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L’affievolito diritto ad essere ascoltato in un giusto processo tributario

Prof. avv. Francesco D’Ayala Valva

Processo Tributario

La trattazione di una controversia, civile o penale, in una pubblica udienza, è un principio consolidato da oltre due secoli. Una volta affermata la natura giurisdizionale anche delle Commissioni tributarie, l’applicabilità del principio della pubblica udienza anche a questi giudici speciali non fu affrontata dal legi-slatore ed in qualche maniera fu osteggiata dalla giurisprudenza delle Supreme Corti. Solo dopo la sentenza n. 50/1989 della Corte costituzionale il principio trovò amplia applicazione anche dinanzi alle Com-missioni tributarie. Un generale orientamento normativo dei primi anni 90’ ridusse la fruibilità di un tale dirit-to solo ove venga prodotta idonea istanza. Questa limitazione è ritenuta non aderente al principio espres-so dall’art. 101 Cost. La fruizione di tutte le opportunità di svolgere una compiuta difesa è stata ulteriormente ridotta dalla previsione dello svolgimento dell’udienza da remoto con termine ora prorogato fino al 31 marzo 2022, dal D.L. 30 dicembre 2021, n. 228, per effetto del prolungarsi della pandemia COVID. Di queste problematiche si occupano, in prospettive non coincidenti, le pronunce n. 218/2021 della CTP di Napoli e n. 11/2021 della CTP di Catania.

Ambedue le pronunce della Commissione tributaria provinciale di Catania, n. 11/2021, e di Napoli, n. 218/2021, in commento, rivendicano, sotto differenti prospettive, un diritto pieno delle parti ad essere ascoltate dinanzi al giudice tributario. I profili, dai quali prendono le mosse, sono solo parzialmente ana-loghi, ma in ambedue si evidenzia la impellente necessità di una tutela del diritto ad essere ascoltati nel corso di un pubblico processo tributario.

C.T.P. di Napoli n. 218/2021

La CTP di Napoli evidenzia che il ricorrente, con note successive alla instaurazione del contraddittorio, aveva richiesto la discussione del proprio ricorso in pubblica udienza ed in subordine la discussione a di-stanza. Il procedimento seguito è quello regolato dall’art. 33, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992 e dall’art. 16, comma 4, D.L. 23 ottobre 2018, n. 119, convertito dalla Legge 17 dicembre 2018, n. 136, come modifica-to dall’art. 135, comma 2, D.L. 19 maggio 2020, n. 34, convertito dalla Legge 17 luglio 2020, n. 77. La Commissione rileva che a causa di problemi connessi allo stato di emergenza da COVID-19, il Pre-sidente della C.T.P. ha emanato un provvedimento in base al quale le controversie fissate per la trattazione in pubblica udienza, a decorrere da lunedì 2 novembre 2020, passano in decisione sulla base degli atti, salvo che almeno una delle parti non insista per la discussione, con apposita istanza da notificare alle altre parti costituite e da depositare due giorni liberi anteriori alla data fissata per la trattazione. La Commissio-ne, in Camera di consiglio, ha preso atto che la parte ricorrente ha insistito per la discussione in presenza ed ha accolto l’istanza, in quanto la pubblicità delle udienze costituisce motivo di approfondimento per le parti e per l’organo giudicante e garanzia di uno stato di diritto fondato sul consenso e sulla legittimazione democratica e popolare. Ha, quindi, rinviato le parti ad una successiva udienza di discussione in presenza.

