news / Il rapporto tra reverse charge e operazioni inesistenti

torna alle news

Il rapporto tra reverse charge e operazioni inesistenti

Avv. Clino De Ieso

Iva e Dogane

La sentenza n. 140/2022 della Corte di cassazione, che ha rinviato la causa al giudice di merito, ha ribadito che i presupposti sostanziali del diritto alla detrazione IVA resistono allo strumento antievasivo del reverse charge. Tale pronuncia, che sembrerebbe relegabile fra le decisioni ovvie e scontate, rischia di essere messa in discussione dal possibile intervento delle Sezioni Unite, stimolato dall’ordinanza di rimessione n. 1703/2022, richiesto per definire i limiti temporali e, inoltre, per superare le persistenti incertezze nell’interpretazione della disciplina sanzionatoria, introdotta nel 2016, applicabile alle operazioni inesistenti in regime di reverse charge.

All’inizio del 2022, sono tornate prepotentemente alla ribalta tutte le problematiche che ruotano attorno allo strumento antievasivo del reverse charge. Prima la sentenza della Cassazione n. 140/2022 in commento, che si è occupata del rapporto fra l’inversione contabile e il diritto di detrazione. Successivamente, a pochi giorni di distanza, l’ordinanza n. 1703/2022, che, sulla scia di alcune discordanti decisioni della stessa Suprema Corte, ha chiesto alla Sezioni Unite di chiarire i dubbi e le incertezze che avvolgono la disciplina sanzionatoria per le operazioni inesistenti in regime di reverse charge. È un compito che, anzitutto, richiede una capacità di affondare lo sguardo nella Direttiva 2006/112/CE e, in particolare, nella varietà delle diverse rationes ispiratrici sottese alle disposizioni che individuano il debitore dell’IVA. Pertanto, solo dopo tale valutazione propedeutica, si procederà ad una analisi dei richiamati interventi per poi, infine, ipotizzare alcuni scenari interpretativi fondati sul bilanciamento tra le esigenze erariali e i diritti degli operatori commerciali.

Ratio, natura giuridica e meccanismo delle differenti figure di reverse charge

Nell’opinione comune il reverse charge, o la c.d. inversione contabile, è definibile come un adempimento contabile. Questo tradizionale modo di approcciarsi non è soddisfacente perché rischia di accomunare e, quindi, di “mischiare” insieme due differenti tipologie di reverse charge. Infatti, se si guarda al momento di nascita del debito IVA, ci si accorge che, in un caso, l’obbligazione IVA sorge in prima battuta, cioè, in origine, sul fornitore per poi essere trasferita sul cliente. Dunque, in questa fattispecie, la qualifica di debitore dell’imposta viene trasferita da colui che esegue l’operazione al destinatario della cessione o del servizio. Emblematiche, in tal senso, sono tutte le fattispecie di reverse charge “interno” individuate dall’art. 17 del D.P.R. n. 633/1972. Nell’altro caso, invece, l’obbligazione IVA nasce immediatamente e, quindi, direttamente in capo al cliente come avviene, per esempio, per gli acquisti intracomunitari o per i servizi internazionali. Le due ipotesi possono avere dei punti in comune e, uno di questi, è la doppia registrazione contabile, effettuata in entrambi i casi, la quale azzera l’imposta esigibile dall’Erario per effetto della compensazione fra l’IVA a debito e quella a credito. Oltre alle fattispecie menzionate, vi sono delle figure “ibride” di reverse charge. Si pensi, all’art. 74, comma 7, del D.P.R. n. 633/1972 che, nel regolare le cessioni di rottami in una ottica antievasiva, sposta sul cliente l’onere di integrare la fattura senza IVA emessa dal fornitore. Trattandosi di cessioni interne, sembrerebbe più logico ritenere irrilevante il documento formato dal fornitore visto che, come si vedrà più avanti, l’assolvimento dell’IVA da parte del cliente mette lo Stato al riparo da qualsiasi danno erariale. D’altronde, sono ben note le ragioni giustificatrici del reverse charge introdotto, in deroga alla regola per cui l’imposta è dovuta dal cedente o prestatore, con l’intento di semplificare la riscossione dell’IVA al fine di contrastare le condotte fraudolente compiute in determinati settori a rischio. Più chiaramente, l’inversione contabile è uno strumento legislativo volto a prevenire il rischio concreto di perdita del gettito fiscale che si concretizza ogni volta che l’Erario non riceve dal fornitore il pagamento dell’IVA fatturata in relazione alla quale il cliente, a valle, esercita la detrazione. Meno conosciuti sono, invece, i tratti distintivi di ciascuna tipologia di reverse charge il cui ingresso nel sistema IVA può essere, a seconda dei casi, facoltativa oppure obbligatoria come, per esempio, nel caso delle ipotesi previste nell’ambito delle regole territoriali o nel settore dei rottami e dell’edilizia. Non solo, ma per determinate cessioni di beni è previsto l’obbligo del reverse charge togliendo, così, ai legislatori nazionali il potere di scelta riguardo all’adozione di tale modalità di fatturazione. Occorre, allora, tornare a quanto la migliore dottrina ha sempre affermato: in queste tre ipotesi il cessionario “è tenuto originariamente all’assolvimento dell’IVA, essendo tale operazione (l’acquisizione intracomunitaria o l’importazione ovvero lo svincolo) il fatto generatore e costitutivo dell’obbligazione”. Portando questo condivisibile ragionamento alle sue estreme conseguenze, ne deriverebbe che nelle situazioni in cui il debito IVA nasce direttamente in capo al cessionario risulterebbe implicitamente obliterato lo status di soggetto passivo del cedente che, pertanto, viene trasferito sul cessionario.

