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La nozione di “distacco di personale”

Avv. Fabio Ciani e Avv. Gabriele Damascelli

Iva e Dogane

Con tre recenti ordinanze nn. 5601, 5609 e 5615 del 2.3.2021, la Corte di Cassazione, richiamando espressamente e facendo proprie le argomentazioni contenute nel precedente della Corte di Giustizia C-94/19 intervenuta a seguito di un rinvio pregiudiziale della medesima Corte interna di legittimità che si è di recente espressa in sede di rinvio con sentenza n. 529 del 14.1.2021, a distanza di soli due mesi è tornata ad occuparsi del corretto inquadramento dell’imponibilità IVA dei distacchi di personale tra società.

In particolare, ed ai fini meramente ricognitivi dell’intera vicenda, con la prima delle tre ordinanze sopra citate la Cassazione si è espressa in merito alla bontà del rilievo dell’Agenzia delle entrate che aveva contestato ad una società alcuni componenti negativi di reddito ritenuti non deducibili insieme all’indebita detrazione dell’IVA su fatture emesse da parte di un’altra società relativamente ad un contratto denominato di "prestazione di servizi" stipulato tra le medesime, in forza del quale, a fronte della prestazione svolta dalla prima, la seconda si era obbligata a corrispondere una somma di danaro, oltre al rimborso delle spese di vitto ed alloggio corrisposto al proprio personale, dipendente e non dipendente, impegnato per lo svolgimento del servizio.

L’Agenzia, ai fini Iva, aveva contestato che il contratto avesse natura di "prestazione di servizi", dovendo essere invece ricondotto al distacco o prestito di personale, con conseguente non imponibilità ai fini IVA del costo sostenuto dalla prima società (indicato nella fattura a titolo di rimborso per le spese per il personale dipendente) e non detraibilità ai fini Iva.

Con ord. n. 5601 la Cassazione, richiamando il precedente C-94/19 della CGUE secondo la quale la Direttiva IVA osta ad una legislazione nazionale in base alla quale non sono ritenuti rilevanti ai fini IVA i prestiti o i distacchi di personale a fronte dei quali è versato solo il rimborso del relativo costo, a patto che gli importi versati si “condizionino reciprocamente” ed a prescindere dall’importo del corrispettivo, ha concluso per la contrarietà della pronuncia dei giudici di seconde cure ai principi sopra indicati.

Nell’ordinanza la Corte ha enunciato il principio di diritto a cui dovrà attenersi il giudice di rinvio, il quale “dovrà accertare se esista un nesso diretto tra le prestazioni rese tra le parti, cioè se le stesse si condizionano reciprocamente nel senso che l'una è effettuata solo a condizione che lo sia anche l'altra, e viceversa, con la precisazione che è irrilevante l'importo del corrispettivo, in particolare la circostanza che esso sia pari, superiore o inferiore ai costi che il soggetto passivo ha sostenuto a suo carico nell'ambito della fornitura della sua prestazione”.

Si ritiene opportuna una breve disamina dell’origine della vicenda come rappresentata nel precedente della CGUE C-94/19 e nei suoi ulteriori precedenti nei quali sono state affrontate le spigolosità in tema di onerosità e corrispettività ai fini IVA.

Con la recente pronuncia ora citata, la Corte di Giustizia, rispondendo alla domanda se fosse o meno imponibile ad IVA la prestazione di servizi avente ad oggetto il distacco/prestito di personale all’interno di uno Stato membro, per la cui remunerazione la società distaccataria ha riconosciuto alla distaccante il solo importo del costo del personale distaccato, i cui emolumenti e oneri fiscali e previdenziali rimangono a carico del datore di lavoro effettivo (la distaccante), nel richiamare alcuni suoi precedenti in materia, ha concluso per l’imponibilità IVA della prestazione di servizi, la cui ricorrenza in concreto andrà valutata dal giudice del rinvio che dovrà verificare l’esistenza di quel “vantaggio/scambio” nelle controprestazioni (in termini economici) che più avanti si vedrà.

La Corte ha poi ribadito l’indifferenza della natura della prestazione ricevuta dal distaccante (rimborso spese) al fine di qualificare ed attrarre l’operazione nel campo di imponibilità dell’IVA.