C.T.P. di Catania n. 11/2021

La C.T.P. di Catania prende le mosse da una semplice situazione processuale ove, in assenza di una ri-chiesta di discussione del ricorso in pubblica udienza, la controversia è stata esaminata in camera di con-siglio, ai sensi dell’art. 33, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992. Il Collegio ha ritenuto la norma, che prescrive la trattazione della controversia in Camera di consiglio, in contrasto con gli artt. 101, 111 e 136 della Costi-tuzione e la questione non manifestamente infondata rimettendola alla Corte costituzionale. Il percorso motivazionale presenta una articolata disanima dell’evoluzione della normativa processuale e di alcune più significative decisioni delle Supreme Corti. Il giudice parte dall’esame dell’art. 20 e poi dell’art. 39 del D.P.R. n. 26 ottobre 1972, n. 636 (Revisio-ne della disciplina del contenzioso tributario) nella parte in cui escludeva l’applicabilità dell’art. 128 c.p.c., il cui testo recita: “L’udienza in cui si discute la causa è pubblica a pena di nullità, ma il giudice che la dirige può disporre che si svolga a porte chiuse se ricorrono ragioni di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico o di buon costume”. La norma è rimasta in vigore fino alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 16 febbraio 1989, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale nella parte in cui prevedeva l’esclusione dell’art. 128 c.p.c., norma poi soppressa dalla Legge n. 22 maggio 1989, n. 198. L’ordinanza prosegue rilevando che il quadro normativo, della generale pubblicità delle udienze, è sta-to mutato dalla disposizione della Legge delega del 30 dicembre 1991, n. 413 e dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che all’art. 33, comma 1, dispone che “la controversia è trattata in Camera di consiglio salvo che almeno una delle parti non abbia chiesto la discussione in pubblica udienza”. Questo capovolgimento di fronte, che, pur mantenendo immutata la rilevanza della pubblica udienza, la subordina alla espressa richiesta di una delle parti, da formulare in una specifica procedura e tempistica, non sembra alla Commissione rispettosa del principio di cui all’art. 101, Cost. La Commissione prosegue considerando che la funzione dell’udienza pubblica, di rilevanza costituzionale, viene vanificata dalla li-bertà delle parti di presentare apposita istanza. Da qui la non manifestamente infondata della questione di illegittimità costituzionale dell’art. 30, lett. g), Legge delega del 30 dicembre 1991, n. 413 e degli artt. 32, comma 3, e 33 del D.Lgs. n. 31 dicembre 1992, n. 546 in relazione agli artt. 101, 111 e 136 Cost.

Distinte modalità di trattazione delle udienze nell’attuazione della Legge delega