Acquisizione a titolo “originario” e “derivato” della funzione di debitore d’imposta

La conclusione appena formulata ha delle ricadute pratiche e sostanziali rilevanti, soprattutto in tema di responsabilità per le violazioni degli obblighi IVA. Basti pensare che il cessionario, ove acquisisca a titolo “originario” la funzione di debitore d’imposta (quindi, nelle ipotesi di acquisto intracomunitario, importazione e svincolo della merce), non dovrebbe rispondere soltanto del mancato pagamento dell’imposta in quanto la sua responsabilità sembrerebbe ampliarsi fino a ricomprendere “ogni altro elemento riguardante la genesi e la formazione dell’operazione, ivi compresi gli aspetti contabili tra cui, in primo luogo l’emissione della fattura”. Viceversa, negli altri casi di reverse charge - contraddistinti dal fatto che il titolo dell’acquisto della funzione di debitore d’imposta ha un carattere traslativo-derivativo dal cedente al cessionario - il primo, cioè, il fornitore, resta responsabile degli altri elementi dell’operazione, mentre il secondo, ossia, il cliente, dovrebbe considerarsi un mero debitore con una responsabilità limitata all’onere di assolvimento dell’imposta. Si assiste, dunque, ad un ribaltamento di prospettiva nell’acquisizione a titolo originario poiché la responsabilità principale del cessionario, chiamato a specificare in fattura “la dicitura (...) autofatturazione” o “inversione contabile”, appare autonoma ed indipendente rispetto alla responsabilità secondaria del cedente che, prestando il proprio consenso, accetta che la fattura sia compilata dal destinatario dell’operazione. Diversa è la logica nell’acquisto a titolo “derivato”, dove il fornitore, pur addossando sul cliente l’onere del pagamento del tributo, rimane il vero soggetto passivo e, pertanto, risulta il responsabile principale degli altri aspetti della cessione fra cui la scelta del regime IVA ai fini della corretta applicazione dell’aliquota se, ovviamente, l’operazione è imponibile. Tirando le fila del discorso pare, quindi, potersi concludere che nell’acquisto a titolo originario il cessionario accentra su di sé, dal lato attivo, la duplice qualifica di debitore e soggetto passivo. La ragione di base, che spinge a questo epilogo, è rintracciabile nell’individuazione del fatto generatore del debito IVA che si manifesta nel luogo in cui l’operazione è colpita dall’imposta e che coincide con il luogo dove risulta identificato il cessionario: il quale, pertanto, risponde in via principale delle violazioni degli adempimenti IVA residuando, in via sussidiaria, una responsabilità del fornitore per aver accettato che il documento fosse emesso dal cliente. Mentre, al contrario, nell’acquisto a titolo derivato, per le violazioni degli obblighi IVA a carico del cedente non sembrerebbe configurabile una responsabilità secondaria in capo al cessionario, a meno che l’ente impositore dimostri che il cliente fosse consapevole di partecipare ad operazioni fraudolente. Tale ricostruzione rispecchia il pensiero della Corte di Giustizia che, da un lato, nel caso di cessione soggetta alla procedura di autofatturazione, riconosce al cessionario il diritto alla detrazione dell’IVA ancorché quest’ultimo non sia in possesso della fattura emessa dal fornitore che nasce geneticamente