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Le Sezioni Unite rimodulano i termini decadenziali per il disconoscimento dei crediti IVA

Avv. Clino De Ieso

Iva e Dogane

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 21765/2021, proseguono nel progressivo depotenziamento dell’istituto della decadenza nell’ambito tributario. Il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte, che ha disapplicato in via interpretativa i termini decadenziali fissati dal legislatore per il disconoscimento da parte dell’ente impositore di un credito IVA chiesto a rimborso, non sembra tuttavia assumere una valenza generale, facendo esclusivo riferimento ad una posizione creditoria inesistente. Fermo restando che i profili di criticità relativi alla delicata tematica sulla rimodulazione dei confini invalicabili delle barriere decadenziali, a tutela del bilanciamento fra gli opposti interessi dell’Erario e degli operatori economici, dovrebbero essere esaminati, superati e risolti nella loro sede naturale, cioè in quella legislativa. Il sistema IVA è incentrato sulla regola della neutralità, secondo cui l’operatore economico non deve rimanere inciso dall’imposta, che va bilanciata con l’interesse erariale a non subire alcun danno dall’applicazione del combinato meccanismo della rivalsa e della detrazione. La neutralità si spinge ben oltre, fino all’ipotesi in cui al fornitore è riconosciuto il diritto al recupero dell’IVA accertata tramite la rivalsa postuma nei confronti del cliente, con l’Erario che deve accontentarsi degli interessi e delle sanzioni persino ridotte ove il contribuente rinunci ad impugnare l’atto impositivo. Ad allargare la portata del principio di neutralità alle situazioni patologiche, provvede la giurisprudenza più moderna che, in assenza di danno erariale, giustifica la restituzione dell’imposta non dovuta al soggetto passivo che abbia partecipato ad una catena di operazioni “carosello” o ad un acquisto immobiliare di natura abusiva. Dietro l’angolo si nasconde un altro rischio di ingiustizia, intollerabile per la Cassazione, conseguente al decorso dei termini perentori di decadenza dal potere accertativo con l’effetto, in verità paradossale, di impedire all’Amministrazione finanziaria di poter disconoscere il diritto al rimborso di un credito IVA che risulti palesemente inesistente. Utile, a riguardo, è la trilogia di pronunce delle Sezioni Unite, tra le quali la sentenza n. 21765/2021 in commento, che hanno esteso il potere accertativo oltre il termine decadenziale predeterminato dal legislatore. L’idea che accomuna queste tre decisioni è molto chiara: il rapporto tributario fra Erario e contribuente non può piegarsi ciecamente alla decadenza, qualora l’applicazione di tale istituto comporti la definitiva cristallizzazione di crediti inesistenti in favore degli operatori commerciali. In altri termini, secondo le Sezioni Unite, il trascorrere del fattore tempo (elemento statico) non è da solo sufficiente per far calare un velo sulle dichiarazioni fiscali passate, dovendosi prestare attenzione anche all’esistenza dei presupposti costitutivi del credito il cui controllo, pertanto, deve protrarsi sine die. Assume, dunque, rilevanza, ai fini dell’operatività della decadenza, l’elemento dinamico della condotta del contribuente chiamato a dimostrare la legittimità dell’eccedenza di credito richiesta a rimborso. Ed è esattamente la via tracciata dalle Sezioni Unite nella sentenza in commento che presenta, tuttavia, alcune incongruenze sistematiche latenti come l’irragionevole effetto discriminatorio derivante da un’interpretazione giurisprudenziale, parzialmente abrogativa dell’art. 57 del D.P.R. n. 633/1972, che consiste nel far dipendere l’assoggettamento del credito IVA ai termini decadenziali a seconda della sua modalità di utilizzo: creando, così, uno svantaggio estremamente penalizzante per i soggetti passivi che, nell’esercizio delle loro attività, si trovino costantemente a credito IVA.

