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La deducibilità dei costi relativi ai ricavi accertati sulla base delle indagini finanziarie

Prof. Gianfranco Ferranti

Accertamento

La prevalente giurisprudenza di legittimità e l’Agenzia delle entrate hanno affermato che i costi relativi ai ricavi o ai compensi la cui esistenza viene “presunta” nell’ambito dei controlli effettuati tramite le indagini finanziarie sono deducibili in sede di accertamento induttivo del reddito d’impresa mentre in caso di accertamento analitico o analitico-induttivo la deduzione è possibile soltanto se gli stessi risultano da elementi certi e precisi. Si ritiene che i contribuenti possano fornire la prova della certezza e precisione degli elementi relativi ai costi anche attraverso presunzioni, rientrando le stesse a pieno titolo tra le prove tipiche disponibili per il giudice.

  1. Premessa

L’art. 32, primo comma, n. 2, del d.P.R. n. 600 del 1973 stabilisce, con riguardo ai controlli relativi alle imposte sui redditi, che i dati risultanti dalle movimentazioni bancarie sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti di cui agli articoli 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito o che le stesse non assumono rilevanza a tale fine. Alle stesse condizioni sono, altresì, posti come ricavi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti (tranne quelli degli esercenti arti e professioni) effettuati o gli importi riscossi per importi superiori a 1.0000 euro giornalieri e, comunque, a 5.000 euro mensili. La Corte di cassazione ha più volte affermato che si è in presenza, di “una presunzione legale juris tantum”, che può essere vinta dal contribuente soltanto se offre la prova liberatoria che dei movimenti sui conti bancari egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che gli accrediti e gli addebiti registrati sui conti non si riferiscono ad operazioni imponibili, occorrendo al tal fine che vengano indicati e dimostrati dal contribuente la provenienza e la destinazione dei singoli pagamenti con riferimento tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti attivi e passivi, quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti e dei prelievi. La stessa Corte ha affrontato anche la questione concernente il riconoscimento dei costi relativi ai ricavi la cui esistenza viene “presunta” nell’ambito degli accertamenti basati sulle indagini finanziarie, affermando che tali costi sono deducibili in sede di accertamento induttivo del reddito d’impresa mentre in caso di accertamento analitico o analitico-induttivo la deduzione è possibile soltanto se gli stessi risultano da elementi certi e precisi. Tale impostazione interpretativa è stata condivisa dall’Agenzia delle entrate e dal Comando Generale della Guardia di finanza. In due pronunce della Corte di cassazione – che sono più avanti esaminate – è stato, tuttavia, ritenuto possibile il riconoscimento dei costi in esame in misura forfetaria, cioè applicando una percentuale all’ammontare dei ricavi recuperati a tassazione, a condizione che venga argomentato l’iter logico seguito al fine di pervenire a tale determinazione. Si ritiene, al riguardo, che, come più volte riconosciuto dalla Suprema corte, i contribuenti possano fornire la prova della certezza e precisione degli elementi relativi ai costi anche attraverso presunzioni, rientrando le stesse a pieno titolo tra le prove tipiche disponibili per il giudice. Tali presunzioni vanno, però, sottoposte ad un’attenta verifica da parte dello stesso giudice, il quale è tenuto ad individuare analiticamente i fatti noti evidenziati dal contribuente, dai quali dedurre quelli ignoti, avvalendosi eventualmente di una consulenza tecnica.