Come si dirà nel prosieguo, l’errore prospettico inaugurato con il comma 35 dell’art. 8 della legge 11 marzo 1988, n. 67, confermato anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che qualificava automaticamente l’esenzione da IVA (per mancanza del presupposto oggettivo) nei casi in cui la remunerazione del distacco di personale, in capo al distaccante, equivaleva ad una somma esattamente pari alle spettanze retributive nonché agli altri oneri previdenziali, assistenziali ed assicurativi gravanti in capo al distaccante (quale rimborso spese), è stato quello di disapplicare tout court il criterio della corrispettività, per renderlo, in maniera erronea, automaticamente applicabile solo nelle ipotesi in cui il “corrispettivo” riconosciuto alla società distaccante fosse inferiore o maggiore del costo del personale oggetto del distacco.

Punto di partenza, per gli importanti risvolti ai fini civilistici (rectius, contrattualistici) che assume la vicenda (ovvero la necessaria futura revisione dei contratti di distacco di personale qualificati esenti ma d’ora in avanti imponibili), è l’inquadramento civilistico dell’istituto del distacco o prestito di personale, in cui rientrano tutte quelle forme flessibili della manodopera quali il lavoro a termine, il lavoro a chiamata nonché tutte quelle altre forme di lavoro temporaneo caratterizzate da brevità e assenza di definitività del rapporto giuridico oltreché dalla permanenza della titolarità del rapporto di lavoro in capo alla società distaccante ai fini contrattuali e retributivi e dall’identità della prestazione di lavoro che deve rimanere identica a quella originaria, permanendo quindi tra distaccante e lavoratore i vincoli obbligatori e di potere-soggezione.

Altra evidenziazione riguarda le ipotesi di distacco di personale e la loro distinzione da quelle di somministrazione di manodopera, disciplinate da differente normativa, laddove il distinguo attiene, nelle prime, alla riconducibilità dell’interesse in capo al distaccante piuttosto che all’utilizzatore il quale (il primo) soddisfa un interesse produttivo diversamente qualificato, come l’interesse al buon andamento della società controllata o partecipata, mentre il somministratore realizza il solo interesse produttivo della somministrazione a fini di lucro.

Come descritto in dottrina, il distacco o prestito di personale, ipotesi non espressamente disciplinata dal legislatore civilistico, consiste nel potere del datore di lavoro distaccante il quale, nei limiti dei propri poteri direttivi e compatibilmente con le finalità imprenditoriali perseguite, pone il proprio lavoratore a disposizione e sotto la direzione di un altro soggetto imprenditoriale (soggetto passivo IVA) affinché le mansioni vengano svolte non già nei confronti del distaccante bensì del distaccatario.

Come evidenziato in dottrina il distaccante sostiene i costi relativi al personale distaccato in nome proprio e non già, invece, in nome del distaccatario, sicché il corrispettivo versato per il prestito di personale non potrebbe essere considerato alla stregua di un rimborso a fronte di un’anticipazione fatta in nome e per conto della controparte, così come precipuamente richiesto dal dato normativo.

Perché ricorra l’ipotesi del distacco/prestito di personale occorre, inoltre, che vi sia un preciso interesse del distaccante (soggetto pubblico o privato) a traslare il potere di direzione del lavoratore distaccato in capo al distaccatario, permanendo, in capo al primo, il rapporto di lavoro originario sottostante, con conseguente obbligo del distaccante al versamento degli emolumenti e degli oneri fiscali e previdenziali.

Il requisito dell’interesse, per quel che qui rileva, viene evidenziato nell’art. 30 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (attuativo della c.d. Riforma Biagi, legge delega 14 febbraio 2003, n. 30), il cui primo comma testualmente dispone che “1) L’ipotesi del distacco si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa. 2) In caso di distacco il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore”.