senza IVA. E, dall’altro, nega la detraibilità dell’imposta al soggetto passivo che “sapeva o avrebbe dovuto sapere” che il proprio acquisto si inseriva all’interno di un contesto fraudolento “indipendentemente dalla circostanza che egli tragga o meno beneficio dalla rivendita dei beni”. Alla luce di questo quadro, appare ragionevole ammettere la detrazione in favore dell’operatore in buona fede il quale, nel momento in cui acquista dei beni in settori commerciali ad alto rischio di frode, fattura l’operazione in reverse charge. Così facendo, l’acquirente tutela il gettito erariale perché, grazie allo scudo protettivo dell’inversione contabile o dell’autofattura, impedisce al fornitore di avere “in mano” l’IVA che lo stesso fornitore potrebbe non versare all’Erario sottraendola, così, allo Stato. A tale risultato si può arrivare, è bene rimarcarlo, con l’una (reverse charge) o l’altra (autofatturazione) modalità di fatturazione, in perfetta aderenza alla Direttiva 2006/112/CE la quale si concentra, esclusivamente, sul trasferimento dell’obbligo di pagamento. Volendo, dunque, privilegiare una lettura “europea” della norma nazionale che regola le cessioni di rottami, si potrebbe sostenere che il cliente possa, in via cautelativa, emettere l’autofattura nell’ipotesi in cui il fornitore, nonostante l’effettuazione dell’operazione, non proceda all’emissione del documento senza IVA.

I fatti di causa

Quanto precede è utile per cogliere alcune sfumature della sentenza n. 140/2022 in commento. La vicenda riguarda una società controllata del gruppo italiano Pirelli che, nel 2006, ha acquistato da un fornitore svizzero dei servizi per l’attività di sicurezza e controllo dell’azienda. L’Agenzia delle entrate contesta alla società controllata l’inerenza degli acquisti e, dunque, l’indetraibilità dell’IVA. Evidenziando, a riguardo, che il fornitore estero ha ricevuto gli incarichi direttamente ed esclusivamente dalla controllante che, a sua volta, ha ribaltato sulla controllata il 40% dei costi sostenuti per i servizi di sicurezza. Tutto ciò, sottolinea l’ente impositore, senza che la controllata abbia dimostrato l’esistenza di accordi infragruppo che giustificassero il riaddebito dei costi. Tale profilo, che riguarda il merito, è stato superato dai giudici di merito dalla “possibile esistenza di incarichi verbali” tra i vari soggetti (fornitore/controllata, fornitore/controllante) e, inoltre, “dall’esistenza di un contenzioso innanzi al Tribunale di Milano tra la ricorrente e la stessa Equa [fornitore svizzero], tale da fare dedurre l’effettività delle prestazioni nei confronti della contribuente”. In punto di diritto, il giudice d’appello ha condiviso la linea di difensiva della contribuente che ha sostenuto il carattere “superfluo” del “principio di inerenza” nel caso di applicazione del reverse charge relativo “ad operazioni con l’estero”. Più in dettaglio, la Commissione tributaria regionale è convinta che il meccanismo dell’inversione contabile introduca una sorta di finzione giuridica che, in un primo momento, fa gravare sul destinatario dell’operazione un’IVA a debito che teoricamente non sarebbe dovuta e, in un secondo momento, per salvaguardare la neutralità, ammette la detrazione dell’imposta che lo stesso ha corrisposto all’Erario.