  1. Il principio della previa imputazione dei costi nel bilancio

La Corte di cassazione ha affermato, con giurisprudenza costante, che soltanto in caso di accertamento induttivo “puro”, effettuato ai sensi dell’art. 39, secondo comma, del DPR n. 600 del 1973, ovvero di accertamento d’ufficio ai sensi dell’art. 41 dello stesso decreto l’Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfetaria dei costi di produzione. In presenza di un accertamento analitico ovvero analitico-induttivo di cui all’art. 39, primo comma, lettera d, è, invece, il contribuente che deve dimostrare, con onere probatorio a suo carico, l’esistenza dei presupposti per la deducibilità dei costi afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’ufficio possa o debba procedere al riconoscimento forfetario degli stessi. Nella ordinanza del 7 maggio 2020, n. 8590, è stato, ad esempio, affermato che l’art. 39, comma 1, lett. d), del DPR n. 600 del 1973, “legittima la presunzione, da parte dell'Amministrazione finanziaria, di un reddito maggiore di quello dichiarato dal contribuente sulla base di elementi indiziari dotati dei caratteri della gravità, precisione e concordanza richiesti dall'art. 2729 c.c.. In presenza di tale presupposto la norma non impone altro onere all'Amministrazione, ma piuttosto onera il contribuente a offrire la prova contraria, in particolare quella dell'esistenza di costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d'impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione alla attività. Inoltre, poichè nei poteri dell'Amministrazione finanziaria rientra anche la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nelle dichiarazioni, con negazione della deducibilità dei costi sproporzionati ai ricavi e all'oggetto dell'impresa, l'onere della prova dell'inerenza dei costi, gravante sul contribuente, comprende anche la congruità dei medesimi ... In tema di imposte sui redditi, l'Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo "puro" D.P.R. n. 600 del 1973 ex art. 39, comma 2, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo è il contribuente ad avere l'onere di provare l'esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l'Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario”. In presenza di un accertamento induttivo non trova, pertanto, applicazione il disposto dell’art. 109, comma 4, del TUIR, che stabilisce che “le spese e gli altri componenti negativi non sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui non risultano imputati al conto economico relativo all’esercizio di competenza”. Tale principio resta, invece, applicabile in sede di accertamento analitico ovvero analitico-induttivo. A tale orientamento interpretativo ha prestato adesione l’Agenzia delle entrate nella circolare del 19 ottobre 2006, n. 32/E, - riguardante proprio le indagini finanziarie - nella quale è stato affermato, richiamando la giurisprudenza della Suprema corte, che in presenza di un accertamento analitico o analitico-induttivo “nessun margine si offre all’ufficio procedente ai fini di un possibile riconoscimento di componenti negative di cui non è stata fornita dal contribuente prova certa”. Anche il Comando generale della Guardia di finanza, nella circolare n. 1 del 2018, ha affermato che in presenza di un accertamento di tipo analitico o analitico – induttivo, non possono considerarsi deducibili “eventuali costi che il contribuente affermi di aver sostenuto, ma che non risultino provati da riferimenti documentali connotati dai requisiti della certezza e precisione, in ossequio alle regole generali che presiedono alla determinazione del reddito d’impresa. In particolare, i militari operanti devono segnalare all’Ufficio finanziario, nel processo verbale di constatazione, solo i costi, le spese e gli altri oneri risultanti da elementi certi, attestanti acquisti di beni e servizi inerenti all’attività esercitata dal contribuente e chiaramente ed inequivocabilmente, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, a questa riferiti; al pari, secondo i principi ordinari che presiedono alla determinazione del reddito, va attribuito rilievo, nel caso di documentazione extracontabile, solo a quella dotata di un adeguato grado di attendibilità, oltre che formata precedentemente all’avvio delle attività ispettive”. Con riguardo all’accertamento “puramente induttivo”, di cui all’art. 39, comma 2, del D.P.R. n. 600 del 1973, effettuato nei riguardi di esercenti attività d’impresa o di lavoro autonomo, è stato poi raccomandato ai verificatori di “aver cura, ulteriormente, di segnalare al competente Ufficio finanziario tutti gli elementi eventualmente acquisiti, di natura documentale o di altro genere, che possano essere di ausilio per il riconoscimento, pure in misura percentuale, dei costi, nell’ambito della specifica procedura di accertamento, di competenza del citato Ufficio”.

  1. Gli accertamenti originati da indagini finanziare

La Corte costituzionale ha affermato, nella sentenza dell’8 giugno 2005, n. 225, che la presunzione legale stabilita dalle norme in materia di indagini finanziarie non contrasta con l’art. 3 della Costituzione, “non essendo manifestamente arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati dai conti correnti bancari effettuati dall’imprenditore siano stati destinati all’esercizio dell’attività d’impresa e siano, quindi, in definitiva, detratti i relativi costi, considerati in termini di reddito imponibile”.