La presa di posizione dei giudici di merito è condivisibile, ove si possa ritenere che la normativa emer-sa in conseguenza della sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 16 febbraio 1989 e della successiva disposizione contenuta nella Legge n. 22 maggio 1989, n. 198, possa costituire un valido sostegno per la persistenza di una udienza pubblica indiscriminata nel processo tributario. Va premesso che, dinanzi alle precedenti Commissioni tributarie, il R.D. 8 luglio 1937, n. 1516, inte-grato dalla Legge 5 gennaio 1956, n. 1, prevedeva espressamente l’audizione personale del contribuente, al quale doveva essere notificato apposito avviso, almeno venti giorni prima dell’udienza fissata per la di-scussione del ricorso. Il sistema vigente non contemplava la presenza del pubblico. La Legge delega n. 825/1971 per la riforma tributaria, all’art. 10, nel prevedere l’emanazione di dispo-sizioni in materia di contenzioso, al n. 14) stabiliva la revisione della composizione, del funzionamento e delle competenze funzionali e territoriali delle commissioni, anche al fine di assicurarne l’autonomia e l’indipendenza, e in modo da garantire l’imparziale applicazione della legge. Con il che si intendeva assi-curare alle commissioni stesse la struttura, le funzioni e le finalità che sono connaturali ai veri e propri or-gani giurisdizionali. Il legislatore delegato, con il D.P.R n. 636 del 26 ottobre 1972, nell’intento forse di ridurre i gradi di giudizio, fin all’ora presenti in materia di imposte e tasse, ha introdotto, nel contenzioso tributario, una in-novativa azione giudiziaria, da esperire avanti la Corte d’Appello , dopo decorso il termine per il ricorso alla commissione centrale. Nel contenzioso tributario si son fatte confluire due procedure giurisdizionali, dotate di differenti principi. Tra le altre disposizioni, veniva creata una distinta regolamentazione del mo-mento decisorio. Per la commissione centrale veniva azzerata la possibilità, per il ricorrente o resistente, di una difesa orale nell’udienza fissata per la decisione (art. 27) e questa doveva avvenire in Camera di con-siglio (art. 28). Con una norma di chiusura e rinvio (art. 39) al procedimento dinanzi alle Commissioni tri-butarie si applicano, in quanto compatibili con le norme dello stesso decreto, le norme contenute nel libro 1 del c.p.c., con l’esclusione dell’art. 128. Per giudizio dinanzi alla Corte d’Appello rimanevano in vigore tutte le norme processuali proprie (art. 40). Nella attuazione della Legge delega venivano codificate tre distinte modalità di trattazione delle udien-ze di discussione del ricorso. Per la commissione centrale la discussione orale non era ammessa e la deci-sione avveniva in Camera di consiglio; per le commissioni di primo e secondo grado, pur applicandosi le disposizioni del libro I del c.p.c. si prevede una udienza di discussione orale, alla quale possono parteci-pare la parte o i difensori , ma non in una udienza pubblica; nel procedimento dinanzi alla Corte d’Appello si applicano le disposizioni del c.p.c., salvo quelle non compatibili con la natura del rapporto tributario, quindi anche il disposto dell’art. 128, che prevede che l’udienza, in cui si discute la causa, sia pubblica a pena di nullità, salvo che il giudice che la dirige disponga che si svolga a porte chiuse, se ricor-rono ragioni