La vicenda all’esame delle Sezioni Unite

La singolare vicenda della sentenza in commento merita di essere, seppur brevemente, narrata. E. S.a.s. ha maturato un credito IVA, proveniente da “operazioni sospette”, che si è generato nella dichiarazione IVA per l’anno 1998. Il credito, però, non è stato immediatamente recuperato dalla società che, pertanto, l’ha riportato a nuovo nei periodi d’imposta successivi. Nel medesimo anno, cioè, nel 1998, la società è stata dichiarata fallita. A distanza di dieci anni, precisamente, nel 2008, il fallimento ha presentato istanza di rimborso del credito per cessazione dell’attività ex art. 30, comma 2 del D.P.R. n. 633/1972. Quest’ultimo, nel 2010, ha ceduto il credito IVA a Fast Finance la quale, successivamente, ha impugnato il diniego di rimborso del credito opposto dall’Agenzia delle entrate che, poi, è risultata vittoriosa in entrambi i gradi di merito. In particolare, la Commissione tributaria provinciale ha rigettato il ricorso della contribuente valorizzando la “relazione del curatore”, che qualifica le operazioni “come vere e proprie truffe”. Inoltre, il giudice di secondo grado, nel respingere l’appello della società, “ha fatto leva sull’estraneità all’attività d’impresa delle operazioni fonti delle poste detraibili dalle quali era scaturita la pretesa di rimborso, per la loro natura ‘ai limiti della fraudolenza e comunque non di natura imprenditoriale’”. Di fronte a questo scenario caratterizzato dal sospetto sulla inesistenza del credito, le Sezioni Unite si sono chieste se fosse giusto che lo Stato sia tenuto, per il mero decorso del termine di decadenza, ad erogare il rimborso di un credito fittizio. Infatti, in questo caso, sarebbe impossibile per l’Erario sindacare sulla reale effettività del credito. La risposta negativa della Cassazione, evidentemente proiettata a sterilizzare gli effetti devastanti della decadenza a danno dell’Erario, si è tradotta nella conferma della decisione di secondo grado che ha dichiarato la legittimità del diniego del rimborso avuto riguardo alla “inoperatività del termine di decadenza previsto dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 57”. Snodo essenziale di questo ragionamento è dato dal rilievo per cui, l’aver indicato nella dichiarazione un credito inesistente - che, quindi, va considerato tamquam non esset - non costituisce una circostanza dalla quale possa discendere la consumazione del potere accertativo e, per effetto, la cristallizzazione della posizione creditoria (inesistente) del soggetto passivo.

Quale limite decadenziale per l’accertamento di un credito IVA inesistente?

