre sono del tutto assenti nella disciplina parametri correlati con l’attività di indagine che si è resa necessaria. È abbastanza evidente che le sanzioni amministrative non sono in alcun modo correlate con la complessità dell'attività svolta per scoprire il colpevole, come invece dovrebbero essere se avessero natura compensativa: ci possono essere situazioni nelle quali la sanzione, sulla base dei parametri legali, viene determinata in valori estremamente elevati, a fronte di uno sforzo istruttorio elementare (si pensi alle contestazioni fondate sulla interpretazione delle norme: molto redditizie ma poco onerose). È poi importante ricordare che la riforma del 1997 della disciplina delle sanzioni amministrative, in senso marcatamente punitivo, ha costituito, in realtà, il recepimento di un preciso e autorevole orientamento giurisprudenziale che aveva progressivamente riconosciuto alle sanzioni amministrative natura punitiva, consacrata in una fondamentale sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 1993, sulla natura giuridica della sovrattassa. Soprattassa che era la sanzione più ambigua del regime previgente. Tale rivolgimento, di matrice giurisprudenziale, si è poi consolidato, è stato perfezionato dalla riforma del 1997 ed è stato solennizzato dalla giurisprudenza internazionale della Corte europea dei diritti dell'uomo che riconosce, come è noto, alle sanzioni amministrative tributarie, non solo italiane ma, in generale, a tutti gli istituti consimili degli altri Paesi sottoposti alla giurisdizione della Corte, una funzione punitiva.

Posta questa premessa, è forse il caso di stimolare la riflessione su un tema che, lo si diceva in esordio, allo stato è sostanzialmente negletto. Nella pratica applicativa tale tema appare stretto tra due pareti ben definite. La prima, certamente corretta, è che, di regola, per la attribuibilità delle sanzioni amministrative tributarie, è sufficiente (ma nel contempo necessaria) la colpa dell’agente. Ovvero, che la colpevolezza assume le forme del dolo o della colpa. La seconda parete, assai meno scontata, che si legge talora nei pochi documenti di prassi o provvedimenti amministrativi o giurisdizionali che dedichino enunciati motivazionali al problema, è che la colpa sarebbe sostanzialmente presunta. Tale affermazione, presa alla lettera, è certamente errata. Essa confligge in maniera frontale con il principio, proprio del diritto punitivo, per cui sussiste la presunzione opposta, quella di non colpevolezza (o, per essere precisi, la regola di “non presunzione di colpevolezza”: anche nella espressione “presunzione di innocenza” si annida un evidente errore). Tale regola appare applicabile alle sanzioni criminali (che, come arcinoto, non sono solo quelle penali ma comprendono anche quelle amministrative che superino il c.d. test Engels della Corte EDU), in forza della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. Che la colpa amministrativa si presuma è una frase errata nella sua formulazione, ma probabilmente corretta, se intesa nella sua sostanza. In modo giuridicamente scorretto essa, verosimilmente, intende significare non che esisterebbe una …presunzione legale di colpevolezza ma, molto più semplicemente che, di norma e di fatto, la colpevolezza sussiste, senza bisogno di una particolare dimostrazione. Statisticamente, è normale che, atteso che le violazioni sono condotte di omissione rispetto a obblighi (di dichiarazione, registrazione, versamento..), il soggetto volontariamente non fa ciò che sa di dover fare (volontariamente non dichiara, non registra e non versa perché vuole evadere, oppure perché decide di risparmiare il tributo, assumendosi il rischio che esso invece fosse dovuto).