di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico o di buon costume. La limitatezza delle deroghe e la puntuale identificazione delle cause, per le quali si possa disporre l’udienza a porte chiuse, fa ritenere che l’udienza pubblica costituiva, nell’originario contesto normativo, e si può ritenere che tutt’ora costituisca un principio ed un cartine imprescindibile di ogni giusto processo. La prima stesura della revisione delle Commissioni tributarie, entrata in vigore il 1° gennaio 1973, con-teneva una insanabile disuguaglianza, in termine di diritti di difesa, esercitabili dinanzi ai differenti giudici e nei vari gradi del ridisegnato contenzioso tributario, ma comunque riaffermava che nel procedimento dinanzi a tutte le Commissioni tributarie non si dava ingresso alla discussione in pubblica udienza.

Pubblicità dei dibattimenti giudiziari e loro svolgimento a porte chiuse

La questione della legittimità della regola della pubblicità dei dibattimenti giudiziari o del loro svolgi-mento a porte chiuse era presente nelle aule giudiziarie. La Corte costituzionale, con sentenza n. 12 del 2 febbraio 1971 (Pres. e Rel. Branca), pur in un procedimento non tributario, ma in un contesto ove era sta-to dato un carattere giurisdizionale solo in funzione di una più rigorosa tutela dell’indipendenza del singo-lo, aveva premesso che in nessuna delle singole norme costituzionali è posta la regola della pubblicità dei dibattimenti giudiziari; aveva però ritenuto che la pubblicità delle udienze fosse coessenziale ai principi ai quali, in un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, debba conformarsi l’amministrazione della giustizia, che, in relazione all’art. 101, Cost. in quella sovranità trova fondamento. La Corte ha precisato che il legislatore, in relazione a determinati procedimenti giurisdizionali e quando vi sia una obiettiva e razionale giustificazione, ha il più ampio potere discrezionale nella valutazione degli interessi che possono giustificare la celebrazione del dibattimento a porte chiuse. Veniva confermato il principio della prevalenza dell’udienza pubblica, delimitato dalle scelte discrezionali, ma non arbitrarie, del legislatore. La Corte, pur affermando la rilevanza del principio dell’udienza pubblica, ne ha marcato i confini in un procedimento di natura giurisdizionale e, nel suo ambito, il potere del legislatore di comprimerne il contenuto. Partendo da questa puntualizzazione della Corte va ricordato che la normativa sulla revisione del con-tenzioso tributario del 1971 non aveva sciolto il dubbio sulla natura delle stesse commissioni, specie in quanto con le immediatamente precedenti sentenze nn. 6 e 10 del 1969 della stessa Corte avevano affer-mato la loro natura amministrativa. Ove fosse stata confermata la natura amministrativa il problema della tipologia dell’udienza non avrebbe potuto trovare ingresso. La questione è stata risolta a seguito di 13 ordinanze di rimessione, emanate tra il 1969 ed il 1973, in accoglimento delle quali, con sentenza n. 287 del 27 dicembre 1974 , la Corte costituzionale, facendo le-va sui principi rinvenibili nel D.P.R n. 636/1972, ha affermato che le commissioni “così revisionate e strutturate, debbono ora considerarsi organi speciali di giurisdizione”, essendo indubbio che la legge, indi-rettamente ma sicuramente, ha imposto la giurisdizionalità delle Commissioni tributarie.