L’esigenza di rispondere alla giustizia del caso concreto ha portato le Sezioni Unite a preferire una soluzione che, a ben vedere, non restituisce un quadro di chiarezza e coerenza sistematica. Nessuno dubita, come correttamente sottolineato nella decisione in commento, che “il principio di neutralità non comporta che si consenta la fruizione di un credito IVA non dovuto, perché scaturente da operazioni diverse da quelle che consentono la detrazione”. Tuttavia, ammettere un controllo fiscale senza alcun limite decadenziale potrebbe creare una discordanza nel sistema IVA attualmente calibrato sull’orizzonte temporale dei cinque o sette anni per l’azione accertativa. La disposizione di riferimento è l’art. 57 del D.P.R. n. 633/1972, in relazione al quale la sentenza in commento offre un’interpretazione alquanto restrittiva, facendovi ricadere solo “i debiti”, “ma” non “i crediti vantati dal contribuente che restano soggetti all’eventuale contestazione da parte dell’Ufficio finanziario”. Sicché, osserva la Suprema Corte, “quell’omesso esercizio (...) del potere di accertamento (...) si riverbera sul debito del contribuente, di modo che l’Amministrazione, che sia decaduta dai propri poteri di accertamento e rettifica, non può pretendere un’imposta maggiore di quella liquidata in dichiarazione. Coerentemente, peraltro, l’Amministrazione neanche può contestare il credito che scaturisca dalla sottostima dell’imposta dovuta che in realtà era maggiore e che è stata evasa: e ciò per il rapporto di proporzionalità inversa tra debito e credito. È a questo credito che si riferisce il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 1, secondo periodo: l’eccedenza detraibile oggetto della pretesa di rimborso che va accertata nel termine di decadenza ivi stabilito è appunto quella che deriva dalla sottostima del debito, che deve essere oggetto di rettifica”. Viceversa, entro i termini di decadenza, “non è necessario che sia accertato dall’Amministrazione” il “credito che nasca, (...) come nel caso in esame, dal coacervo delle poste detraibili che prevalgano sul debito”. Questa lettura alternativa e, per certi versi, innovativa della norma appare una forzatura interpretativa rispetto al senso letterale che sottende la ratio legis.
Il citato art. 57 non sembra restringere - come, invece, affermano le Sezioni Unite - l’ambito di operatività della decadenza ai soli atti impositivi con i quali viene contestato un maggior debito IVA del soggetto passivo, con l’esclusione dei provvedimenti di disconoscimento dei crediti vantati dall’operatore commerciale. In realtà, tale precetto mira piuttosto ad includere, cioè, a tenere dentro - come chiarito dai lavori preparatori al D.P.R. n. 633/1972 - “qualsiasi altro atto di accertamento dell’Ufficio”, compreso il diniego di rimborso, dove l’uso dell’aggettivo indefinito “qualsiasi” esprime la evidentissima volontà legislativa di ampliare al massimo il raggio d’azione della decadenza: in quanto la “riduzione dei termini” per l’accertamento “rende più difficile l’attività dell’Amministrazione, ma lo svantaggio è ampiamente compensato dalla possibilità per le imprese di ridurre il periodo di incertezza delle risultanze dei bilanci, che possono essere notevolmente alterate, fino a cambiare segno, per effetto di tardivi accertamenti fiscali”. Si tratta di parole essenzialmente dettate dalla preoccupazione di eliminare, attraverso l’istituto della decadenza, quelle situazioni in cui i tempi di esercizio della potestà accertativa siano sostanzialmente lasciati ad un’eccessiva discrezionalità dell’Amministrazione finanziaria che potrebbe dar luogo a condotte arbitrarie o, comunque, svincolate dai principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità.

L’asimmetria del rapporto tributario (Erario/contribuente)

Come si è visto, le Sezioni Unite mal sopportano la decadenza, soprattutto quando tale istituto rappresenti un insormontabile freno alla lotta contro le frodi che, ove accertate, si ripercuotono sui profili sostanziali dell’IVA annullando, quale conseguenza della condotta fraudolenta compiuta dall’operatore, il diritto al rimborso del credito IVA fittizio. Ammettendo, dunque, l’inoperatività della decadenza laddove via sia un comportamento illecito del soggetto passivo, resta il problema di fondo di accertare la natura fraudolenta della posizione creditoria del contribuente, il che presuppone a priori un controllo sulla dichiarazione per l’annualità già decaduta. Ma, così ragionando, sotto le mentite spoglie di una verifica limitata ai crediti inesistenti, si può dissimulare - in deroga ai termini ordinari di decadenza - un controllo generale su tutti i crediti, ivi compresi quelli esistenti, ossia, generati da operazioni lecite. Non bisogna dimenticare che, come ha insegnato la querelle interpretativa intorno alla “regola Taricco” sui termini di prescrizione per le frodi IVA, i principi dell’ordinamento dell’Unione per trovare applicazione a livello nazionale non devono confliggere con i precetti della Costituzione italiana. E uno di questi sancisce il diritto di difesa, che sarebbe eccessivamente compresso al cospetto di un’azione accertativa del Fisco senza limiti temporali. Basti osservare che, in tal caso, l’operatore economico sarebbe caricato di oneri abnormi e sproporzionati, con un inevitabile aggravio di costi che comporterebbero una graduale e progressiva erosione dell’ammontare del credito IVA. Si allude non tanto al dovere di conservazione dei documenti contabili oltre il termine decennale, ma all’obbligo di prestare all’infinito la cauzione o la garanzia fideiussoria, prevista per l’esecuzione dei rimborsi, la cui durata è stabilita facendo riferimento proprio al “al termine di decadenza dell’accertamento” disapplicato, però, dalle Sezioni Unite. Tutto ciò potrebbe produrre un forte sbilanciamento in favore dell’Erario che, peraltro, già domina il rapporto tributario caratterizzato dal potere autoritativo dell’Amministrazione finanziaria e rispetto al quale l’operatore economico può soltanto cercare di contenerlo, essendo titolare di un interesse legittimo. Non appare, quindi, sufficiente il solo rimedio dell’emendabilità della dichiarazione anche in sede contenziosa, enfatizzato nella decisione in commento, per riequilibrare l’asimmetria fra i due soggetti (Erario/contribuente). E che non sia un rapporto paritario, è dimostrato dalla cauta retromarcia delle Sezioni Unite sul principio privatistico, neppure applicabile ai termini decadenziali, che permette alla parte convenuta di eccepire l’annullabilità del contratto nonostante sia “prescritta l’azione per farla valere”.