Caratteristiche essenziali dell’istituto del distacco/prestito di personale sono la compresenza dei seguenti elementi: a) l’esecuzione da parte del lavoratore delle medesime mansioni presso il distaccatario piuttosto che presso il distaccante; b) la temporaneità, nel senso di non definitività, dello svolgimento delle predette mansioni; c) l’interesse del datore di lavoro distaccante a impiegare il proprio dipendente (o un lavoratore autonomo con il quale ha sottoscritto un contratto) presso un altro soggetto; d) la traslazione del potere di direzione, gerarchico e disciplinare di cui all’art. 2104 c.c., in relazione al lavoratore distaccato, dal distaccante al distaccatario; e) l’esistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, pena la nullità del distacco/prestito per incompatibilità con l’art. 2103 c.c.

In merito all’interesse del distaccante è stato correttamente osservato in dottrina che il requisito in questione differenzia l’istituto del distacco da quello della somministrazione di lavoro o manodopera, il quale soggiace a una diversa disciplina normativa ed esprime, di fondo, il solo interesse produttivo del somministratore alla somministrazione a fini di lucro, laddove, invece, “il distaccante soddisfa un interesse produttivo diversamente qualificato, come l’interesse al buon andamento della società controllata o partecipata”.

La distinzione, ai fini IVA, è rilevante dal momento che, se entrambe le operazioni possono essere ricondotte nel genus delle prestazioni di servizi, solo quelle di somministrazione sono sempre soggette ad IVA, anche se sul solo margine del somministratore, viceversa le ipotesi di distacco, per i soli casi in cui è rimborsato il solo costo del personale, hanno goduto dell’esenzione normativa, per assenza dell’elemento oggettivo.

La norma di riferimento nel caso de quo, da cui origina l’intervento della Corte europea in commento, è l’art. 8 della legge n. 67/1988 (finanziaria per il 1988), il cui comma 35 dispone che “*non sono da intendere rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto i prestiti o i distacchi di personale a fronte dei quali è versato il solo rimborso del relativo costo”.

La finalità dell’esenzione normativa è stata ricondotta all’ottenimento di un’utilità derivante da un’ottimizzazione delle proprie risorse umane pur senza il conseguimento di alcun margine operativo.

Inquadrato brevemente l’istituto dal punto di vista normativo, si ritiene utile una ricostruzione filologica della vicenda che ha portato alla sentenza della Corte di Giustizia qui in commento.

Un primo intervento in merito all’esatta qualificazione del distacco di personale, ai fini IVA, lo si fa risalire alla passi che, intervenuta a chiarire circa l’imponibilità o meno ad IVA dei prestiti di personale fra società collegate nel settore assicurativo, nell’ipotesi in cui la distaccataria rimborsava alla distaccante il solo importo delle retribuzioni corrisposte ai dipendenti unitamente ai contributi previdenziali e assistenziali, concludeva per l’esenzione da IVA sulla circostanza che, in quanto operazioni infragruppo, non si potesse parlare di corrispettivo bensì di un “semplice rimborso spese” e a condizione che l’importo riconosciuto dalla committente non eccedesse il costo del lavoratore distaccato.
Le conclusioni della prassi si fondavano su un’interpretazione letterale dell’art. 3 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 che, nonostante ricollegasse l’imponibilità di una prestazione di servizi alla corresponsione di un corrispettivo, era ritenuto inapplicabile per la natura di “semplice rimborso” del costo del personale.

A distanza di anni, però, il netto cambio di orientamento dell’Agenzia delle entrate, che riqualificava “correttamente” le operazioni di distacco/prestito di personale quali operazioni imponibili IVA dando una lettura euro-orientata della natura di corrispettivo, probabilmente aiutata anche dal novellato art. 7 del D.P.R. n. 633/1972 (modifica intervenuta a partire dal 1° aprile 1979) che aveva ricompreso, tra le operazioni soggette ad IVA, anche quelle di prestito di personale, e a prescindere dall’importo (maggiore, inferiore o uguale) del costo del lavoratore riconosciuto e remunerato al distaccante, imponeva un intervento normativo chiarificatore.

Di tal modo il legislatore introduceva, con norma di interpretazione autentica, l’art. 8, comma 35, della legge n. 67/1988, che sterilizzava l’IVA e perimetrava l’esenzione ai soli casi di corrispondenza tra il corrispettivo pattuito e il costo del lavoratore distaccato, facendo sorgere, però, tra i tanti dubbi, quello di poter considerare esenti, paradossalmente, ogni operazione di prestazione di servizi resa al mero costo. A partire dalla novella legislativa si assisteva a interventi giurisprudenziali e di prassi, tra di loro coerenti in relazione al chiaro dettato della norma, ma contraddittori rispetto alle “indicazioni” interpretative che, anno dopo anno, giungevano dal Lussemburgo.