Tale affermazione, tuttavia, se esprime una cosa normalmente corretta, intesa in senso proprio determina una serie di conseguenze abnormi. Sul punto vale subito la pena di rilevare che il diritto sanzionatorio tributario presenta una caratteristica strutturale decisamente peculiare, ancorché non esclusiva. La situazione tipica rispetto alle norme sanzionatorie di carattere tributario è quella del rinvio: le norme incriminatrici, per usare la terminologia penalistica, sono pressoché sempre norme non complete: sanzionano l'inadempimento di un obbligo stabilito altrove. Questo dato strutturale si affianca ad un altro. Il precetto presidiato dalla norma sanzionatoria, a differenza, ad esempio, del codice della strada è, da un lato, tecnicamente complesso e, lo si riconosce univocamente, quasi sempre formulato in modo ambiguo. I precetti del codice della strada (non si passa con il rosso, non si possono superare i 50km/h) riguardano oggetti semplici e sono formulati in modo chiaro. I precetti tributari sono oggetti complessi, disciplinati con una tecnica normativa deficitaria. L’obbligato può raggiungere facilmente la consapevolezza delle regole del codice della strada, e senza intermediazione di esperti, ma non così nel settore tributario, ove, di norma, è necessaria l’intermediazione di esperti e il risultato ha, comunque, frequentemente margini di incertezza. La certezza su sussistenza e portata dell’obbligo tributario può essere raggiunta assai più difficilmente e meno frequentemente. Entro che limiti tale difficoltà impatta sulla colpevolezza dell’agente? La giurisprudenza è, sul punto, estremamente rigorosa. Nella sostanza si confinano le ipotesi di esclusione della responsabilità a casi limite: quelli di oggettiva impossibilità di conoscere il precetto. In sostanza, si fa coincidere l’area della non colpevolezza con quella della assoluta impossibilità di conoscenza che scrimina addirittura, nel diritto penale, la responsabilità penale per ignoranza della legge penale (per effetto della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 5 c.p. con la sentenza 364/1988 della C.Cost.). In questo quadro, non è sufficiente che il soggetto ignori senza colpa, ma è necessario, sostanzialmente, che nessuno potesse oggettivamente conoscere l’esistenza dell’obbligo. Anzi, la giurisprudenza è talmente rigorosa che, anche laddove è il legislatore stesso a individuare casi in cui la valutazione del contribuente non può essere sanzionata anche se errata (v. art. 6, comma 1 del D.lgs. n. 472/1997), la relativa fattispecie risulta praticamente deprivata di applicazioni concrete.