Divieto di pubblica udienza

Una volta definita la loro natura giurisdizionale, riemerse il problema della negata applicabilità del di-sposto dell’art. 128 c.p.c., già ritenuto doveroso in ogni procedimento giurisdizionale con la sentenza della Corte costituzionale n. 12/1971. La questione fu sollevata una prima volta dalla Commissione tributaria di primo grado di Orvieto, con ordinanza n. 645/1978, in quanto il principio della pubblicità delle udienze doveva ritenersi recepito, sebbene non esplicitamente, nell’art. 101 Cost., in quanto inteso ad assicurare il controllo dell’opinione pubblica su tutte le manifestazioni della sovranità popolare. Si inseriva un partico-lare elemento di riflessione in base al quale il principio non dovesse tutelare unicamente o principalmente gli interessi delle parti, ma l’interesse generale al controllo dell’operato della giustizia, nella specie tributa-ria. La questione, tenendo presente la importanza che investiva tutti i giudizi dinanzi alle Commissioni tri-butarie, fu tuttavia esaminata in Camera di consiglio solo il 21 maggio 1986, dopo otto anni dall’ordinanza di rimessione del 1978, e decisa con sentenza n. 212 del 24 luglio 1986 (Pres. La Pergola - Rel. Saja). La Corte, nell’evidenziare l’importanza della questione, ha ricordato che il principio della pubblicità delle udienze si è affermato nei tempi moderni, con la caduta dell’assolutismo, e venne proclamato, con una disposizione di portata generale, per la prima volta, nell’art. 208 della Costituzione francese del 1875, assurgendo al ruolo di normale guarentigia d’una retta amministrazione della giustizia. Il principio fu rece-pito nell’art. 72 dello Statuto Albertino e coerentemente tutte le leggi processuali hanno mantenuto o in-trodotto tale regola. Partendo da questa premessa la Corte ha riaffermato che il principio non può conside-rarsi assoluto e deve cedere in presenza di particolari circostanze giustificative. Approfondendo l’indagine la Corte ha riconosciuto la scarsa coerenza del legislatore che, nel complessivo contenzioso tributario, ha conservato l’esclusione della pubblicità delle udienze per le Commissioni tributarie mentre, relativamente ai procedimenti dinanzi alla Corte d’Appello e la Corte di cassazione, vale la disposizione dell’art. 128 c.p.c. Abbandonando la facile conclusione, derivante dalla rilevata “scarsa coerenza del legislatore” nell’istituire e mantenere tale contraddizione, la Corte ha identificato la causa remota, del mantenimento di un tale divieto, nell’incertezza che permaneva, all’epoca della Legge delega n. 825/1971 e del successivo D.P.R n. 636/1972, sulla effettiva natura delle Commissioni tributarie. Ha affermato che solo con la pro-pria sentenza n. 287/1974, successiva a tali provvedimenti normativi, la loro natura giurisdizionale era sta-ta riconosciuta e che lo stesso legislatore, con un decreto correttivo al testo del contenzioso tributario n. 739/1981, pur apportando numerose integrazioni non aveva ritenuto di modificare il testo dell’art. 39. Anche su queste premesse (tempo trascorso-12 anni ed inattività del legislatore), che portavano ad una coerente conclusione di illegittimità dell’esclusione dell’art. 128 c.p.c., la Corte ha solo riconosciuto che non potrebbe ritenersi consentita un’ulteriore protrazione della disciplina attuale e che è assolutamente in-dispensabile che il legislatore intervenga, onde adeguare il processo tributario all’art. 101 Cost., corretta-mente interpretato. Su questa ulteriore premessa ha dichiarato non fondata la questione. La sentenza suscitò ampio eco, ma la questione rimase immutata . La lunga quiescenza della questione rimasta negli archivi della cancelleria della Corte dal 1978 al 1986 e la ritenuta insufficienza della sua risposta pubblicata sulla G.U. del primo agosto 1986, ha legittimato la Commissione tributaria di Verbania di riproporre con ordinanza del 29 settembre 1986 il medesimo dub-bio sulla legittimità del divieto di pubblica udienza. La questione fu prontamente trattata dalla Corte nella Camera di consiglio del 11 novembre 1987 e la relativa decisione pubblicata dopo quattro mesi il 14 mar-zo 1988 (ordinanza n. 378/1988, Pres. e Red. Saja). In questa occasione la Corte dichiarò manifestamente infondata la questione, non potendosi non confermare, atteso il breve lasso di tempo intercorso, le consi-derazioni già svolte nella sentenza n. 212/1986. Stante la fragilità della motivazione la Corte rinnovò an-che l’invito al legislatore a provvedere. Anche questa ordinanza fu negativamente commentata dalla dottrina . L’insoddisfazione sulla pronuncia portò la stessa commissione di Verbania a riproporre, sollevandola di Ufficio, la medesima questione con ordinanza n. 357 del 21 marzo 1988. Con inusuale velocità la que-stione fu portata alla pubblica udienza del 13 dicembre 1988 e decisa il 9 febbraio 1989 (sentenza n. 50/1989, Pres. e Red. Saja). Dopo aver richiamato i propri precedenti, ed in particolare la sentenza n. 212/1986, ha riaffermato che in base al precetto costituzionale dell’art. 101, Cost., doveva ritenersi impli-cita nei principi costituzionali la regola generale della pubblicità dei dibattimenti giudiziari, che poteva tut-tavia subire eccezioni quando abbiano obiettiva e razionale giustificazione. Precisava che per i procedi-menti tributari l’eccezione della tutela della privacy non poteva trovare condivisione stante il canone di trasparenza al quale è soggetta l’imposizione tributaria. Da qui la declaratoria di incostituzionalità del comma 1 dell’art. 39, nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’art. 128 c.p.c.