IL PROBLEMA APERTO

La deducibilità dei costi in presenza di indagini finanziarie

Si è posta la questione concernente le modalità attraverso le quali le imprese possono fornire la prova dei costi specificamente inerenti ai ricavi presunti dall’ufficio sulla base dei prelevamenti effettuati dal conto bancario. Si ritiene che tale prova possa essere resa anche attraverso presunzioni, che rientrano pur sempre tra le prove tipiche, eventualmente supportate da una “consulenza asseverata”. La Corte di cassazione e l’Amministrazione finanziaria hanno, però, ritenuto che il principio affermato nella detta sentenza n. 225 del 2005 si applichi soltanto in presenza di accertamento induttivo del reddito, in quanto soltanto tale metodologia accertativa legittimerebbe il riconoscimento dei costi anche in via presuntiva. In presenza, invece, di un accertamento analitico o analitico-induttivo spetterebbe al contribuente fornire la prova specifica del sostenimento dei detti costi. La Corte di cassazione ha, in effetti, affermato in numerose sentenze che in presenza di accertamenti basati sull’acquisizione dei movimenti bancari “debbono essere considerati ricavi sia le operazioni attive che quelle passive, senza che si debba procedere alla deduzione preventiva di oneri e costi deducibili, essendo posto a carico del contribuente l’onere di indicare e provare eventuali specifici costi deducibili”. Non sarebbe, infatti, lecito “presumere che in ogni caso a ricavi occulti necessariamente corrispondano costi occulti. In punto di onere della prova circa l’esistenza e la deducibilità dei costi ... l’onere della prova ..., ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, incombe al contribuente”. Inoltre “non è detto che sempre e in ogni caso a ricavi occulti corrispondano costi occulti; si dà il caso (e quindi è possibile sostenere con pari fondamento la corrispondente presunzione) che a ricavi occulti siano accompagnati costi dichiarati in misura maggiore del reale”. Nella sentenza n. 12624 del 2012, la Cassazione ha affermato che il contribuente, richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 225 del 2005, avrebbe mostrato “di confondere l'accertamento analitico, che bene può fondarsi anche su prova presuntiva legale utilizzando i dati contabili e bancari, con l'accertamento induttivo, che prescinde, invece, proprio dai dati contabili e bancari, in quanto inattendibili o talmente frammentati da essere inutilizzabili per la completa ricostruzione della situazione economico-patrimoniale del contribuente: solo in questo secondo caso, infatti, l'Ufficio finanziario, quando accerta con metodo induttivo i redditi/ricavi, è tenuto anche a determinare induttivamente i costi, mentre nel caso in esame, in cui l'avviso è stato emesso a seguito di accertamento condotto con metodo analitico (essendo stato quantificato il maggior importo dell'imponibile in base agli stessi dati dei documenti bancari), a fronte della prova presuntiva legale dei maggiori redditi, il contribuente che intenda avvalersi della deduzione di eventuali maggiori costi non indicati nella dichiarazione è tenuto a fornire la prova certa delle eventuali componenti negative di reddito non indicate nella dichiarazione o non registrate nelle scritture contabili. Non viene, dunque, in questione…la violazione del principio di correlazione costi/ricavi posto a base dell'accertamento della effettiva capacità contributiva, atteso che non è posto in dubbio che le somme prelevate dal conto bene possano essere destinate a pagamenti fuori bilancio, ad operazioni escluse dalle imposte o comunque a spese non necessariamente connesse all'acquisto di beni e servizi impiegati nella produzione di ricavi/redditi, come sono le spese sostenute per le esigenze quotidiane. Viene piuttosto in questione - in considerazione dell'inversione dell'onus probandi determinato dalla presunzione legale - l'assolvimento da parte del contribuente dell'onere della prova avente ad oggetto proprio la dimostrazione che le somme prelevate dal conto sono state destinate ad impieghi non produttivi di reddito”. In ogni caso non è possibile fare appello, “in assenza di qualsivoglia argomentazione, ad un generico principio di equità, criterio del tutto irrituale ed estraneo alla normativa in esame” ed è stato censurato il comportamento del giudice di appello che “ha tenuto conto di “costi neri” relativamente ai corrispettivi che non erano stati registrati, o comunque annotati nei libri contabili, senza indicare nemmeno la fonte di essi, come pure la destinazione di certi prelevamenti effettuati sui conti bancari, ritenendo che questi dovessero essere portati in detrazione”. D’altra parte, l’attuale art. 109, comma 4, del TUIR ammette in deduzione dal maggior reddito accertato i costi che sono serviti a produrlo, anche se non imputati al conto dei profitti e delle perdite, ma “se e nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi”. Di conseguenza, in base alla giurisprudenza della Suprema corte “soltanto in caso di accertamento induttivo puro, ex art. 39, comma 2, del DPR n. 600 del 1973, il Fisco deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfetaria dei costi di produzione mentre in ipotesi di accertamento analitico o analitico presuntivo (come le indagini bancarie) è il contribuente che deve dimostrare, con onere probatorio a suo carico, l’esistenza dei presupposti per la deducibilità dei costi afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’ufficio possa o debba procedere al riconoscimento forfetario di componenti negativi”. Nella ordinanza n. 23093 del 2020 è stato, da ultimo, sancito il principio di diritto in base al quale “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l'Amministrazione finanziaria, in sede di accertamento induttivo, deve procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente, tenendo conto anche delle componenti negative del reddito che siano state indicate e dimostrate dal contribuente, ovvero di quelle comunque emerse dagli accertamenti compiuti. Ove, peraltro, l'Amministrazione abbia proceduto mediante accertamenti bancari, le operazioni di prelievo effettuate dal contribuente dai conti correnti a lui riconducibili non possono automaticamente includersi fra dette componenti negative, in quanto le operazioni sui conti medesimi, sia attive che passive, vanno considerate ricavi, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, gravando sul contribuente l'onere di indicare e provare eventuali specifici costi deducibili, a meno che non risulti dallo stesso atto impositivo, o comunque da elementi a disposizione del giudice, che dette operazioni di prelievo sono state effettivamente destinate al sostenimento di costi dell'attività d'impresa". A tale orientamento interpretativo ha prestato adesione l’Agenzia delle entrate nella circolare del 19 ottobre 2006, n. 32/E, nella quale è stato affermato, richiamando la giurisprudenza della Suprema corte, che in presenza di un accertamento analitico o analitico-induttivo “nessun margine si offre all’ufficio procedente ai fini di un possibile riconoscimento di componenti negative di cui non è stata fornita dal contribuente prova certa”. Ciò in quanto l’art. 109, comma 4, del TUIR consente la deduzione dal reddito accertato dei costi che sono serviti a produrlo, anche se non imputati al conto dei profitti e delle perdite, soltanto “se e nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi”.