L’irragionevole effetto discriminatorio a tutto svantaggio dei soggetti passivi IVA

Le considerazioni svolte consentono, a questo punto, di affrontare il tema più delicato della sentenza in esame, che attiene alla diversa sorte dei crediti IVA assoggettati o meno ai termini di decadenza. Non a caso, le Sezioni Unite utilizzano per tale criticità l’espressione “disarmonia di sistema” che può essere così riassumibile. Lo stesso credito IVA, da un lato, soggiace al termine decadenziale qualora sia azzerato tramite la compensazione interna con il debito IVA in sede di liquidazione, ovvero mediante la compensazione esterna con i debiti relativi ad altre imposte. Ne consegue, stante l’effetto preclusivo dell’intervenuta decadenza, l’impossibilità per l’ente impositore di effettuare qualsiasi controllo sul periodo d’imposta in cui è stata effettuata la compensazione. Dall’altro lato, il medesimo credito, se richiesto a rimborso, non è assoggettato ad alcuna barriera decadenziale. Viene, quindi, ammesso un controllo, per così dire, no-limits da parte dell’Amministrazione finanziaria. Ebbene, nella misura in cui si voglia rintracciare un fondamento sistematico che vada oltre la soluzione del caso concreto, le argomentazioni sviluppate dalle Sezioni Unite per giustificare la “disarmonia” non sembrano del tutto convincenti. Anzitutto, non appare esaustivo il richiamo alla giurisprudenza formatasi intorno alla peculiare disciplina del condono che, proprio per la sua specificità, non può assumere una valenza di carattere generale. Qualche perplessità desta anche la totale deresponsabilizzazione dell’Amministrazione finanziaria la cui condotta inerte, a dire delle Sezioni Unite, non equivale ad alcun riconoscimento implicito del credito oggetto del rimborso. A sostegno, nella sentenza in esame, si aggiunge che “il legislatore prende sì in considerazione l’inerzia, ma assegna ad essa il significato di rifiuto tacito, in quanto tale impugnabile”, ai sensi dell’art. “21, comma 2, primo nucleo normativo, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546” che “ammette il ricorso contro il silenzio rifiuto opposto dall’Amministrazione a qualsiasi richiesta di rimborso, comprese quelle rappresentate dall’indicazione in dichiarazione del credito d’imposta idonea a manifestare la volontà di richiedere il rimborso (...); e il silenzio rifiuto funge, come autorevole dottrina ha sottolineato, da anello di congiunzione tra la procedimentalizzazione del diritto al rimborso e la sua tutela in sede giudiziale”. Si impone una precisazione. Qualora il rimborso sia attivato “nel sistema”, ex artt. 30 e 38- bis del D.P.R. n. 633/1972, non vi è dubbio che l’Amministrazione finanziaria abbia tutto il tempo per controllare la dichiarazione dalla quale risulti l’eccedenza creditoria e, eventualmente, per poter esprimere riserve oppure richiedere documenti e informazioni anche con riferimento, nel caso di credito riportato a nuovo, alla dichiarazione di provenienza del credito. Giustificare, in tal caso, l’inerzia dell’Amministrazione finanziaria, addossando la sua responsabilità in capo al contribuente, significherebbe tradire il principio di buona amministrazione. Rimane, pertanto, ingiustificato ed inspiegabile l’irragionevole effetto discriminatorio, troppo penalizzante per i soggetti passivi, prodotto dalla discordanza fra, da un lato, l’ipotesi di applicabilità dei termini decadenziali che implica per l’operatore la stabilizzazione del rapporto tributario con il Fisco e, dall’altro, l’ipotesi di inoperatività della decadenza che lascia i soggetti passivi - specialmente quelli che chiudono strutturalmente le proprie dichiarazioni a credito IVA - in balìa, per un tempo indeterminato, delle azioni accertative del Fisco con la perdurante incertezza sulla definitività del credito. L’irrazionalità di una simile ricostruzione appare ancor più palese, considerando altresì che, ove il credito IVA sia inesistente perché generato da fatture false e l’Amministrazione finanziaria non eserciti il suo potere di rettifica entro i termini di decadenza, il soggetto passivo potrebbe recuperare definitivamente il credito fittizio utilizzato mediante la compensazione che determina un maggior debito IVA, con il conseguente danno erariale. Mentre, nella medesima situazione, il recupero dello stesso credito IVA resterebbe incerto e, comunque, potenzialmente sub iudice potendo l’ente impositore contestarlo oltre il termine decadenziale per il solo fatto che l’operatore abbia optato per la modalità di recupero del rimborso. Tutto ciò pare, sia consentito dirlo, illogico, se non assurdo.