Pubblicità delle udienze di fronte alle Commissioni tributarie

La puntuale motivazione di accoglimento della questione e l’esclusione della legittimità di qualsiasi ec-cezione alla regola della pubblicità in relazione ad elementi soggettivi del contribuente, dichiarata dalla Corte, aveva fatto sperare ad un definitivo assestamento della normativa a far data dal 9 febbraio 1989. Tale convincimento era rafforzato dal tenore della Legge n. 198 del 22 maggio 1989, entrata in vigore, con non usuale procedimento, nel giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Uffi-ciale (G.U. n. 124 del 30 maggio 1989). Con questa norma veniva formalmente introdotta la pubblicità delle udienze dinanzi alle Commissioni tributarie e per la loro disciplina si dichiaravano applicabili gli artt. 127, 128, 129 e 130 c.p.c., con la soppressione nel comma 1 dell’art. 39, D.P.R. n. 636/1972 delle parole “e dell’art. 128”. Ad ulteriore chiarimento del nuovo corso veniva anche soppresso l’ultimo comma dell’art. 27, D.P.R. n. 636/1972, che stabiliva che la discussione orale dinanzi alla Commissione centrale non era ammessa. Il contenzioso tributario, dopo tre lustri, raggiungeva l’uguaglianza con il codice di rito in termini di pubblicità delle udienze. La continua dinamicità propria della normativa tributaria e la sentita necessità di una più organica legge processuale spinse il legislatore ad emanare una ambiziosa Legge delega, con Legge 30 dicembre 1991, n. 413; questa, all’art 30, conteneva anche disposizioni per la revisione del contenzioso tributario. Nella lett. g) si prevedeva espressamente l’adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo ci-vile. Il lungo percorso delle Commissioni tributarie, riconosciute organi giurisdizionali, sembrava concluso con la previsione di una procedura, che rispecchiasse i principi generali insiti nel Codice di procedura ci-vile, in quanto quest’ultimo contiene i principi comuni di ogni processo. Tra le prime deroghe a tale rinvio veniva subito inserita una specifica disposizione, in base alla quale la trattazione della controversia doveva avvenire in Camera di consiglio in mancanza di tempestiva richiesta espressa dell’udienza di discussione. La disposizione ha trovato ingesso nell’art. 33 del D.Lgs. 31 dicem-bre 1992, n. 546. Non si trattava di un ritorno al passato, ma certamente di una elusione del principio della pubblicità delle udienze e la dottrina non ha mancato di sottolineare, nel corso dei successivi tre decenni, le numero-se discrepanze presenti nella complessiva normativa ed in quella contenuta nel richiamato art. 33 . Si può affermare che il tempo trascorso dall’introduzione del ormai noto doppio binario ha fiaccato quella romantica fiamma che esprimeva il desiderio di essere sempre presente ad una udienza partecipata dai tre soggetti necessari, giudice e parti. A questo ha contribuito pesantemente la giurisprudenza della Su-prema Corte, la quale, proprio in relazione ad una udienza pubblica, ne ha svilito la natura e la funzione. Con la sent. n. 9156 del 21 aprile 2011 la Corte di cassazione ha affermato che la discussione della causa nel giudizio ha una funzione meramente illustrativa delle posizioni assunte e delle tesi già svolte nei pre-cedenti atti difensivi e non è sostitutiva delle difese scritte . Questo orientamento di pensiero non è fortunatamente generalizzato, ma è certamente posto alla base di tutte quelle norme che in questo periodo vengono giustificate anche dal persistere della pandemia . Ri-mane il bisogno connaturato alla giustizia di serbare il suo habitat umano fatto di linguaggio, di relazioni, di sguardi, di parole, di emozioni, in assenza del quale si va incontro a una rottura del suo modello antro-pologico. Liquidata della giurisprudenza della Suprema Corte la funzione della discussione in pubblica udienza, il permanere della possibilità di difese scritte prima della Camera di consiglio sembra soddisfare quel mi-nimo di garanzia costituzionale residuo, dopo il pesante intervento del legislatore. Sotto altro profilo non va dimenticato che la spinta riformista sull’udienza pubblica è stata sollecitata dall’esigenza ugualmente costituzionale di un processo celere. La Corte di cassazione, con sentenza resa a SS.UU. n. 24883 del 9 ottobre 2008, ha affermato che il principio della ragionevole durata del processo è diventato l’asse portante della lettura delle norme del c.p.c. In altri termini il principio di ragionevole dura-ta del processo, per quanto rivolto in primo luogo al legislatore, funge da parametro di costituzionalità ri-guardo alle norme processuali le quali - rispetto al fine primario del processo che consiste nella realizza-zione del diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al bene della vita og-getto della contesa - prevedano rallentamenti o tempi lunghi, formalità superflue (nell’ottica della funzio-ne dell’udienza pubblica sopra considerata) non giustificate da particolari esigenze difensive. Una volta effettuata la scelta legislativa, indirizzata in prevalenza verso la forma scritta, specie in relazione alla tipo-logia specifica del processo tributario, e non potendosi rinvenire un evidente irrazionalità nella minore fruibilità dell’udienza pubblica, la stessa non sembra sindacabile dalla Corte costituzionale e questo non lascia ben sperare sull’esito dell’ordinanza della Commissione tributaria di Catania.