L’esenzione veniva così sostenuta dall’Amministrazione finanziaria con la risoluzione 27 maggio 1995, n. 152/E, con la quale si ribadiva l’esenzione IVA qualora: a) il personale distaccato fosse legato da rapporto di lavoro dipendente con il distaccante, e b) il distaccatario corrispondesse il solo costo del personale prestato (la retribuzione e gli oneri fiscali e previdenziali), interpretazione di lì a poco confermata anche dalla Corte di Cassazione con la sentenza 6 marzo 1996, n. 1788.

Ulteriori interventi di prassi si avevano con le risoluzioni n. 262/E/2002 e 346/E/2002, con cui l’Amministrazione finanziaria ribadiva l’esenzione IVA qualora, rispettivamente, il personale prestato garantisse alla Società che se ne avvaleva le proprie prestazioni in posizione di effettiva subordinazione e le somme rimborsate fossero superiori (o anche inferiori) al costo.

Tra gli interventi giurisprudenziali si segnalava una pronuncia della Suprema Corte che giungeva a conclusioni illogiche anche in relazione alla novella interpretativa, stabilendo che «la pattuizione di un corrispettivo inferiore o superiore al costo globale dei dipendenti risultava, in definitiva, irrilevante dato che nei limiti di esso il distaccante non effettuava nessuna prestazione, per cui se fosse stato pattuito un rimborso pari od inferiore, il distaccatario non avrebbe dovuto pagarci l’IVA, mentre se fosse stata concordata una somma superiore sarebbe stato tenuto a farlo soltanto sulla parte eccedente il costo del personale distaccato».

L’imponibilità non già dell’intero importo corrisposto bensì del solo plusvalore comportava un’artificiosa scomposizione di un servizio unitario sul piano economico e si poneva in contrasto nei confronti della consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia.

Seguiva di lì a breve l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, riportando “ordine sul punto”, sottolineava l’esenzione IVA di quelle operazioni ove il “corrispettivo era pari al costo del lavoratore”, a motivo della neutralità dell’operazione in cui non vi fosse “un guadagno per il distaccante ma nemmeno un risparmio per il distaccatario, visto che, in caso contrario, non vi sarebbe ragione di riservarle un trattamento diverso dal normale”, confermando la sterilizzazione dell’imposta soltanto se la controprestazione del distaccatario consistesse nel rimborso di una somma esattamente pari alle retribuzioni e agli altri oneri previdenziali e contrattuali gravanti sul distaccante.

Si è così assistito, per anni, ad una convergenza interpretativa della parte maggioritaria della prassi e della giurisprudenza verso un’interpretazione letterale, anche se contraria alla giurisprudenza della Corte europea, dell’art. 8, comma 35, della legge n. 67/1988, qualificando come circostanza dirimente, ai fini esentativi, la sola ed esatta corresponsione delle somme, pagate dal distaccatario nei confronti del distaccante, alla retribuzione spettante al lavoratore oggetto del distacco.

Con l’ordinanza di rinvio n. 2385/2019 alla Corte europea (che ha originato la sentenza qui in commento), la Corte di Cassazione, dubitando dell’assenza dell’elemento oggettivo in relazione alla non imponibilità dell’operazione di distacco a fronte del riconoscimento del mero costo del personale distaccato, ciò anche a causa di una presunta violazione del principio di neutralità dell’IVA in relazione al trattamento differenziato di due istituti tra loro molto simili quali il distacco e la somministrazione di manodopera, richiamando anche alcuni precedenti della Corte europea che hanno ritenuto ininfluente, ai fini dell’onerosità di un’operazione, la circostanza che il prezzo pagato fosse inferiore, uguale o superiore al prezzo di costo, ha deciso di sospendere il giudizio e di rinviare alla Corte europea la questione pregiudiziale.