La posizione della Cassazione

Onestà intellettuale impone di contestualizzare la posizione della Commissione tributaria regionale, che risulta precedente alla famosa decisione Idexx Laboratories Italia. In tale pronuncia, la Corte di Giustizia ha riconosciuto la detrazione dell’IVA, nonostante l’inosservanza degli obblighi formali in materia di reverse charge, ove siano soddisfatte le condizioni sostanziali fra cui, ovviamente, il ribaltamento degli acquisti sulle operazioni imponibili a valle. Ecco perché con la sentenza in commento la Cassazione, a distanza di otto anni dalla conclusione del giudizio d’appello, ha rinviato la causa alla Commissione tributaria regionale mettendo in chiaro che la doppia registrazione contabile, operata dagli acquirenti “che diventano soggetti passivi dell’imposta”, non può cancellare né le condizioni per l’assolvimento dell’IVA a debito, né tanto meno i presupposti per la detraibilità dell’imposta che presuppone l’utilizzo del servizio acquistato dal committente “ai fini delle proprie operazioni soggette a imposta (...). La carenza di queste condizioni” - chiosa la Cassazione - “impedisce il sorgere del diritto di detrazione, con la conseguenza che l’annotazione sul registro degli acquisti determina una fruizione indebita del diritto di detrazione”. Viene, così, demolita la tesi dei giudici di merito circa l’irrilevanza dell’inerenza nell’ipotesi di applicazione del reverse charge. Per testare la bontà di questo approdo occorre analizzare la disciplina sanzionatoria in materia di reverse charge focalizzando, in particolare, l’attenzione sull’art. 6, comma 9-bis.3, del D.Lgs. n. 471/1997, in vigore dal 1° gennaio 2016. È una norma che, come accennato, ha avuto un nuovo impulso grazie all’ordinanza della Cassazione n. 1703/2022, in commento, che ha stimolato le Sezioni Unite ad affrontare e risolvere le delicate problematiche sulle quali si “registra un contrasto, per quanto inconsapevole, nella giurisprudenza” della stessa Suprema Corte.

L’iter processuale che ha preceduto l’ordinanza di rimessione

La vicenda, sottostante all’ordinanza della Cassazione n. 1703/2022, riguarda una società che commercializza all’ingrosso rottami ferrosi. Nel 2004, la società dichiarava di aver effettuato ben settecento acquisti di rottami da fornitori privati (raccoglitori occasionali), peraltro tutti diversi, “con uso di denaro contante. Per ogni acquisto veniva compilata una ricevuta intestata ai vari fornitori indicando il tipo, il peso del rottame e l’importo con la firma del legale rappresentante per quietanza. Le operazioni sono state considerate, dal contribuente, fuori campo IVA”. Tuttavia, a seguito dei controlli svolti dall’Agenzia delle entrate, i nominativi dei settecento fornitori “si sono rilevati inesistenti” con la conseguente irrogazione, ai fini IVA, della sanzione piena22 per l’omessa regolarizzazione degli acquisti di rottami ferrosi che, a dire dell’ente impositore, dovevano essere assoggettati al regime d’inversione contabile ex art. 74, commi 7 e 8, D.P.R. n. 633/1972. Tesi condivisa da entrambi i giudici di merito che, nel respingere prima il ricorso e poi l’appello della contribuente, hanno evidenziato che, a fronte della pacifica inesistenza soggettiva degli acquisti, la società avrebbe dovuto emettere l’autofattura assolvendo così l’imposta per ogni operazione. Pertanto, come rimarcato dalla Commissione tributaria regionale, se manca la prova dell’irregolare assolvimento dell’IVA, allora, non è applicabile la sanzione nella misura del 3%, in luogo della sanzione piena, invocata dalla contribuente. È, peraltro, irrilevante, precisa il giudice d’appello, che l’imposta sia stata corrisposta nelle successive operazioni di vendita in quanto l’IVA, come più volte ribadito dalla giurisprudenza europea, si applica almeno una volta a ciascuna operazione in ossequio a quanto stabilito dall’art. 1 della Direttiva 2006/112/CE. Nonostante questa lucida motivazione, la contribuente ha presentato ricorso in cassazione. Inizialmente è stata fissata l’udienza camerale, ma poi si è celebrata la pubblica udienza all’esito della quale la Suprema Corte, valutata la relazione dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo, ha ritenuto di dovere approfondire il tema del “regime sanzionatorio da applicare in caso di operazioni soggettivamente inesistenti in regime di reverse charge domestico, anche alla luce del ius superveniens introdotto dal D.Lgs. n. 158 del 2015”. Considerato che, “sul punto v’è un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, giacché” secondo alcune pronunce “è in questi casi inapplicabile l’art. 6, comma 9-bis.3 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, come novellato dal D.Lgs. n. 158 del 2015”, mentre secondo altre decisioni “questa norma è applicabile”.