Proroga del termine per le udienze da remoto a causa della pandemia

Va infine considerato il particolare momento storico nel quale viviamo per effetto della pandemia. Con il recentissimo D.L. 30 dicembre 2021, n. 228 il Governo, ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di provvedere, ha prorogato al 31 marzo 2022 il termine di cui all’art. 27, comma 1, primo periodo del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni, dalla Legge 18 dicembre 2020, n. 176, relativo allo svolgimento delle udienze da remoto nel processo tributario, già più volte prorogato. L’udienza da remoto, introdotta dallo sviluppo della tecnologia, è sembrata una soluzione intermedia tesa ad accelerare ulteriormente i tempi del processo, la ritenuta facilità di accesso, la riduzione dei costi, con una economia per tutte le parti, derivante dalla mancata necessità di raggiungere la sede della commis-sione. Si è creato un “foro virtuale” nel quale le parti colloquiano. È stato osservato che il digitale consiste nella uscita dallo spazio. Questo crea una sfasatura tra il rap-porto con lo spazio, offerto dalla nuova risorsa, ed il bisogno umano dei corpi e delle società organizzate in uno spazio simbolico, quale è il processo ed a maggior ragione l’udienza pubblica. Nella tele-giustizia non c’è più la “comparizione”, che si nutre della compresenza, ma solo delle presenze parallele e parziali; viene meno il faccia a faccia umano e rimane l’interfaccia digitale. La comparizione simultanea delle parti e del giudice costituisce l’avvenimento centrale del processo. La distanza telematica, che si viene a creare, rende più problematica la relazione con il giudice, dal momento che la difesa ha bisogno di “ascoltare co-loro che ascoltano”. Il difensore adatta continuamente il proprio atteggiamento a seconda che percepisca di essere compreso o meno dai giudici, di riuscire a smuoverli, a istillare loro il dubbio o al contrario di non riuscire a farli vacillare dall’eventuale preconcetto. Il monitor indebolisce la capacità di convinzione. Anche il giudice è messo sottopressione dalla presenza fisica delle parti e raggiunge il pieno coinvolgi-mento nell’udienza pubblica. Il monitor sterilizza questo effetto particolare della convergenza degli sguar-di, che ha una funzione gratificante ma anche responsabilizzante. Nel processo telematico la rigidità e il flusso della tecnica cancellano quella frammentazione di gesti, quelle esitazioni, quei ripensamenti, che rendono più ricco ed articolato il tessuto della giustizia. L’udienza da remoto mostra i propri limiti e si avvicina più alla difesa documentale, lontana dall’efficacia persuasiva derivante dalla compresenza fisica. Riassumendo, dopo la piena valorizzazione sul piano costituzionale dell’udienza pubblica, il legislato-re, quale unico forgiatore delle regole processuali, ha progressivamente eroso la funzione e la giurispru-denza citata ne ha svilito anche il significato. Hanno prevalso, in questo contesto, esigenze esterne dichia-rate di peso prevalente e razionali. L’esigenza di celerità del giudizio, al fine di offrire, comunque, un prodotto derivato da un rituale pro-cedimento, e la progressiva destruttualizzazione delle forme tipiche e tradizionali della giustizia aprono ad orizzonti digitali, che sembrano poter soppiantare l’intera struttura del tradizionale processo.

Fonte: GTRI - COMMENTO GIUR-GTRI - Giurisprudenza - Merito

Prof. avv. Francesco D’Ayala Valva, Ordinario Diritto Tributario Università di Roma, avvocato tributarista cassazionista

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