LA GIURISPRUDENZA

La deducibilità dei costi in caso di accertamento induttivo

La Corte di cassazione e l’Amministrazione finanziaria hanno costantemente affermato che i costi relativi ai ricavi la cui esistenza viene “presunta” nell’ambito degli accertamenti basati sulle indagini finanziarie sono deducibili in sede di accertamento del reddito d’impresa soltanto se lo stesso è effettuato d’ufficio o utilizzando il metodo induttivo di cui all’art. 39, secondo comma, del DPR n. 600 del 1973. Il Comando Generale della Guardia di finanza aveva rilevato, nella circolare n. 1 del 2008, che la sentenza della Corte costituzionale “è stata da più parti valorizzata come il definitivo riconoscimento della necessità di ammettere in deduzione, nell’ambito della procedura degli accertamenti bancari e finanziari, i costi desumibili dai prelevamenti non transitati in contabilità e non specificati quanto ai destinatari”. Era stato, però, evidenziato che, dopo la detta sentenza, in due decisioni della Corte di cassazione si era affermato che:

• alla presunzione dell’esistenza di ricavi occulti i contribuenti non possono rispondere con la mera affermazione di costi occulti, perché quando la legge inverte l’onere della prova il soggetto onerato non può vincere la presunzione legale mediante altra presunzione semplice, ma deve allegare e provare fatti concreti;

• non sempre a ricavi occulti corrispondono costi occulti, ma è possibile sostenere con pari fondamento la presunzione che a ricavi occulti siano accompagnati costi dichiarati in misura maggiore del reale.