In termini puramente ricognitivi la vicenda italiana oggetto della sentenza della Corte di Giustizia traeva origine dal distacco di un dirigente di una società controllante presso una propria controllata. I relativi oneri retributivi, previdenziali, assistenziali ed assicurativi, unitamente ai costi di distacco, erano fatturati alla controllata con esposizione dell’IVA, ciò che consentiva a quest’ultima di operare la detrazione dell’imposta. L’Agenzia delle entrate riqualificava l’operazione sostenendo il rimborso dei costi del personale come un’operazione fuori campo IVA con conseguente disconoscimento della detrazione.

Circa la natura dell’operazione di distacco/prestito di personale, attenta dottrina ha ricordato che la qualificazione del distacco di personale a favore di un soggetto passivo quale prestazione di servizi rilevante ai fini IVA era già prevista dalla Seconda Direttiva del Consiglio n. 67/228/CEE, dell’11 aprile 1967, la si ritrova successivamente all’art. 9 della Sesta Direttiva del Consiglio n. 77/388/CEE, del 17 maggio 1977, e infine nell’odierno art. 59, lett. f), della Direttiva IVA n. 2006/112, laddove, da ultimo, l’operazione di messa a disposizione di personale è inserita nella norma che definisce il requisito territoriale delle operazioni soggette al tributo nei confronti di persone non soggetti passivi IVA fuori della Comunità.

Allo stesso modo, sul piano interno, la norma europea è stata traslata, tra le prestazioni di servizi, nell’art. 7-septies, primo comma, lett. e), del D.P.R. n. 633/1972.

Inquadrate le operazioni di distacco/prestito di personale tra le prestazioni di servizi, la Corte di Giustizia si è preoccupata di rintracciare i caratteri dell’onerosità, declinati dall’art. 2 della Sesta Direttiva (identico contenuto l’art. 2 della Direttiva IVA) ovvero ricercando la corrispettività tra le due controprestazioni.

Dal momento che la Direttiva IVA non dà una definizione espressa del concetto di onerosità, al fine di individuare le operazioni attratte nel campo di imponibilità IVA, è necessario rifarsi al concetto di corrispettività contenuto nell’art. 73 della Direttiva IVA (art. 11, lett. A), primo comma, della Sesta Direttiva) come interpretato dalla giurisprudenza eurounitaria. È stato osservato che i concetti di onerosità e corrispettività non sono sinonimi: i primi qualificando per esclusione i negozi giuridici non a titolo gratuito, i secondi, invece, implicando la presenza di un nesso sinallagmatico tra le prestazioni rese e ricevute, ben potendo accadere di trovarsi in presenza di un’operazione “onerosa” che manchi di corrispettivo, laddove, invece, non è ipotizzabile la presenza di un’operazione sinallagmatica priva di onerosità.

La presenza del sinallagma do ut facio ut des ut facias è fondamentale per ricondurre tra le operazioni imponibili le operazioni di servizi. La giurisprudenza comunitaria ha evidenziato, per poter configurare una prestazione di servizi rilevante ai fini dell’IVA, la necessità di un rapporto giuridico obbligatorio, minimo, una corrispettività, intesa quale interdipendenza giuridica tra le prestazioni, senza la quale, in assenza cioè di una causalità che lega reciprocamente le due controprestazioni, non viene in evidenza quel concetto di “scambio”, tanto caro alla giurisprudenza eurounitaria, bensì semplice coesistenza di prestazioni tra loro slegate, che di fatto privano l’operazione di quei caratteri richiesti dalla Corte europea ai fini dell’imponibilità IVA.

Si può constatare, quindi, come evidenziato in dottrina, che alla sfuggente contrapposizione tra “onerosità” e “gratuità”, la normativa IVA, ma più in generale il diritto di matrice eurounitaria, prediligono le meno ambivalenti nozioni di “scambio” e “vantaggio”.

Affinché rilevi la corrispettività dell’operazione di prestazione di servizi o di cessione di beni, per la Corte europea devono ricorrere tre requisiti: un nesso diretto ovvero un legame causale tra le due controprestazioni, la possibilità di poter esprimere in danaro la controprestazione ricevuta, e infine che alla prestazione ricevuta possa essere attribuito un valore soggettivo poiché l'imponibile è il corrispettivo realmente ricevuto, non già un valore stimato secondo criteri obiettivi, quindi oggettivi.