Tale impostazione, che evidentemente risponde alla – apprezzabile – finalità di non creare aree di impunità, a mio avviso andrebbe attentamente considerata. Per quanto la mia sia una critica minoritaria, se non isolata, mi sento, umilmente ma convintamente, di affermare che tale impostazione è tecnicamente discutibile e contraria ad alcuni equilibri e postulati addirittura di teoria generale del diritto. Sotto il primo aspetto, la tecnica giuridica, osserverei che, nella fattispecie tipica (la norma sanzionatoria punisce la violazione del dovere di pagare il tributo dovuto, tributo determinato dalle norme tributarie sostanziali) siamo di fronte a una norma che punisce come condotta l’inadempimento di doveri altrove determinati. Come sempre nelle violazioni caratterizzate da condotte omissive, la determinazione della condotta, del fatto, dipende da un elemento normativo (la fonte del dovere). Andando direttamente al punto decisivo, il quesito diviene allora: l’errore sulla sussistenza del dovere (il contribuente non sapeva di dovere perché non credeva che la fattispecie fosse imponibile) è un errore sulla norma sanzionatoria, o un errore sul fatto? La rilevanza della distinzione è evidente: nel primo caso, sussiste sempre la punibilità salvo il caso di assoluta impossibilità di conoscere la disposizione; nel secondo caso, si è punibili solo se si è stati imprudenti, negligenti o imperiti, rispetto ai doveri della propria situazione personale. Come sopra rilevato, la prima è la soluzione della giurisprudenza. Essa tuttavia non convince.
L’antigiuridicità della evasione fiscale è disinteressarsi dell’adempimento dei doveri di solidarietà: se il soggetto non sa e non ignora per colpa che il tributo era dovuto, egli non è, evidentemente, rimproverabile, non sa di fare niente di male. Così come non lo è chi, rispetto al furto, non sa che la cosa è altrui per un errore di diritto. In entrambi i casi sussiste un errore di diritto che produce un errore sul fatto. Cosa diversa sarebbe, invece (un errore sul precetto punitivo, che non scusa salvo la oggettiva impossibilità), se il soggetto pretendesse di non essere punito perché non sapeva quale tipo di evasione fiscale è punita (o che l’evasione fiscale è punita). Se una norma sanzionatoria punisce l’esposizione di crediti non spettanti, una cosa è pretendere di non essere punito perché non si sa cosa intenda la norma sanzionatoria per crediti non spettanti. Una cosa completamente diversa, a valle, non sapere che i propri crediti non spettavano. Nel secondo caso, se si ignora senza colpa che i crediti non spettavano, la sanzione non è giustificata, perché manca la rimproverabilità: non è che il soggetto non sa cosa è male, non sa di far male. La prescrizione di cui al comma 4 dell’art. 6 del d.lgs. 472/1997 deve, allora, a mio modesto avviso, essere interpretata alla luce di tali considerazioni di sistema. Se essa intende costituire il parellelo con la regola penale, essa va intesa riferita alla norma sanzionatoria (non alla norma sul dovere tributario), altrimenti determinandosi una evidente ipotesi di responsabilità oggettiva nei casi di errore non rimproverabile sul fatto determinato da errore di diritto (responsabilità, tra l’altro, contraria con i precetti costituzionali e i capisaldi del diritto punitivo). Altrimenti, se intesa come riferita alla norma tributaria in genere, deve far coincidere la inevitabilità con la assenza di colpa, altrimenti, ugualmente, pervenendosi a una responsabilità oggettiva. La giurisprudenza, sul piano tecnico, dovrebbe allora, con un netto revirement rispetto al granitico orientamento odierno, essere chiamata a segnare tale confine e non confondere gli effetti dell’errore sul dovere il cui inadempimento è punito con l’errore sul precetto punitivo, due cose differenti. È appena il caso di ribadire che tale via sarebbe quella segnata da tutta l’evoluzione del sistema sanzionatorio, nel diritto interno (a partire dalle già citate Sezioni Unite del 1993) e internazionale. Sul piano degli equilibri di teoria generale, la giurisprudenza finisce per assecondare una grave disarmonia: il legislatore - che non è in grado, o meglio, non ha voglia e rinuncia a formulare un precetto tributario chiaro e crea incertezza (e in questo modo disincentiva gli operatori economici, specie quelli stranieri, a investire in Italia) - pretende di traslare il mancato gettito, ascrivibile a sua responsabilità, sugli operatori italiani, nella forma, abnorme, di una responsabilità sanzionatoria senza colpa.

Si rilevava sopra che il rigore della giurisprudenza risponde all’esigenza di non aprire aree di non punibilità ed eccessivi margini di incertezza. In realtà, la tesi qui patrocinata sposta il tema della responsabilità in modo proporzionato, lasciando la soluzione inalterata nella più gran parte dei casi. In effetti, quanto all’atteggiamento soggettivo, si possono dare i seguenti casi: il soggetto è consapevole del dovere; il soggetto non ne è consapevole, ma avrebbe potuto esserlo usando la diligenza da lui esigibile; il soggetto non ne è consapevole e non avrebbe potuto esserlo neanche se avesse usato la esigibile diligenza.

In termini pratici, è ovviamente un caso non frequente quello della possibilità di ottenere la prova positiva dello stato mentale di consapevolezza (es. si intercetta della corrispondenza da cui risulta che il soggetto voleva sottrarsi agli obblighi fiscali, oppure la violazione è evidente senza particolari standard di diligenza o attenzione e non è possibile che il soggetto non se ne rendesse conto): in molti casi si tratta di provare una cosa più semplice, che, se il soggetto si fosse attenuto al modello di condotta ottimale, egli si sarebbe reso conto della violazione (colpa). Il problema allora si riduce a quello della individuazione del modello di diligenza (in tale termine risassuntivamente assorbendo, per convenzione e rapidità di esposizione: diligenza, prudenza e perizia) esigibile. E questo è uno dei punti lasciati completamente in ombra dietro la formula “la colpa si presume”.

In realtà, forse, la giurisprudenza potrebbe individuare delle linee guida, idonee a gestire in modo relativamente pratico i casi dubbi, da un lato, e ad eliminare incertezze e soluzioni inique, dall’altro. I nodi da risolvere sono due. Il primo è l’individuazione del soggetto modello, cui parametrare la diligenza. Il secondo quello di stabilire l’ambito ragionevole entro cui raccogliere le informazioni.