Tale impostazione interpretativa è stata ribadita nella circolare n. 1 del 2018, in cui è stato affermato che “ove il contribuente, a fronte di un prelevamento, indichi un beneficiario di cui non abbia rilevato nei registri contabili le relative operazioni di acquisto, ma di cui fornisca in seguito, anche in via extracontabile, documentazione probante, potrà essere riconosciuto il costo in coerenza con i criteri che ispirano la ricostruzione analitico – induttiva. Ai fini di detto riconoscimento fiscale, è, comunque, sempre necessario fornire la prova dell’impiego della spesa nell’attività produttiva di reddito”. E’ stato sottolineato che tale linea interpretativa risulta confermata da plurime pronunce giurisprudenziali, con cui, tra l’altro, la Suprema Corte ha sostenuto che:

• in tema di accertamento analitico – induttivo il giudice “non può operare una detrazione forfettaria di quanto corrisposto per fornitori, spese familiari e stipendi dei collaboratori, in quanto, procedendo ad una riduzione dell’imponibile accertato presuntivamente, si finirebbe per contrapporre all’indicata presunzione un’altra presunzione e non un fatto specifico provato dal contribuente”;

• solo in caso di accertamento induttivo, “l’Ufficio finanziario ha l’obbligo di determinare sempre induttivamente i costi”, anche per evitare che il risultato cui si pervenga, nelle ipotesi in cui si proceda per tale tipologia di accertamento, sia “considerato irrealistico sul piano economico”.

Il Comando generale ha, pertanto, concluso che in presenza di un accertamento di tipo analitico o analitico – induttivo, non possono considerarsi deducibili “eventuali costi che il contribuente affermi di aver sostenuto, ma che non risultino provati da riferimenti documentali connotati dai requisiti della certezza e precisione, in ossequio alle regole generali che presiedono alla determinazione del reddito d’impresa. In particolare, i militari operanti devono segnalare all’Ufficio finanziario, nel processo verbale di constatazione, solo i costi, le spese e gli altri oneri risultanti da elementi certi, attestanti acquisti di beni e servizi inerenti all’attività esercitata dal contribuente e chiaramente ed inequivocabilmente, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, a questa riferiti; al pari, secondo i principi ordinari che presiedono alla determinazione del reddito, va attribuito rilievo, nel caso di documentazione extracontabile, solo a quella dotata di un adeguato grado di attendibilità, oltre che formata precedentemente all’avvio delle attività ispettive”. In caso, invece, di accertamento “puramente induttivo”, di cui all’art. 39, comma 2, del D.P.R. n. 600 del 1973, effettuato nei riguardi di esercenti attività d’impresa o di lavoro autonomo, i verificatori “devono aver cura, ulteriormente, di segnalare al competente Ufficio finanziario tutti gli elementi eventualmente acquisiti, di natura documentale o di altro genere, che possano essere di ausilio per il riconoscimento, pure in misura percentuale, dei costi, nell’ambito della specifica procedura di accertamento”.