Il contrasto giurisprudenziale all’interno della Cassazione

Nessuno mette in dubbio che l’art. 6, comma 9-bis.3, primo periodo si estenda alle operazioni esistenti che siano esenti, non imponibili o non soggette ad imposta. Sicché, l’erroneo utilizzo dell’inversione contabile per cessioni o prestazioni senza IVA non determina alcuna sanzione per il cliente, potendo quest’ultimo eliminare (“espungere”) l’operazione dalla contabilità IVA mediante la contemporanea cancellazione sia del debito che del credito portato in detrazione. Il problema interpretativo, che invece attiene al secondo periodo del comma 9-bis.3, viene alimentato dal dubbio circa la possibilità di poter “espungere” dal sistema IVA, analogamente alle operazioni esistenti, anche le “operazioni inesistenti” con l’irrogazione di una sanzione variabile dal cinque al dieci per cento dell’imponibile, con un minimo di mille euro. Tale trattamento sanzionatorio, secondo un recente orientamento che si allinea alla prassi amministrativa, dovrebbe abbracciare tutte le tipologie di operazioni inesistenti, comprese quelle imponibili: quest’ultime, invece, secondo un altro orientamento, sarebbero escluse dal comma 9-bis.3 poiché l’inesistenza soggettiva non farebbe sorgere “alcuna posta detraibile”, sicché resterebbero irrogabili la sanzioni piene per dichiarazione infedele e indebita detrazione. L’estensore dell’ordinanza n. 1703/2022 sembra propendere per la tesi, certamente più restrittiva, che nega il beneficio della sanzione ridotta alle operazioni inesistenti e imponibili. Non a caso, in motivazione viene dedicato ampio spazio alla sentenza Ferimet il cui insegnamento è così sintetizzato dalla Suprema Corte: “Al cospetto (...) di operazioni soggettivamente inesistenti a cui si applica il regime dell’inversione contabile, e in cui non emerga in alcun modo la buona fede del cessionario, l’applicazione di questa giurisprudenza condurrebbe a denegare il diritto di detrazione; sicché, eliso il diritto di detrazione, rimarrebbe dovuta la sola imposta a debito, derivante dal compimento dell’operazione, che, quindi, non avrebbe affatto effetti neutri, ma, anzi, produrrebbe danno per l’Erario”.