Quanto al primo problema, l’interrogativo di fondo è se il modello debba essere quello di un esperto medio del settore tributario, o meno. È ben vero che il contribuente medio non coincide con tale soggetto, ma è anche vero che potrebbe valersi della relativa consulenza. Esiste un tale onere per il contribuente non esperto? Detto in soldoni, chi sbaglia perché non si è rivolto a un esperto, ne risponde? Sul punto varrebbe la pena di riflettere. Tale onere appare maggiormente sostenibile, ammesso che lo sia, per i soggetti professionali (lavoratori autonomi e imprenditori), soggetti che, comunque, di norma si avvalgono già a fini contabili, ad esempio, di tali professionisti. Assai meno per la Casalinga di Voghera, il Pastore Abruzzese o il Bracciante Lucano cari a Nanni Moretti. Che in effetti nel disbrigo della pratiche fiscali ordinarie il contribuente medio debba rivolgersi al professionista, altrimenti incorrendo in sanzioni in caso di errori, appare contrario alla dichiarata politica degli ultimi governi: non ha senso propagandare la semplificazione e poi sanzionare chi si affidi al suo personale divisamento, incoraggiato dalla affermata semplicità del sistema, quando, in realtà, la semplificazione non abbia funzionato (la regola sia rimasta oscura). Similmente, dubito della possibilità di valorizzare, come contenuto del dovere di diligenza, il ricorso a istituti quali l’interpello. A tacere della irrealizzabilità pratica, allo stato, di un “interpello di massa” (una sorta di distopico call center della Agenzia delle Entrate, che dia pronto riscontro a tutte le richieste di chiarimento, anche le più strampalate e pretestuose), lo trovo distonico rispetto agli equilibri. In sostanza, anche quanto alla applicazione di una punizione, una parte, il contribuente, potrebbe ritenersi in buona fede solo quando la sua ragione è stata preventivamente riconosciuta dall’altra. In questo constesto, a me pare, l’ente impositore, che almeno allo stato non mi pare dia ancora garanzie di terzietà, si vedrebbe attribuita una sproporzionata supremazia anche quanto alla leva sanzionatoria, al cui riequilibrio dovrebbe servire una possibilità di impugnare anche tale interpello, per sottoporre la questione ad un organo indipendente, con il risultato di un sistema probabilmente farraginoso e irrealistico.

Quanto al secondo problema, probabilmente varrebbe la pena di individuare qualche linea guida sulla certezza o incertezza dell’assetto dei doveri. Limitandosi a qualche esempio di un lavoro che dovrebbe essere, a mio avviso, sviluppato a fondo, i primi possibili comandamenti di un decalogo potrebbero essere ad esempio, che a) non è sanzionabile chi si attiene a una circolare o documento di prassi (ipotesi già prevista dallo Statuto del Contribuente, art. 10) ma, a maggior ragione, b) non è punibile chi si attenga all’unico orientamento della giurisprudenza, anche solo di merito; c) attesa la sua funzione di nomofilachia, non è punibile chi si attenga all’unica giurisprudenza della Cassazione, pur in contrasto con quella di merito, o a quella delle Sezioni Unite, pur in contrasto con quella delle Sezioni Semplici. È alquanto sorprendente, lo si nota per inciso, che il legislatore abbia codificato gli effetti sulla buona fede della prassi amministrativa e non della giurisprudenza. Al di fuori di tali ipotesi, e salvi i casi di normativa dal significato sostanzialmente evidente, oggetto di un improvviso e imprevedibile revirement giurisprudenziale o di prassi, che individui concetti innovativi (come è avvenuto, ad esempio, con l’abuso del diritto), casi nei quali, ugualmente, pare che dovrebbe non essere sanzionato chi avesse confidato sul significato incontroverso precedente, si entra nell’area della incertezza.