In merito all’interconnessione tra le due controprestazioni, la Corte ha avuto modo di occuparsene in numerosi precedenti, nei quali è stata chiarita, a più riprese, la necessaria presenza di un sinallagma tra la prestazione di servizi e il controvalore ricevuto tale che le due obbligazioni siano intrinsecamente e ontologicamente legate da un nesso di reciprocità.

Così, ad esempio, nel famoso precedente della Corte sul caso Tolsma (causa C-16/93, citata) in cui si verteva dell’imponibilità dell’attività di suonatore ambulante di strada, la Corte escludeva l’esistenza di alcun nesso reciproco tra le due “prestazioni”, sia per l’assenza di un valore soggettivo dato all’offerta di danaro al suonatore da parte del passante (valore indecifrabile e casuale), sia per l’assenza di un nesso diretto di causalità (pago per cui ho diritto ad ascoltare un brano musicale ovvero suono perché mi stanno pagando per farlo).

Riguardo la necessità di esprimere in danaro la prestazione ricevuta, fuori dai casi in cui la medesima viene ricompensata in danaro, interessanti sono le ipotesi in cui la Corte di Giustizia ha ragionato circa la riconducibilità ad IVA di prestazioni “pagate” in natura o con obbligazioni negative di non fare.

Ad esempio nel precedente Goldsmiths (causa C-330/95, citato), si discuteva della possibilità, per detta società, di operare la rettifica della propria dichiarazione IVA con conseguente istanza di rimborso, nell’ipotesi in cui detta società, a fronte della cessione di diamanti nei confronti della società RRI che “pagava” la prima mediante servizi pubblicitari, aveva ricevuto da quest’ultima un “pagamento” parziale dovuto alla messa in liquidazione della cessionaria. I commissioners del Regno Unito contestavano il diritto al rimborso sulla scorta della natura “liquida” della controprestazione. La Corte, in applicazione dell’art. 11 della Sesta Direttiva, correttamente deduceva l’equivalenza del pagamento in natura a quello in danaro a motivo del fatto che la norma non distingue tra corrispettivo in denaro e corrispettivo in natura e che “le due fattispecie appaiono, dal punto di vista economico e commerciale, identiche”, per cui la Sesta Direttiva le riserva un trattamento equivalente.

In altri precedenti di rilievo, la Corte ha analizzato due ipotesi di controprestazioni realizzate mediante obblighi di non fare da parte di un imprenditore agricolo che si impegnava ad abbandonare la propria produzione lattiera (Mohr, causa C-215/94, citato) e la raccolta di patate (Landboden, causa C-384/95, citato) in corresponsione del pagamento di un’indennità pubblica.

In entrambi i precedenti la Corte europea ha concluso per la non imponibilità delle operazioni dal momento che a fronte del corrispettivo versato dallo Stato faceva seguito un’obbligazione non implicante “consumo nell’accezione del sistema comunitario dell’IVA”.

In merito alla rilevanza del valore della prestazione ricevuta, la dottrina sottolinea che non vi può essere un nesso diretto se il corrispettivo pagato dall’utente non dipende da fattori endogeni alla prestazione (ad esempio, numero di ore impiegate e/o grado di difficoltà della pratica), ma da fattori ad essa esogeni, quali sono, per l’appunto, i livelli di reddito e di patrimonio del beneficiario.

In quel precedente, intercorso tra la Commissione europea e la Repubblica di Finlandia, si discuteva dell’assoggettabilità ad IVA dei servizi di assistenza legale forniti dagli uffici pubblici di quello Stato nell’ambito di procedimenti giudiziari dietro pagamento di un compenso parziale, che non copriva l’intero importo degli onorari previsti per legge, parametrato però non già in proporzione alla “qualità” del servizio pubblico reso al cittadino (in termini di ore effettivamente lavorate e di complessità delle questioni), bensì alla capacità reddituale del richiedente, di modo da rendere il compenso sì forfettario ma ancorato a parametri non più soggettivi bensì esterni (esogeni appunto).