  1. Osservazioni critiche

Con riguardo alle prese di posizione ricordate in precedenza è stato osservato che la preclusione della prova presuntiva dei costi sarebbe “completamente priva di fondamento: se le percentuali di ricarico possono fondare la determinazione dei ricavi a partire dai costi, deve essere possibile l’operazione inversa (presumere i costi dall’ammontare dei ricavi, tenuto conto del guadagno “normale” di un’attività)…Le sentenze escludono tale deduzione presuntiva argomentando dal fatto che l’onere di provare il costo incomberebbe sul contribuente, ma così facendo trascurano la circostanza che la presunzione semplice è una prova contraria”. A tale indirizzo interpretativo, che appare condivisibile, ha aderito anche la Corte di cassazione nella sentenza n. 12021 del 2015, nella quale è stata ritenuta in via di principio corretta l’affermazione della Commissione di merito che aveva ritenuto che l’ammontare dei costi potesse essere determinato in misura pari al 75% dei ricavi recuperati a tassazione. La sentenza della Commissione tributaria regionale era stata, tuttavia, cassata perché si era limitata “ad affermare un abbattimento del reddito pari ai costi quantificati forfetariamente nella misura del 75%, laddove nella motivazione della sentenza nessuna argomentazione è stata fornita in ordine all'iter logico seguito dalla CTR per pervenire al predetto risultato … senza spiegare su quali prove documentali o presuntive era fondato il suo accertamento”. Anche nella ordinanza del 26 giugno 2020, n. 17189, è stato affermato che la sentenza di merito, “in presenza di accertamento analitico puro, circostanza pacifica evincibile dalla stessa prospettazione del motivo di ricorso nella sua intestazione oltre che dalla lettura dell'avviso di accertamento allegato, ha tenuto conto dei costi, nel rispetto della giurisprudenza summenzionata, in misura percentuale. Infatti, la Corte Costituzionale ha ritenuto tale conteggio … necessario ai fini dell'art. 53 Cost., in presenza di accertamento induttivo, né l'Agenzia lamenta una determinazione eccessiva della loro misura percentuale determinata dai giudici di merito, ma solo il fatto in sé di una quantificazione da parte del giudice, in assenza di dimostrazione analitica, in misura forfetaria, ossia induttiva”. Peraltro, la giurisprudenza menzionata nella parte precedente della motivazione è riferita a casi di accertamenti effettuati con il metodo induttivo, ragion per cui le affermazioni sopra riportate non risultano del tutto coerenti. Si ricorda che nell’art. 109, comma 4, lettera b, secondo periodo, del TUIR è stabilito che al principio di previa imputazione al conto economico è possibile derogare, tra l’altro, in caso di costi specificamente afferenti componenti positivi di reddito non imputati al conto economico, che sono ammessi in deduzione “se e nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi”. Tale previsione normativa ha la funzione di riconoscere la deduzione di spese e oneri non rilevati nelle scritture contabili, qualora l’impresa dimostri che si tratta di costi specificamente connessi a ricavi e proventi del pari non rilevati nelle scritture contabili. Poiché, in caso di accertamento (da parte dell’Amministrazione finanziaria) di componenti positivi non iscritti nelle scritture contabili, questi concorrono comunque alla formazione del reddito d’impresa a norma del comma 3 del medesimo art. 109, la norma in commento consente di pervenire alla determinazione del reddito d’impresa in maniera omogenea, nel rispetto del principio di correlazione “costi-ricavi” (attraverso la deduzione dei costi occultati che hanno specificamente contribuito alla produzione dei ricavi altrettanto occultati) nonché, di riflesso, del presupposto impositivo sancito dagli articoli 1 e 72 del TUIR - in forza del quale la tassazione deve avere ad oggetto il “possesso dei redditi” e non dei soli ricavi - e del principio di capacità contributiva sancito dall’art. 53 della Costituzione.