Ebbene, anche chi tema che sdoganare un accertamento della colpevolezza tributaria possa comportare incertezza o aree di impunità non dovrebbe avere alcunché di soverchio da temere da questa impostazione. Dovrebbe, infatti, soccorrere il principio di precauzione: tale per cui, tra due soluzioni incerte, potrebbe ritenersi, almeno entro limiti ragionevoli, preferibile, da parte del contribuente diligente, la condotta meno a rischio (di creare danno agli interessi fondamentali perseguiti dalla collettività nel riscuotere i tributi). Nel caso incerto, e nei limiti della ragionevolezza, così come al datore di lavoro o produttore potrebbero richiedersi cautele nella sicurezza del lavoro o realizzazione di prodotti, rispetto al rischio di danno di produzioni nuove, così potrebbe ritenersi che il contribuente professionale (o anche il contribuente medio, il pensionato di Busalla? Questione da approfondire, tenuto conto che i doveri di solidarietà riguardano tutti) sia tenuto, nel caso dubbio, a pagare e poi chiedere il rimborso, esponendosi a sanzione nel caso opposto. Ciò, però, solo nei limiti della ragionevolezza, ove cioè tale onere non si presenti sproporzionato: quando l’interpretazione favorevole appare solida e appare trascurabile, assolutamente minoritaria (o, addirittura, dottrinale e meramente teorica) l’opzione opposta, il contribuente deve poter confidare sul piano sanzionatorio sulla prima. Detto immaginificamente, principio di precauzione non significa dover “aver paura dei fantasmi o della propria ombra”.