La Corte ha avuto modo di occuparsi di ipotesi simili, in cui vi era una sorta di forfetizzazione della prestazione, non puramente esogena come nel precedente sopra richiamato, dai quali è emerso che l’idea di “scambio/vantaggio” (economicità) ai fini impositivi vada verificata e modulata volta per volta.

Il principio di economicità, però, non va decifrato in chiave quantitativa, ovvero in riferimento all’ammontare della controprestazione, bensì qualitativa, verificando se esiste la controprestazione come scambio del bene o del servizio ricevuto.

Tracce di questo assunto le si ritrovano, ad esempio, nella sentenza resa dalla Corte di Giustizia nella causa Lajvér Meliorációs (causa C-263/15, cit.), avente ad oggetto opere di ingegneria rurale, realizzate da società commerciali senza scopo di lucro e finanziate per la gran parte con risorse dello Stato e dell’Unione europea, per le quali le medesime avrebbero percepito un canone di modesta entità per un periodo di otto anni. La Corte ha ritenuto che la percezione di quel canone, benché modesto, avesse il carattere della “stabilità” e per questo fosse attratto nell’alveo delle attività economiche corrispettive dato che “l’attività era esercitata al fine di ricavarne introiti aventi carattere di stabilità”.

Si aggiunga, per inciso, che le conclusioni raggiunte in tema di personale dipendente dalla sentenza in commento valgono analogamente per le ipotesi di “personale” autonomo, come chiarito dalla Corte di Giustizia nella causa C-218/10, citata. In quel caso la Corte, seppur chiamata a dirimere circa un problema di corretta applicazione dell’IVA in termini di territorialità, aveva affermato che, nell’ipotesi in cui un fornitore ingaggiasse dei lavoratori (si trattava di autisti di autobus) e rivendesse/fatturasse il servizio a un soggetto terzo con l’aggiunta di un’ulteriore margine tra l’8% e il 20%, «la nozione di messa a disposizione di personale ricomprenderebbe parimenti la messa a disposizione di personale autonomo, non legato da rapporto di lavoro dipendente con l’impresa prestatrice».

Un’ulteriore precisazione va svolta in merito all’assenza di precedenti, da parte della Corte di Giustizia, sulla tassabilità delle operazioni di distacco di personale tra società aventi sedi in due Stati membri differenti, al fine di chiarire la ricorrenza o meno della corrispettività delle prestazioni in oggetto.

La soluzione offerta dalla Corte UE nella sentenza C-94/19 è coerente con le conclusioni raggiunte dalla stessa nei suoi precedenti in materia ed ha offerto al giudice italiano del rinvio (Cass. sent. n. 529 del 14.1.2021, oltre che ai giudici della Cassazione nelle ordinanze n. 5601, 5609 e 5615 del 2.3.2021 richiamate in epigrafe) una chiave di lettura importante per le operazioni con analoghe caratteristiche, lasciando a questo l’applicazione pratica della regola enunciata.

Quanto al “valore” della sentenza della Corte, resa in sede di rinvio pregiudiziale, si ricorda che questa produce una specifica e vincolante efficacia non solo sulle questioni dedotte per il giudice interno che ha sollevato la questione, ma, nello stesso tempo, anche nei confronti degli altri giudizi la cui decisione dipende dall’interpretazione della norma oggetto di analisi da parte della Corte UE in sede di rinvio pregiudiziale.

Da ultimo si segnala un aspetto non oggetto di discussione nel precedente C-94/19 della CGUE e relativo al diritto di detrazione IVA delle spese sostenute in relazione al personale oggetto di distacco, in relazione al quale la Corte di Giustizia ha avuto modo di occuparsi in alcuni precedenti e di chiarire il diritto di detrazione IVA in relazione alle spese di personale sia proprio sia in distacco/prestito, a prescindere dalla circostanza della “qualità di datore di lavoro”, ovvero che si trattasse di datore effettivo o solo “economico”, purché le spese potessero essere “ricondotte” ad usi non estranei all’impresa.

Articolo pubblicato sul n. 12 del Bollettino Tributario del 30.6.2021

Avv. Fabio Ciani, avvocato tributarista cassazionista

Avv. Gabriele Damascelli, avvocato tributarista cassazionista, responsabile sede Bari Scuola Uncat

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