LA GIURISPRUDENZA

La deducibilità dei costi in caso di accertamento analitico-induttivo

In caso di accertamento effettuato con il metodo analitico o con quello analitico-induttivo di cui al primo comma dell’art. 39 del DPR n. 600 del 1973, basato sulla presunzione che i prelevamenti e/o i versamenti effettuati dai conti bancari costituiscano ricavi, la deduzione dei costi è possibile, secondo l’Amministrazione finanziaria e la giurisprudenza prevalente della Corte di cassazione, soltanto se gli stessi risultano da elementi certi e precisi. La costante giurisprudenza di legittimità ritiene che la prova contraria che deve fornire il contribuente avverso le presunzioni scaturenti dalle indagini finanziarie non possa essere generica bensì specifica, con riferimento alle singole operazioni risultanti dalla documentazione finanziaria. In numerose pronunce la stessa Corte ha, però, affermato che il contribuente, in mancanza di espresso divieto normativo e per il principio di libertà dei mezzi di prova, può fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici, rientrando le stesse a pieno titolo tra le prove tipiche disponibili per il giudice. Tali presunzioni vanno, peraltro, sottoposte ad un’attenta verifica da parte dello stesso giudice, il quale è tenuto ad individuare analiticamente i fatti noti evidenziati dal contribuente, dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio grave, preciso e concordante ai movimenti bancari contestati. Da ultimo, nella ordinanza del 15 luglio 2020, n. 14990, la Suprema corte ha ribadito che la "certezza e precisione" richieste dalla norma non sono “declinabili interpretativamente come una regola di esclusione probatoria, ma come una regola di giudizio ossia, rivolgendosi prima all'amministrazione e poi, nella eventuale dimensione processuale, al giudice, i due concetti normativi indicano la necessità di un rigore particolare nella valutazione della prova dei costi "neri" ai fini della loro deducibilità, ma appunto non escludono che tale prova possa essere raggiunta anche mediante prove presuntive”. E’ stata, al riguardo, richiamata la precedente pronuncia del 30 maggio 2019, n. 14762, nella quale era stato affermato che “il giudice che ricorra alle presunzioni, nel risalire dal fatto noto a quello ignoto, deve rendere apprezzabili i passaggi logici posti a base del proprio convincimento” ed affermato che la Commissione di merito aveva “puntualmente argomentato sugli elementi di fatto rivenienti dalla consulenza asseverata prodotta …, traendone la principale fonte ‘diretta’ di convincimento e peraltro derivandone sul piano logico inferenziale, non solo la congruità, ma anche l'effettiva sussistenza dei costi” sostenuti da contribuente. Si ritiene, pertanto, che la prova dei costi specificamente inerenti ai ricavi presunti dall’ufficio sulla base dei prelevamenti effettuati dal conto bancario possa essere fornita dalle imprese anche attraverso presunzioni, che rientrano pur sempre tra le prove tipiche, magari supportate, come affermato nella detta ordinanza n. 14990 del 2020, da una “consulenza asseverata”. Si ricorda, inoltre, che la Corte costituzionale ha affermato, nella sentenza 8 giugno 2005, n. 225, che la presunzione relativa ai prelevamenti dai conti bancari effettuati dai titolari di reddito d’impresa non è da considerare lesiva del canone di ragionevolezza, non essendo manifestamente arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati siano destinati all’esercizio dell’attività d’impresa. Nella precedente sentenza del 6 ottobre 2014, n. 228, la stessa Corte ha, altresì, affermato che il fondamento economico-contabile del meccanismo in base al quale “il prelevamento dal conto bancario corrisponderebbe ad un costo a sua volta produttivo di un ricavo” risulta “congruente con il fisiologico andamento dell'attività imprenditoriale, il quale è caratterizzato dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi”. Pertanto, l’Amministrazione finanziaria facendo ricorso alla presunzione in esame riconosce l’esistenza di un costo non contabilizzato (salva la prova contraria eventualmente fornita dal contribuente) e risulta, in tal modo, applicabile la previsione normativa dell’art. 109, comma 4, lettera b), ultimo periodo, in base alla quale sono deducibili, in deroga al principio della previa imputazione nel bilancio, “le spese e gli oneri specificamente afferenti i ricavi e gli altri proventi, che pur non risultando imputati al conto economico concorrono a formare il reddito, sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi” Poiché, in caso di accertamento da parte dell’Agenzia delle entrate di componenti positivi non iscritti nelle scritture contabili, questi concorrono comunque alla formazione del reddito d’impresa a norma del comma 3 del medesimo art. 109, la norma da ultimo menzionata consente di pervenire alla determinazione del reddito d’impresa in maniera omogenea, nel rispetto del principio di correlazione “costi-ricavi” (attraverso la deduzione dei costi occultati che hanno specificamente contribuito alla produzione dei ricavi altrettanto occultati) nonché, di riflesso, del presupposto impositivo sancito dagli artt. 1 e 72 del TUIR (in forza del quale la tassazione deve avere ad oggetto il “possesso dei redditi” - e non i soli ricavi - e del principio di capacità contributiva sancito dall’art. 53 Cost.). Si ritiene che tale norma consenta anche la deduzione di costi non contabilizzati (c.d. “costi neri”) ma che l’ufficio, una volta scoperti, utilizza per determinare, in via presuntiva, i connessi ricavi. Fattispecie che ricorre, come riconosciuto dalla Corte costituzionale, nel caso delle presunzioni relative ai prelevamenti bancari.

Fonte: Corriere Tributario n. 1/2021

Prof. Gianfranco Ferranti, Ordinario Diritto Tributario Scuola Nazionale dell’Amministrazione, Direttore Rivista “Il Fisco”, Condirettore scientifico della rivista “Corriere Tributario”

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