Resta un problema ulteriore, molto delicato, e anch’esso inesplorato. Cosa accade quando il contribuente si sia avvalso della consulenza di un esperto (e ovviamente ne sussista la prova)? Qui, per vero, possono darsi tipologie di casi molto diversi. Tutto un arcobaleno di situazioni che va da un estremo all’altro: da un accordo “criminoso” in cui il cliente cerca una sponda per evadere nel professionista, a quello di un contribuente vittima degli errori del professionista. In mezzo, si collocano situazioni in cui il mandato del cliente sia quello di trovare la soluzione economicamente più conveniente, non importa se contraria alla legge, oppure non avvedendosi, quando invece era possibile, che si tratta di violazione. Invero, la responsabilità del cliente per le sanzioni amministrative, in tutte le situazioni appena descritte, non convince affatto, anche se non risulta che la giurisprudenza faccia distinzioni al riguardo. In effetti, la colpevolezza del cliente pare sussistere in tutte le ipotesi sopra evocate, eccetto una: quella del mandato al professionista perché faccia le cose per bene e, ciò non ostante, di commissione di una violazione. In questo caso il titolo soggettivo di responsabilità del cliente (salvo il caso di simulazione o di contribuente preparato almeno quanto il professionista) non sembra proprio sussistere. L’unica via sarebbe quella di ipotizzare un assurdo dovere di far controllare il primo professionista da un secondo, il secondo da un terzo e così via all’infinito. La giurisprudenza risolve questa situazione, intuibilmente iniqua, affermando che il cliente subirebbe un danno ingiusto dal professionista, rappresentato dalla sanzione (e, forse, dagli interessi, almeno dal differenziale rispetto al vantaggio finanziario da posticipato pagamento) e potrebbe ottenere un risarcimento in sede civile. Tale correttivo a posteriori – se anche non scontasse gli importanti limiti di esclusione di responsabilità del professionista per colpa non grave nei casi di particolare complessità (art. 2236 c.c.) – non elimina l’errore di base: una sanzione applicata per responsabilità sostanzialmente oggettiva. Per vero, la via maestra potrebbe essere un’altra, ma essa non trova finora riconoscimento nella giurisprudenza (e forse neppure nel sistema normativo attuale): nella fattispecie l’elemento soggettivo rimproverabile è in capo al professionista (che crea il rischio, dovrebbe risponderne e potrebbe essere assicurato), che, per usare terminologia penalistica, è un sostanziale autore mediato. Si tratta di una figura sostanzialmente dimenticata (e di non facile applicazione nel campo delle violazioni colpose), nel quadro di una generale disattenzione al tema del concorso nelle sanzioni amministrative: ma ciò non significa che non sarebbe opportuna una riflessione critica in materia. Si tratta, ovviamente, di un campo assai delicato: ogni estensione della responsabilità va valutata con estrema prudenza, per le enormi ricadute che può avere, ma è anche vero che, nell’ambiguità del rapporto tra cliente e professionista (che nulla ha a che vedere con profili attinenti il segreto, la fiducia, l’affidamento, la professionalità, e molto con la deontologia), si possono annidare anche sacche di inefficienza o rendite derivanti da atteggiamenti poco limpidi sul piano etico. Non meno delicati sono poi i profili probatori e pratici. In proposito, si potrebbe ipotizzare che la possibile scusabilità del cliente necessiti un incarico puntuale e una espressa valutazione del rischio da parte del professionista. Entro questi limiti vi sarebbe una più trasparente delimitazione di doveri e responsabilità, che offre l’opportunità di un atteggiamento più etico, da un lato, e più tutelato, dall’altro, fermo restando fermo l’originario regime di responsabilità per chi preferisca restare nella zona grigia esistente. Non è difficile vedere in questo tipo di evoluzione un parallelismo con i modelli di gestione del rischio che si stanno diffondendo in altri settori dell’ordinamento, che potrebbero costituire un elemento di raffronto. Tutta da esplorare l’efficacia di un tale modello rispetto alla attrattività di investimenti, atteso il potenziale incremento di certezza correlato. Accanto a un possibile circuito vizioso (nessuno garantisce niente, perché le norme sono incerte) non è da escludere che si inneschi un circuito virtuoso (perché i giocatori si prendano responsabilità occorre che il campo da gioco sia sgombro dalle nebbie, quindi alla fine tutti si devono prendere le proprie responsabilità, a cominciare dal legislatore, e a monte del legislatore l’Accademia, che ha molte responsabilità del diffuso analfabetismo di ritorno in materia, invece che continuare in un poco trasparente scaricabarile). Ma, a ben vedere, tali riflessioni appaiono potenzialmente ancora più feconde (o forse solo ancor più visionarie), se ci si sposta dal presente, in cui si assiste a una evidente esternalizzazione della diligenza nei confronti dei professionisti, cioè esternalizzazione fondata sulla mediazione del ceto professionale, verso un ipotetico futuro, nel quale si assista a una esternalizzazione senza mediazione professionale, a tutto vantaggio di soluzioni di intelligenza artificiale e algoritmi, che pare si avviino a sostituire parte delle funzioni professionali, a partire dai segmenti più applicativi e ripetitivi. Il modello della responsabilità sostanzialmente oggettiva del contribuente per il fatto (anche) del mediatore professionale sarà adeguato al contribuente che adempie con il sussidio e, poi, verosimilmente attraverso strumenti software e di intelligenza artificiale? Ferma l’ovvia responsabiità per il data entry, l’immissione di dati falsi o incompleti, che dire degli eventuali disallineamenti rispetto alla elaborazione dei dati, l’adeguamento algoritmico (cioè automatico, parlando come si mangia) alle regole? Se la macchina pilotata da Google fa incidente è colpa del passeggero/guidatore? Se l’algoritmo fa eseguire una dichiarazione o versamento errato a partire da dati fedeli? La soluzione sarà, per eliminare rischi, far pilotare tutta la macchina fiscale a un Grande Fratello Tributario, emanazione di una Leviatanica Agenzia delle Entrate in cui i contribuenti, come operai di Metropolis, diano solo il consenso preventivo all’inserimento automatico di dati? Quale lo spazio di terzietà e controllo indipendente se si sceglierà questa strada per arrivare alla certezza? E, se invece si sceglierà il modello di una esternalizzazione della intermediazione a giganti del web, dove sarà collocato il pallino delle responsabilità? Il rischio di una privatizzazione delle sanzioni e corporativizzazione del profitti, di una etica del profitto scissa da quella delle responsabilità, rinnovantesi sotto forme sempre diverse, è dietro l’angolo. Occorre vigilare.

Prof.avv. Alberto Marcheselli Ordinario Diritto Tributario Università Genova, avvocato tributarista cassazionista

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