Tripartizione sanzionatoria in materia di reverse charge

Le considerazioni svolte nell’ordinanza n. 1703/2022 offrono lo spunto per alcune riflessioni di più ampia portata sulla disciplina sanzionatoria in materia di reverse charge con diverse sfumature che, troppo spesso, rischiano di passare inosservate nell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale. Per esempio, in tema di frode non sempre viene colta la distinzione fra le tre differenti “sanzioni”. Una, introdotta in via giurisprudenziale, è la perdita del diritto di detrazione in capo all’operatore coinvolto nella frode. L’altra, è l’obbligo per il fornitore - ex art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633/1972 - di corrispondere all’Erario l’IVA indicata in fattura per operazioni inesistenti. La terza, ed ultima, è la sanzione ridotta - comma 9-bis.3 - per le operazioni inesistenti soggette al reverse charge. Tenendo a mente questa tripartizione sanzionatoria, è possibile ricercare una soluzione interpretativa che, in quanto equilibrata, rappresenti una sintesi fra i due contrapposti orientamenti della Cassazione nella convinzione che in medio stat virtus. In questa prospettiva, appare coerente l’introduzione di una sanzione ridotta per le operazioni inesistenti in regime di reverse charge ancorché imponibili. Del resto, non sembra esserci alcun ostacolo normativo o teleologico-dogmatico. Il senso letterale del comma 9-bis.3 prospetta, senza ambiguità semantiche, l’estensione della procedura di sterilizzazione degli effetti dell’operazione alle ipotesi di cessioni o servizi inesistenti. Con grande chiarezza, il legislatore ha contestualmente modificato l’art. 21, comma 7, del D.P.R. n. 633/1972 al fine di disapplicare tale norma alle “operazioni soggette a reverse charge, ossia ad inversione contabile”. Si tratta di un intervento legislativo coraggioso e serio perché individua l’essenza dell’art. 21, comma 7 che - come ricordato nell’ordinanza n. 1703/2022 - “non ha carattere di sanzione” in quanto mira semplicemente a salvaguardare la neutralità fiscale evitando, nei casi di operazioni inesistenti, che lo Stato riconosca al cliente una detrazione per una imposta che, però, il fornitore non corrisponde all’Erario. Il corollario che se ne trae sta nel diritto del cessionario/committente a poter cancellare dalla contabilità IVA il debito e il credito, anche in riferimento ad operazioni inesistenti, qualora sia eliminato il rischio di perdita di gettito fiscale che dovrebbe essere, di default, escluso ogni volta che il cliente si avvalga dello strumento antievasivo dell’inversione contabile. A sostegno di questa impostazione viene in rilievo la differenza fra il fatto generatore e l’esigibilità dell’imposta, come delineata dal legislatore italiano. Semplificando, il primo è l’evento che determina il sorgere del debito IVA, mentre, il secondo è il momento in cui nasce il diritto dell’Erario a pretendere il pagamento dell’imposta. E già si intravede il carattere eccezionale della debenza dell’IVA ex art. 21, comma 7, la quale consente all’Erario di riscuotere l’imposta nonostante l’inesistenza dell’operazione: insomma, dal punto di vista sistematico, si è di fronte ad una esigibilità senza fatto generatore. A riprova, nell’ordinanza n. 1703/2022 si sottolinea che “Il compimento [ossia, il fatto generatore] di quelle operazioni (...) soggettivamente inesistenti (...) è pur sempre il presupposto impositivo dell’IVA a debito”. In altri termini, partendo dall’affermazione della Suprema Corte, laddove la fattura documenta una cessione o un servizio che non esiste, pare del tutto ovvio constatare che per tale operazione non si è realizzato il fatto generatore dell’imposta che, in quanto non generata, risulta inesigibile a monte e, per l’effetto, indetraibile a valle. Il che giustificherebbe, per le operazioni inesistenti in regime di reverse charge, la procedura di “espunzione” dalle liquidazioni IVA delle poste a debito ed a credito, con l’irrogazione di una sanzione più mite. La quale, tuttavia, in ossequio alle indicazioni della giurisprudenza in materia di frodi, non sarebbe invocabile dall’operatore che “sapeva o avrebbe dovuto sapere” di partecipare ad operazioni evasive o abusive che hanno prodotto un danno erariale. Da qui, si potrebbe dedurre che la “non conoscenza” della frode è il biglietto di ingresso per usufruire della sanzione ridotta di cui al comma 9-bis.3. Questa soluzione consente, peraltro, di superare la preoccupazione della Cassazione, anzi, il fastidio, di “premiare” i frodatori con provvedimenti sanzionatori troppo lievi. In realtà, come detto, ai frodatori e ai loro complici non è garantito alcun regime sanzionatorio di favore che, invece, è destinato agli operatori “onesti” coinvolti, a loro insaputa, in operazioni inesistenti. In tal caso, la sanzione più mite è giustificata in quanto il cliente onesto, servendosi dello strumento antievasivo del reverse charge, riduce fortemente l’alto grado d’insidiosità della fornitura inesistente. Appare un ragionevole bilanciamento fra gli interessi erariali e gli interessi degli operatori in buona fede che, ancor meglio, si coglie rileggendo la sentenza Ferimet. Il quadro fattuale non presenta dubbi: è, infatti, pacifica sia l’effettività dell’acquisto di rottami, sia la falsità soggettiva della fattura (senza IVA) emessa dal fornitore, sia l’assolvimento dell’imposta tramite autofattura da parte del cliente Ferimet. Ci si sarebbe, pertanto, aspettati che il disconoscimento della detrazione in capo al cliente fosse giustificato da due elementi di fatto: il primo, è la frode compiuta dal “vero” fornitore non indicato nella fattura, l’altro, è la conoscenza della medesima frode da parte del cliente. In realtà, dalla lettura della decisione non è chiaro se, in effetti, l’ente impositore abbia fornito la prova di entrambe le circostanze. Resta, quindi, il dubbio sui motivi dell’accettazione da parte di Ferimet di una fattura falsa. In teoria, delle due l’una. O Ferimet è complice dei frodatori, dunque dovrebbe essere punita con la perdita della detrazione: oppure Ferimet, estranea alla frode, ha ritenuto irrilevante la fattura falsa poiché ciò che conta, ai fini IVA, è l’autofattura da essa compilata che protegge lo Stato dal danno erariale. Nonostante ciò, la Corte di Giustizia ha sorprendentemente deviato da questo collaudato schema-binario, onerando Ferimet di una probatio diabolica, essendo difficile, se non impossibile, dimostrare che il vero fornitore sia un soggetto passivo.