Considerazioni conclusive

L’intervento delle Sezioni Unite, che ha ritenuto non applicabili i termini di decadenza nel caso di disconoscimento da parte dell’ente impositore di un credito IVA chiesto a rimborso, non sembra tuttavia assumere una valenza generale facendo esclusivo riferimento ad una posizione creditoria inesistente. Sicché, al di fuori di questa ipotesi, per le richieste di rimborso “nel sistema” potrebbe trovare spazio l’insegnamento della Cassazione secondo cui “il diniego di rimborso del credito IVA soggiace al termine di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, se esso dipenda dalla contestazione della sussistenza dell’eccedenza detraibile indicata dal contribuente (...), mentre non vi soggiace se, pacifica tale sussistenza, vengano contestati i requisiti per l’accesso al rimborso contemplati dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30”. D’altronde, come già si è detto, non appare coerente con il sistema IVA il richiamo delle Sezioni Unite al citato art. 57 per giustificare l’esposizione sine die dell’operatore economico al potere accertativo esercitabile dall’Amministrazione finanziaria sugli acquisti inesistenti, che hanno generato il credito chiesto a rimborso. Ovviamente, non è certo motivo di soddisfazione assistere al riconoscimento di crediti IVA falsi e che sono stati artatamente precostituiti dall’operatore tramite un uso fraudolento del riporto a nuovo il quale, a sua volta, consente di rinviare la presentazione all’ente impositore della richiesta di rimborso soltanto dopo il superamento del termine di decadenza per l’azione accertativa. Ma il contrasto alle condotte fraudolente non può passare attraverso l’eliminazione dei limiti decadenziali e la demolizione dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano ed europeo. In definitiva, seppure sia condivisibile la soluzione al caso concreto prescelta dalle Sezioni Unite, il difficile bilanciamento fra gli opposti interessi dell’Erario e degli operatori commerciali - regolato dall’instabile equilibrio fra il potere di accertamento e le barriere decadenziali - non può essere affidato alla disapplicazione o alla parziale abrogazione, in sede interpretativa, dell’art. 57 del D.P.R. n. 633/1972. La rimodulazione degli invalicabili limiti decadenziali, anche attraverso nuove misure tese ad arginare l’utilizzo illecito del riporto a nuovo, va risolta - come giusto che sia - nella sua sede naturale, cioè, in via legislativa.

Fonte: Corriere Tributario, n. 12, 1 dicembre 2021, p. 1035 Avv. Clino De Ieso Avvocato Tributarista cassazionista, Partner Studio Legale Tributario Centore

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