Considerazioni conclusive

In attesa del possibile intervento delle Sezioni Unite, si potrebbe sistematizzare la disciplina sanzionatoria in materia di reverse charge in questi termini. Non dovrebbe essere sanzionabile (art. 6, comma 9-bis.3, primo periodo) l’erronea applicazione dell’inversione contabile alle operazioni rilevanti in Italia, ma non colpite dall’imposta perché esenti, non imponibili o non soggette all’IVA. In tal caso, sembra ammessa la procedura di “espunzione” del debito e del credito atteso che le operazioni, in quanto senza IVA, escludono qualsiasi danno erariale. Analogamente, dovrebbe essere consentita la sterilizzazione degli effetti IVA per le operazioni inesistenti, anche se imponibili, ferma restando la sanzione ridotta (comma 9-bis.3, secondo periodo) e sempre che il cliente sia estraneo alla eventuale frode realizzata dal fornitore. Inoltre, pare inapplicabile il comma 9-bis.3 qualora, al cospetto di una operazione esistente e soggetta ad IVA in Italia o in un altro Stato dell’Unione, il cliente abbia detratto l’IVA assolta per acquisti totalmente non inerenti alla sua attività economica. In questa ipotesi, sembrerebbe che l’utilizzo fraudolento o abusivo della partita IVA per acquisti destinati a finalità private, dunque, estranee alla sfera imprenditoriale, possa giustificare l’impossibilità di salvare la neutralità dell’operazione tenuto conto del potenziale rischio di perdita di gettito fiscale prodotto dalla (illegittima) detrazione. Seguendo questa logica, ritornando al caso della sentenza n. 140/2022 in commento, il giudice del rinvio, se dovesse accertare l’inesistenza dei servizi e la buona fede del cliente, potrebbe irrogare la sanzione ridotta (comma 9-bis.3, secondo periodo) - ove le Sezioni Unite la ritengano applicabile retroattivamente - previa eliminazione dalla contabilità IVA delle poste a debito ed a credito e indipendentemente dall’inerenza dell’acquisto.

Avv. Clino De Ieso, Avvocato Tributarista cassazionista, Partner Studio Legale Tributario Centore

Condividi su: