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Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali in materia tributaria.

Prof. avv. Alberto Marcheselli

Ordinamento tributario, riforme e professione

1. Il diritto tributario figlio del Dio Minore delle Garanzie: un pregiudizio giuridicamente inconsistente.

La materia del diritto al silenzio si trova adeguatamente trattata e sistemata in campo penale, si avvia a una sistematizzazione nel campo del diritto sanzionatorio generale, ma sembra rimanere sostanzialmente terra da pionieri per il diritto tributario. È interessante interrogarsi sulla ragione di tutto ciò. Essa non può esaurirsi nel rilievo della netta separazione dello strumentario dogmatico e ordinamentale, propria del diritto italiano, tra diritto penale e diritto sanzionatorio amministrativo. Non può, perché le aree sanzionatorie diverse da quella tributaria mostrano ben più rilevanti aperture e la unitarietà del diritto punitivo è elemento ormai acquisito in campo internazionale. Vale allora la pena di interrogarsi preliminarmente sulle ragioni della pretesa specialità della materia tributaria. Tale specialità viene evocata come in una sorta di mantra dalle fonti istituzionali più autorevoli ma, consapevoli della portata di questa nostra statuizione, a noi sembra, umilmente, del tutto priva di fondamento, per chi approcci al tema senza pregiudizio e riesaminandolo funditus. Va precisato che il tema è quello, ristretto, dello statuto delle garanzie delle sanzioni tributarie e la domanda è allora, depurata di tutti gli orpelli, molto semplice: esiste una ragione per cui l’indagato o accusato di violazioni fiscali dovrebbe avere garanzie diverse/inferiori all’indagato o accusato di altre violazioni? Come si rilevava sopra, un ampio coro di fonti istituzionali risponde positivamente. Quando però ci si cali a cercare il fondamento di tale specialità, l’armonia di tale coro, a nostro modestissimo si disperde e confonde progressivamente in una sorta di rumore bianco. A ben vedere, due sono le giustificazioni, sia in astratto, sia nel concreto delle motivazioni evocate. La prima si rifa alla natura autoritaria e sovrana del potere di imporre i tributi. In modo molto franco, ciò equivale a dire che chi disobbedisce al sovrano che pretende l’imposta, merita meno garanzie di chi disubbidisca ad altri precetti. Questa è, esattamente, la giustificazione storicamente evocata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo per sottrarre, tendenzialmente, il processo tributario, dalla garanzia del giusto processo. La seconda, più morbidamente, sposta la questione sul piano funzionale e assiologico e assume che il fondamento sarebbe nel fatto che pagare i tributi corrisponde a un dovere fondamentale di solidarietà, costituente uno dei pilastri della appartenenza a una collettività. A ben vedere, la prima affermazione costituisce una sorta di postulato indimostrabile, rispetto al quale pare possibile solo una condivisione ideologica, ma non un vero e proprio argomentare giuridico. Almeno personalmente (ma riteniamo di esprimere considerazioni ampiamente condivise della attuale cultura giuspolitica) non riteniamo (più) adeguato al concetto di Stato democratico e di Stato moderno, un concetto di supremazia che si spinga fino allo sganciamento del potere pubblico dalle garanzie fondamentali. Il connotato autoritativo del potere pubblico sta nella sua possibilità di farsi giustizia da sé medesimo, nel poter modificare unilateralmente le posizioni giuridiche altrui ma non (più) nell’affrancamento dai controlli o nella asserita speciale odiosità delle lesione delle prerogative sovrane, nella permanenza, insomma, del concetto di lesa maestà (che appare l’unica possibile giustificazione per ritenere che disubbidire al sovrano che impone i tributi sia peggio che, per esempio, uccidere i propri simili, per fare il primo esempio – provocatorio quanto si vuole, ma logicamente rigoroso - che viene alla mente). Più interessante ed elegante, sul piano giuridico, ci pare la seconda possibile giustificazione: la differenza starebbe sul piano valoriale e sostanziale: il tributo sarebbe più importante assiologicamente, perché costituisce la realizzazione di un valore fondamentale, la solidarietà. In effetti, sul carattere di dovere fondamentale del pagamento del tributo, nel quadro degli articoli 2 e 53 Cost., non sembra sia necessario dire nulla. L’assunto è, però, un altro, e cioè la primazia di tale interesse rispetto agli altri affidati alla pubblica cura, che è cosa assai diversa. Anche assumendo al correttezza di tale premessa, però, non sembra proprio che si possa giustificare la conclusione che si pretende di giustificare (il diritto tributario merita garanzie diverse e minori). A ben vedere, anzi, si tratta, di nuovo, di una premessa non solo indimostrabile, ma che lascia – eufemisticamente - alquanto perplessi. Siamo sicuri che l’interesse a reperire gli strumenti di pubblica finanza sia potiore rispetto a quelli tipici del diritto penale (generale)? Forse che evitare che siano evase le imposte è più importante e impellente (corrisponde a valori di peso maggiore) che, per citare i primi esempi che vengono in mente, evitare che vengano commessi abusi sessuali sui bambini, uccisi i propri simili, commessi atti di terrorismo? Eppure di questo si tratta: la tesi è che il diritto tributario meriterebbe meno garanzie perché satisfattivo di interessi pubblici più importanti. Ma non basta, assumiamo pure, per completezza dialettica, che sia così, e che l’interesse finanziario dello Stato sia superiore a tutti gli altri interessi e funzioni pubbliche. Ebbene, ne scaturirebbe la conclusione che l’assetto delle garanzie procedimentali potrebbe essere diverso (e inferiore)? Non pare proprio. Se l’obiettivo di far pagare i tributi è il più importante, ebbene, gli si dedichino gli strumenti più efficienti, si prevedano i doveri di collaborazione più pregnanti, si applichino le sanzioni più severe. Ma da nessuna di queste cose scaturisce – mai – per via di logica giuridica, che le garanzie e i controlli dovrebbero essere inferiori. Perché mai la gravità della imputazione (o l’importanza dell’interesse tutelato) dovrebbe essere inversamente proporzionale alle garanzie relative al suo accertamento? Dove starebbe il nesso logico? Forse che la ragione, non detta, di tali impostazioni è nel ritenere che la garanzie procedimentali siano un ostacolo alla realizzazione dei valori sostanziali? A tacere del fatto che ciò, se rigorosamente inteso, parrebbe una sostanziale abiura dello stesso ubi consistam del diritto, si può rilevare che, sperimentalmente, è vero il contrario: lo Stato di diritto non rinuncia alle garanzie neppure quando reprime i crimini più efferati, come la luminosa tradizione giuridica italiana insegna.

2. Il silenzio assordante sul… diritto al silenzio in materia tributaria. Premessa di metodo.

Controversa è la applicabilità del c.d. diritto al silenzio in materia tributaria, anche alla luce della recente sentenza della Corte di Giustizia UE, 2 febbraio 2021, C-481/19, DB c. Consob e alla consentanea sentenza 84 della Corte Costituzionale. A tale proposito, è utile muovere dalla considerazione che, con riferimento alla Convenzione EDU, seppure in mancanza di un riconoscimento esplicito del diritto al silenzio, la Corte di Strasburgo ha affermato che il «diritto a restare in silenzio e a non contribuire in alcun modo alla propria incriminazione» si colloca al cuore della nozione di “equo processo” di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione stessa, sia perché finalizzato a proteggere l’accusato da indebite pressioni dell’autorità volte a provocarne la confessione, sia perché connesso alla presunzione di innocenza di cui al medesimo art. 6, paragrafo 2. Quanto alla Corte di Giustizia UE, nella citata sentenza in causa 481/19, per quanto qui di interesse, la Corte ha precisato che il diritto in questione deve essere rispettato anche nell’ambito di procedure di accertamento di illeciti amministrativi, suscettibili di sfociare nell’inflizione di sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente penale, come inteso dalla Corte EDU. Volgendo l’attenzione verso la giurisprudenza domestica, in primo luogo deve osservarsi che il “diritto al silenzio” dell’imputato, pur non godendo di un espresso riconoscimento costituzionale, costituisce un «corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa», riconosciuto dall’art. 24 Cost., garantendo nel procedimento penale all’imputato la possibilità di rifiutare di sottoporsi all’esame testimoniale e, più in generale, di avvalersi della facoltà di non rispondere alle domande del giudice o dell’autorità competente per le indagini. Va ora precisato che con la espressione “diritto al silenzio” si intende far riferimento al riconoscimento, da parte dell’ordinamento, della facoltà di un soggetto di non collaborare alla propria incriminazione. In particolare, esso implica che le autorità statali debbano esercitare i loro poteri di indagine senza ricorrere ad abusi o a coercizioni della volontà del soggetto imputato. Ne segue che il diritto in esame ha per scopo la tutela dell’indagato riguardo a pressioni improprie delle autorità statali, e sin dalla fase delle indagini, al fine di evitare errori giudiziari e di assicurare un equo processo. Tradizionalmente, questa fattispecie porta con sé quattro problemi interpretativi e applicativi. Il primo problema è stabilire rispetto a quale rischio possa essere attivato tale diritto. Il secondo problema è stabilire quali condotte siano consentite nell’esercizio di tale diritto. Il terzo problema è in quale contesto, in quale ambito, possa essere esercitato tale diritto. Il quarto problema è stabilire quali conseguenze giuridiche, quali regimi giuridici possano confliggere con tale diritto.

3. Il diritto al silenzio e il rischio tutelato

Il problema relativo all’individuazione del rischio rispetto al quale possa essere attivato il diritto al silenzio equivale a domandarsi se si abbia il diritto di tacere solo per evitare una incriminazione penale o anche una sanzione di altro tipo. Esso si traduce nell’interrogativo: ho il diritto di non collaborare alla mia incriminazione soltanto se questa incriminazione è penale o anche a fronte del rischio dell’applicazione di una sanzione di altro tipo? Alla luce della giurisprudenza internazionale, in particolare della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (e ora anche della Corte di Giustizia), pare prevalga ormai nettamente la seconda alternativa, posto che costituisce, come ormai arcinoto, materia criminale, oggetto di garanzia, qualsiasi sanzione, indipendentemente dal nomen della categoria assegnato dall' ordinamento nazionale, che abbia funzione punitiva e, sostanzialmente sia, secondo i noti criteri Engel, caratterizzata da: funzione deterrente, applicazione generale e impatto significativo. Se questa è la premessa, la conclusione è che il diritto di tacere, la facoltà di non collaborare alla propria incriminazione dovrebbe valere per evitare la incriminazione anche per sanzioni che abbiano la classificazione interna italiana di sanzioni amministrative. Ciò perché esse possono considerarsi punitive. Sul punto, deve osservarsi che la Corte Costituzionale italiana ha ritenuto che le singole garanzie costituzionali previste per la materia penale devono intendersi estese alle sanzioni che derivano (anche) da procedimenti amministrativi, purché queste ultime assumano una natura punitiva secondo i dettami della giurisprudenza della Corte EDU. In sintesi, con tali decisioni, la Corte Costituzionale risulta aver sviluppato armonicamente la giurisprudenza della Corte EDU.

4. Le condotte consentite dal diritto al silenzio: proporzione e buona fede onde evitare abusi.

Il secondo problema, e cioè quali condotte siano coperte da tale diritto, pare avere una soluzione relativamente agevole, in teoria e in generale. Dovrebbe essere scriminata, giustificata soltanto la condotta omissiva, il silenzio. Non dovrebbe, invece, essere scriminata una condotta positiva. Il diritto di non cooperare alla propria incriminazione significa diritto di poter non fare qualcosa che comporti una cooperazione alla propria incriminazione. Ma non anche facoltà di fare attivamente qualcosa che la allontani. Fuori di metafora, non pare in effetti scriminata nel principio generale una condotta, per esempio, di mendacio positivo o di immutazione artificiosa della realtà, una condotta di falsificazione materiale o ideologica, o addirittura di frode. In questa area può farsi rientrare anche la limitazione che esclude possano ritenersi coperte condotte che non si esauriscano nel semplice rifiuto di collaborare ma ridondino in vere e proprie manovre dilatorie.

5. Lo spazio applicativo del diritto al silenzio

Il terzo profilo, e cioè individuare il contesto, l' ambito entro cui è possibile esercitare tale diritto è più delicato. La giurisprudenza italiana è partita da una impostazione molto restrittiva, riconoscendo il diritto di tacere non solo rispetto al solo rischio penale, in questo senso come abbiamo già visto superata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (e UE), ma anche nel solo ambito del procedimento/processo penale tradizionalmente inteso. Cioè la giurisprudenza italiana è partita riconoscendo la possibilità di non cooperare soltanto per evitare un' imputazione penale, o l’applicazione di misure di sicurezza (e questo riguarda il rischio da evitare per l’agente) e soltanto durante le indagini penali. Ciò implica che, secondo una impostazione originaria, non avrebbe dovuto essere riconosciuto il (o non si è posto il problema del riconoscimento del) diritto al silenzio prima e fuori della fase delle indagini penali.
Si intuisce subito la rilevanza di questa limitazione quanto alla materia tributaria: se così fosse, per esempio, non ci sarebbe il diritto di tacere davanti al funzionario dell'Agenzia delle Entrate, per chi non è ancora oggetto di un procedimento, né tantomeno di un processo, penale. Questa limitazione deve però considerarsi in via di superamento ed irragionevole. La domanda più interessante, in effetti, dal punto di vista pratico, è se debba riconoscersi il diritto di tacere, cioè il diritto di non cooperare alla propria incriminazione fuori dall’attualità dell'indagine penale (o comunque punitiva) ma, per esempio, davanti al pubblico ufficiale che avrebbe l'obbligo di denuncia all'autorità giudiziaria (o che avrebbe l’obbligo di avviare una successiva procedura sanzionatoria, o di trasmettere gli atti alla autorità a ciò preposta). Che il diritto al silenzio sussista anche in questa fase anticipatoria, in realtà, pare logico: se l'ufficiale ha l'obbligo di denuncia (o di inizio della procedura sanzionatoria o di segnalazione), in sostanza una dichiarazione auto indiziante, una condotta di collaborazione sarebbe effettivamente una cooperazione alla propria incriminazione, perché si tratterebbe di svelare la propria colpevolezza o comunque cooperare al disvelamento del proprio elemento di colpevolezza davanti a un soggetto che ha per obbligo giuridico trasmettere la notizia all'autorità giudiziaria (o iniziare o cooperare a iniziare una procedura sanzionatoria): un soggetto che ha l'obbligo di iniziare o far iniziare, trasmettendo le informazioni ricevute e le risultanze della condotta indiziante, il procedimento per l'incriminazione. Tale conclusione è rafforzata, del resto, anche da un possibile argomento sistematico: il pubblico ufficiale, che è obbligato alla denuncia, e quindi è obbligato a trasmettere la notizia di reato di cui sia venuto a conoscenza nell'esercizio delle sue funzioni all'autorità giudiziaria, è scriminato all'interno del codice penale e rispetto al reato di omessa denuncia, quando egli agisca per salvare se stesso. È allora ipotizzabile un efficace argomento a fortiori: se addirittura il pubblico ufficiale, cioè colui che esercita una funzione pubblica speciale finalizzata alla raccolta di notizie di reato ha la facoltà di tacere per salvare se stesso, cioè ha il diritto di non cooperare alla sua auto incriminazione, dovrebbe, questo diritto, averlo, a maggior ragione, chi sia chiamato a rendere dichiarazioni auto incriminanti davanti a lui. Ovvero, se persino il soggetto stesso che deve trasmettere la notizia di reato nell’esercizio di una funzione pubblica ha il diritto di tacere, come sostenere che non abbia tale diritto di tacere con lui che gli rende le dichiarazioni e non eserciti alcuna pubblica funzione speciale?

6. Quali regimi giuridici confliggono con il diritto al silenzio (sanzioni porprie, improprie e indirette)? Impostazione della questione

L’ultima questione è interrogarsi circa quali regimi giuridici, quali conseguenze giuridiche della mancata collaborazione alla propria incriminazione ostacolino, o meglio confliggano con il riconoscimento del diritto al silenzio. È sostanzialmente pacifico che confliggano con tale diritto le sanzioni. Sicuramente confligge con il diritto di tacere, inteso come diritto di non cooperare, il fatto di essere puniti se non si collabora. Il problema è più articolato e sarà esaminato in dettaglio più avanti, con riferimento puntuale alla materia tributaria, per quanto attiene conseguenze diverse. Proseguendo nell’analisi, il sacrificio del diritto al silenzio può derivare dalla rinuncia al relativo esercizio da parte del titolare. Sotto tale profilo, tuttavia, la giurisprudenza precisa che la scelta deve essere “informata”, nel senso che l’indagato deve preventivamente essere edotto del diritto che lo assiste e la sua rinuncia, in ambito penalistico, dovrebbe essere assunta con l’assistenza di un avvocato.

7. Obblighi di speciale collaborazione del contribuente e diritto al silenzio: la cooperazione “di secondo grado”: un equilibrio delicato e proporzionato

Venendo a chiedersi dove e in che termini e limiti possa venire in gioco un problema di riconoscimento del diritto a non cooperare alla propria incriminazione, va rilevato che la materia tributaria è irta, fitta, ricca di oneri e obblighi di collaborazione. Vengono subito in mente l'obbligo di dichiarazione (dei redditi, ecc.), di autoliquidazione, di versamento, di tenuta della contabilità, e così via. La presenza di tali obblighe costituisce una peculiarità del diritto tributario che va attentamente considerata. In primo luogo, va subito rilevato che non confliggono e non comportano un problema di possibile conflitto con il diritto al silenzio tutte le condotte di collaborazione che si pongono a monte di una possibile violazione. S’intende fare riferimento al fatto che una grandissima parte degli obblighi di collaborazione previsti in materia tributaria sono volti, semplicemente, a far rilevare, a far constare, a far a emergere la propria ricchezza. Si tratta di obblighi che trovano il loro fondamento, evidentemente, nell’articolo 2 della Costituzione, che impone l' adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale, specificato poi dall' articolo 53. Tra questi doveri si colloca il dovere di partecipare e concorrere alla spesa pubblica in ragione la propria capacità contributiva, cui sono correlati obblighi strumentali di collaborazione. Rispetto al concorso alla spesa pubblico, l'obbligo di dichiarare la propria ricchezza (e l’insieme degli obblighi prodromici, ad esempio la tenuta della contabilità, ecc.), evidentemente, assume carattere strumentale (la dichiarazione è funzionalizzata al pagamento). Oltre a trovare copertura negli articoli 2 e 53 della Costituzione tali obblighi trovano copertura (e limite), come è ovvio, nell’articolo 23 Cost., nel senso che debbono essere previsti dalla legge. Rispetto a tali obblighi di cooperazione, però, non essendoci ancora stata una violazione, non c'è, per definizione, alcun problema di compatibilità con il diritto al silenzio. Detto in altro modo, il diritto al silenzio è il diritto di non cooperare alla propria incriminazione: l’ipotetica aspirazione a nascondere la propria ricchezza rispetto all'imposizione opererebbe su un piano completamente diverso in quanto essa non corrisponderebbe ad alcun diritto: al contrario rivelare la propria ricchezza, liquidare le imposte, pagare spontaneamente, allo stato attuale della evoluzione dell’ordinamento, sono doveri attuativi di valori costituzionali, cioè l’esatto opposto di obblighi in conflitto con diritti fondamentali dei soggetti. Il diritto al silenzio non è pertanto, né può essere, in alcun modo, uno scudo per sottrarsi ai propri obblighi di solidarietà. Il problema del diritto al silenzio non si pone, quindi, è ovvio, rispetto agli obblighi dichiarativi e strumentali all’adempimento dei doveri tributari primari, ma si pone a valle: cioè per gli eventuali obblighi di collaborazione al controllo dell'avvenuto adempimento dei propri obblighi. Se l’ordinamento tributario prevede degli obblighi di cooperazione ai controlli contro se stessi sono questi, a differenza dei primi, a poter confliggere con il diritto al silenzio, in quanto obblighi di collaborazione all'accertamento della commissione di eventuali violazioni proprie, già ipoteticamente avvenute.
Si potrebbero definire questi obblighi di cooperazione come obblighi di cooperazione di secondo grado (o al quadrato), nel senso che si tratta di obblighi di cooperazione per verificare se… si sia cooperato a monte. In questo caso, non sembra esservi dubbio che si tratterebbe di partecipazione a un procedimento che può comportare la propria incriminazione per il contribuente e, quindi, potenzialmente siamo all'interno di una zona che potrebbe assumere rilevanza quanto al diritto al silenzio. Poiché all’inadempimento dei debiti tributari conseguono, a volte sanzioni penali, a volte sanzioni amministrative, ma comunque sanzioni con funzione punitiva, ci troviamo anche all'interno dell’area di rischio rispetto alla quale il diritto al silenzio può eventualmente venire in considerazione. Tra i due “gradi” di collaborazione (primo grado: obblighi di ostensione della propria ricchezza, liquidazione del tributo, versamento del tributo; secondo grado obblighi di cooperazione alla verifica dell’adempimento degli obblighi di primo grado) c’è un vero e proprio steccato concettuale. Essi non sono infatti soggetti allo stesso statuto di regole e limiti. Ai primi si applicano i principi di legalità e proporzionalità. Ai secondi, che sono a valle di illeciti, oltre a legalità e proporzionalità, si deve applicare anche il limite del diritto al silenzio (che è, esattamente, il diritto di non cooperare, dopo la violazione, alla scoperta o prova della violazione). Qui si inserisce allora un passaggio alquanto delicato, sottile, ma importante. Questi due piani nitidamente distinti dovrebbero mantenersi, in effetti, distinti. Una cosa è il momento della collaborazione, un’altra il suo oggetto. Detto altrimenti, tale distinzione si perderebbe se si ritenesse che il diritto al silenzio limiti non le condotte di collaborazione successive all’illecito (come è imposto dal contenuto e dalla funzione di tale diritto), ma solo le condotte di collaborazione aventi ad oggetto le prove dell’illecito formatesi dopo. Fuor di metafora, si perderebbe la doverosa distinzione di piani e si sacrificherebbe in modo non giustificato una significativa porzione del diritto al silenzio se si ritenesse doveroso consegnare all’Accusa dopo l’illecito prove formatesi prima (ovvero, si riteneresse consentito non consegnare solo quelle successive). Una tale impostazione, se non ci inganniamo, trascurerebbe che una cosa è il dovere (in forza degli artt. 2, 53 e 23 Cost.) di collaborare a ostendere la propria ricchezza prima della violazione (ad esempio documentando, in fatture, contabilità, annotazioni, ecc. e dichiarando), un’altra cosa aiutare a scoprire se si è commessa una violazione, dopo che la violazione è stata commessa. Il fatto che si sia tenuti a essere buoni e diligenti contribuenti, non implica la confessione coatta della propria evasione fiscale, così come nemmeno il dovere di non uccidere i propri simili non implica il dovere di confessare gli omicidi o consegnare alla Polizia o al Pubblico Ministero la pistola fumante. Fuor di metafora, anche quando questa collaborazione di secondo grado riguardi cose, prove, contabilità, fatture, formate prima, la condotta collaborativa sarebbe il consegnare le prove, che è condotta successiva e distinta rispetto al costituire le prove. La “consegna”, ancorché di prove antecedenti (doverosamente precostituite, in adempimento di un dovere legale e proporzionato) è cosa diversa, autonoma e successiva rispetto alla costituzione della prova (fatturazione, annotazione contabile, ecc.). Il fatto che la prima condotta sia doverosa non implica affatto che lo sia la seconda, anzi la seconda è proprio l’oggetto del diritto al silenzio. Una diversa impostazione costituirebbe, a nostro umile avviso, uno slittamento logico e una soluzione non perfettamente proporzionata. Che tali considerazioni siano corrette, a rigore, sempre a nostro umilissimo avviso, sembra confermato dal fatto che nessuno, riteniamo, ipotizzerebbe, nel simmetrico campo penale, dove tutto risulta più immediato e immediatamente percepibile, che l’indagato possa, in generale, tacere al PM o al giudice e omettere di rivelare elementi della propria colpevolezza, ma sarebbe, invece e in particolare, obbligato a consegnare tutte le tracce e prove della sua colpevolezza, se … storicamente formatesi prima della violazione – o addirittura prima della richiesta del PM o giudice!! Ciò implicherebbe, per esemplificare in modo concreto, il dovere dell’assassino di consegnare spontaneamente il proprio telefono cellulare per far constare il contenuto delle proprie chat con la vittima, ovvero, se attivi i sistemi di geolocalizzazione, verificare i log dei propri spostamenti. O, meglio ancora, con maggiore aderenza al simmetrico campo tributario, che l’autista di linea che usi il pullmann per investire la moglie sarebbe punibile (non solo per aver ucciso la moglie, non solo se eventualmente non avesse installato o attivato il cronotachigrafo, per non averlo fatto, ma anche) se non consegnasse il cronotachigrafo a chi lo accusa (o giudica). Per chi condivida tali premesse, risulta allora delicato e suscettibile di attenzione un inciso, in obiter, della recente sentenza della Corte Costituzionale in tema di diritto al silenzio, che parrebbe in effetti e alla lettera escludere il diritto al silenzio, per tutte le prove precostituite addirittura prima della richiesta di collaborazione. Tale limitazione appare a un tempo cospicua e non proporzionata.

8. Diritto al silenzio e sanzioni tributarie: uno screening di compatibilità

Possiamo allora considerare quali conseguenze giuridiche sono previste per la omessa cooperazione durante i controlli amministrativi e tributari. In primo luogo sono previste sanzioni punitive. Vi è innanzitutto, per le imposte sui redditi e per l’IVA, una sanzione amministrativa di generale applicazione, residuale, prevista all'articolo 11 del d.lgs. n. 471/1997. Una sanzione pecuniaria nell’importo minimo di 250 € e massimo di 2000 € per chi ometta di rispondere alle richieste istruttorie dell’Agenza delle Entrate. Questa è sicuramente una sanzione punitiva (per vero di non elevata entità, rispetto ai casi più gravi) prevista per l'omessa cooperazione che può entrare significativamente e realisticamente nel fuoco del possibile conflitto con il diritto di tacere. Per condotte, in senso lato, di omessa cooperazione durante il controllo possono essere anche previste sanzioni diverse. Per esempio, la sanzione penale per il caso di occultamento o distruzione delle scritture contabili (articolo 10 del decreto legislativo 74 del 2000) oppure, a partire dal 2011, è stata prevista espressamente la possibile applicazione dei reati di falso previsti dal codice penale per le falsità commesse durante i controlli fiscali. In questi casi abbiamo sicuramente sanzioni punitive, addirittura di tipo penale, per condotte di mancata collaborazione durante il controllo fiscale, e si tratta di sanzioni più significative di quella amministrativa residuale sopra citata. Per quanto riguarda, innanzitutto, il reato di cui all'articolo 10 del decreto legislativo 74 del 2000, va detto che le condotte di distruzione delle scritture contabili non sembrano creare una frizione rispetto al diritto al silenzio perché, come abbiamo premesso, scriminate dovrebbero essere soltanto le condotte di omessa collaborazione, cioè condotte di natura omissiva. La distruzione di documento è qualcosa di ben più ampio che non la semplice omissione e quindi non appare coperta dal diritto al silenzio. Un poco più problematica è, invece, la configurazione delle condotte di occultamento. In effetti, l'occultamento, in quanto tale, dovrebbe essere inteso come una condotta positiva ulteriore rispetto a quella di non fornire, non rivelare dove si trovino, i documenti o gli atti richiesti. Su questa premessa si potrebbe ritenere la fattispecie non problematica rispetto al diritto al silenzio: per realizzare tale delitto, in questa tesi, il contribuente non si limita a non collaborare ma fa qualcosa di positivo per ostacolare l’indagine, cioè va a spostare, a nascondere le scritture contabili, dalla loro collocazione originaria e fisiologica a una clandestina e anomala. In termini pratici, tuttavia, in questi casi il crinale è un po’ più sottile. Occorre infatti domandarsi se nell’ipotesi in cui non si trovino le scritture contabili e il contribuente, richiesto di fornirle, rifiuti o taccia, ciò basti per ipotizzare una condotta di occultamento. Ovvero, in che misura l'occultamento è semplicemente rilevabile dal fatto che le creature contabili “non si trovano”? È sufficiente che il contribuente non le fornisca o bisogna positivamente dimostrare che il contribuente le ha spostate rispetto a un luogo “fisiologico”? Da un punto di vista di principio solo in questo secondo caso si potrebbe ritenere esistente una condotta positiva, ulteriore rispetto alla semplice mancata collaborazione.
Ne consegue che le condotte di occultamento sono piuttosto borderline rispetto alle condotte di mera omessa collaborazione e da verificare attentamente. Similmente, non sembrano, almeno in linea di principio, andare a confliggere con la portata del diritto al silenzio le sanzioni previste per l'eventuale commissione di delitti di falso durante i controlli. Un delitto di falso, falsificare la realtà è, evidentemente, qualcosa di più che semplicemente omettere di cooperare. Tutte le volte che, quantomeno, ci sia una falsità positiva, ideologica o materiale, la condotta va al di là della semplice omessa collaborazione. Tuttavia, anche qui può ipotizzarsi una possibile area problematica. Essa ricorrerebbe se si ritenesse sussistere il reato di falso non solo nelle condotte di falso positivo, ma anche nelle condotte di reticenza: se si potesse incriminare per falso il fatto di non dire tutta la verità.

9. Diritto al silenzio e aggravi procedimentali per il contribuente non collaborativo: un equilibrio instabile

Non meno problematico è, poi, se non possano venire in considerazione, quando si riflette sulla portata del diritto al silenzio, anche altre conseguenze, sfavorevoli ma non propriamente sanzionatorie, applicabili in base alle norme dell'ordinamento al soggetto che non collabori. Il contribuente che non collabori, in effetti, può andare incontro a conseguenze sfavorevoli anche ulteriori e diverse rispetto alle sanzioni punitive che abbiamo appena esaminato. Una prima conseguenza, ordinariamente classificata come di tipo sfavorevole per l'omessa collaborazione, potrebbe ravvisarsi nei casi previsti dalla legge di assoggettamento del contribuente al cosiddetto accertamento induttivo. Ci sono casi in cui tale accertamento consegue a condotte di omessa collaborazione nel controllo (esempio, le omesse risposte di cui alla lettera d bis dell’art. 39, comma 2 d.p.r. 600/1973). L'accertamento c.d. induttivo extracontabile consegue alla prescrizione secondo la quale, in presenza di determinate circostanze, è possibile determinare la ricchezza del contribuente sulla base di uno standard probatorio attenuato. Come noto, nei casi di accertamento induttivo è prevista la possibilità di accertare e determinare la ricchezza sulla base, alla lettera – stabilisce la legge, di presunzioni prive dei requisiti di gravità precisione e concordanza.
L'inquadramento della portata precettiva di tale disposizione è tradizionalmente piuttosto difficoltoso, ma possibile, ancorché nella giurisprudenza tali profili siano tradizionalmente pressoché taciuti, al di là di formulette pigre e clausole di stile. Un significato certo della disposizione è che essa quantomeno abbracci la possibilità di una determinazione meno puntuale, meno specifica, quindi più approssimata, della ricchezza. Fermo restando che la ricchezza accertata deve essere più plausibile di quella dichiarata, dovrebbero essere ammesse determinazioni assistite da un minore grado di plausibilità e precisione che nel caso ordinario. Presunzioni non gravi precise e concordanti implica una attenuazione dello standard ma sul punto occorre chiarirsi. In primo luogo, tale attenuazione non può oltrepassare due limiti invalicabili: a) il valore accertato non può avere una plausibilità inferiore a quella del valore dichiarato; b) il valore accertato non può avere una plausibilità inferiore ad altri valori accertabili inferiori. Questa attenuazione concerne gli standard di precisione, di analiticità e la comparazione di plausibilità nei limiti appena detti. Ebbene, tale attenuazione appare proporzionata e ragionevole quando sussista un contesto probatorio più debole. Un primo possibile inquadramento di tale istituto è, insomma, assumere che si tratti di una soluzione normativa proporzionata alla logica probatoria fisiologica: lo standard probatorio dipende dal contesto. La prova è qualcosa di correlato e determinato in funzione del contesto conoscitivo possibile: se il contesto conoscitivo è ricco, lo standard probatorio è elevato, e quindi è esigibile anche una determinazione puntuale, analitica e argomentativamente solida. Se il contesto probatorio è oggettivamente debole, non debole per negligenze dell’organo istruttorio (può essere debole per effetto della condotta del soggetto accertato, ma non necessariamente), la determinazione può essere più approssimata, purché sempre nei limiti di una plausibilità adeguata (come sopra si rilevava non si accerta un ricavo se lo si determina in un valore meno probabile, di quello dichiarato o di altri). In questo senso l'accertamento induttivo, da un lato è ragionevole e proporzionato, dall’altro non ha una natura sanzionatoria: esso è, semplicemente, espressione della regola per cui l'istruttoria si fa con gli elementi a disposizione. Se invece l'accertamento induttivo fosse inteso nel senso che, a fronte delle condotte di omessa collaborazione del contribuente, sarebbe consentito un accertamento meno preciso di quello comunque possibile sulla base del contesto, una interpretazione secondo la quale l'accertamento induttivo punirebbe con l’approssimazione nella determinazione della ricchezza situazioni nelle quali la determinazione della ricchezza potrebbe essere fatta comunque in modo preciso e più favorevole, da un lato si assegnerebbe a tale accertamento una funzione punitiva, dall'altro insorgerebbero diversi problemi, non solo quanto al profilo del diritto al silenzio. In effetti, una determinazione inesatta per eccesso della ricchezza effettiva da assoggettare a tassazione che non sia giustificata dal contesto, quando invece sia possibile un accertamento preciso, nonostante la condotta di omessa la collaborazione, sovrapporrebbe alla logica fiscale, fondata sull’art. 53 Cost., la predetta logica punitiva, adducendo agli istituti rationes spurie, in modo decisamente censurabile. Al di là di ciò, che appartiene al piano sistematico, va rilevato che, a seguire tale via, la frizione rispetto al diritto al silenzio sarebbe evidente laddove l’accertamento induttivo consegua alla omessa collaborazione: si sarebbe sostanzialmente puniti (addirittura con una imposta maggiorata!) per non aver cooperato alla propria incriminazione.

10. Diritto al silenzio, preclusioni probatorie tributarie e giusto processo: un’area critica

Un ultimo settore di potenziale frizione rispetto al diritto al silenzio, delicato e cui è opportuno dedicare un’adeguata attenzione, anche alla luce della innovativa giurisprudenza internazionale, concerne quella conseguenza giuridica per le condotte di omessa cooperazione rappresentata dalla cosiddetta preclusione probatoria. Si intende far riferimento alla regola in virtù della quale dati, notizie, atti e documenti che non sono stati offerti in collaborazione durante la fase delle indagini amministrative non possono più essere utilizzati. Di qui la preclusione per il contribuente all’utilizzo nel suo interesse di quei dati, anche davanti al giudice. Ciò comporta che, per esempio, una scrittura contabile, un contratto, un documento che abbia un contenuto misto (contenga elementi sfavorevoli e favorevoli) non può essere utilizzato nel proprio interesse, in giudizio, se non è stato prodotto durante le indagini (ove potevano scaturirne elementi contro di lui utilizzabili dall’organo di indagine). Il soggetto, insomma, è posto davanti a questa alternativa: se vuole trarne gli effetti favorevoli davanti al giudice deve offrirlo, anche come elemento contro di sé, all’investigatore. Si può esprimere questo concetto anche in un altro modo: non si possono utilizzare fonti di prova miste, nella parte favorevole, se non cooperando alla propria incriminazione, ostendendole anche per un utilizzo sfavorevole. È da verificare, come approfondimento, se questo impasse, di fatto, non potrebbe essere contenuto o superato, almeno quando la fonte sia scorporabile, cioè quando un documento o una scrittura possa essere prodotto solo separando le parti favorevoli. Sul punto vale subito la pena di rilevare che il solo fatto di presentare una documentazione parziale è, comunque, una condotta indiziante (risultando evidente, se la selettività della produzione è palese, che “si nasconde qualche cosa”). In questo caso il problema che segnaliamo si presenterebbe in forma attenuata. Dal punto di vista tecnico, questo regime di preclusione non comporta un obbligo di collaborazione e non comporta neanche, tecnicamente, una sanzione: esso propriamente si configura quale onere correlato ad una preclusione: una fonte di prova, un mezzo di prova non può essere utilizzato o, meglio, può essere utilizzato per un risultato a sé favorevole solo se si adempia l'onere di metterlo a disposizione del soggetto che effettua le indagini, quella che potremmo definire la Accusa. Si tratta di una limitazione cospicua rispetto alle strategie e le facoltà difensive e si tratta di un regime che riguarda condotte e obblighi successivi alla commissione di una ipotetica violazione. Questa disciplina implica che può essere utilizzato a proprio difesa soltanto l'elemento che sia stato condiviso durante le indagini con l'autorità incaricata di formulare l'accusa o meglio di effettuare le indagini per formulare poi, in termini penalistici, l'accusa. Per questo, pur non avendo carattere di sanzione in senso tecnico, può ad essa riconoscersi la natura di sanzione impropria. Si tratta di una limitazione che, all’evidenza, deve essere attentamente meditata perché di legittimità dubbia almeno sotto un duplice ordine di profili. Da un lato, perché essa costituisce apparentemente una grossa lesione, quantomeno una grossa limitazione delle facoltà difensive: non è possibile difendersi con quel determinato mezzo o fondandosi su quella determinata fonte o mezzo di prova se non la si è offerta prima all’accusatore durante le indagini. È ben vero che la Agenzia delle Entrate non è il Pubblico Ministero, ma se esiste, come esiste, il parallelismo tra diritto penale e diritto sanzionatorio amministrativo (come impone la Corte di Strasburgo, tra le altre), esiste un parallelismo tra l’indagine amministrativa (che in caso di esito positivo sfocia in sanzioni criminali) e quella penale, cui devono tendenzialmente pertenere garanzie parallele. Per dirlo più icasticamente, in una logica penalistica questa sarebbe una soluzione decisamente insostenibile: equivarrebbe a dire che non possono essere prodotte in dibattimento prove che non si siano offerte al pubblico ministero durante la fase delle indagini. Dall’altro lato, e si tratta di considerazioni che raddoppiano o elevano al quadrato le perplessità appena esposte, non minori dubbi sorgono se si considera un punto di vista complementare. A fianco della limitazione delle facoltà difensive si introduce una notevolissima limitazione alla cognizione del giudice, perché il giudice non potrebbe utilizzare per conoscere la verità atti e documenti, pur ritualmente e tempestivamente prodotti nella fase processuale, in quanto non messi a disposizione durante la fase amministrativa. Se si può giustificare (anzi, si deve giustificare) che il giudice non possa conoscere nell’interesse della Amministrazione degli elementi che l'amministrazione non ha raccolto durante la fase amministrativa, nel senso che non si può ammettere una integrazione postuma delle negligenze istruttorie (che costituiscono veri e propri vizi della funzione) da parte dell’organo di indagine, non esiste alcuna simmetria rispetto alla parte privata. Essa è il soggetto che subisce l'indagine. Tra questi due soggetti non esiste assolutamente alcuna ragionevole simmetria: da un lato c'è un soggetto incaricato di effettuare delle indagini con il dovere di indagare con piena diligenza, dall'altro c'è un soggetto che, al contrario, subisce le indagini e che, se ha certamente il dovere di cooperare nell’adempimento degli obblighi primari di solidarietà sociale (contabilizzare, dichiarare, liquidare, versare), non ha certamente l’obbligo di cooperare per far scoprire le proprie violazioni, anzi, ha il diritto esattamente opposto, riconosciuto dalla giurisprudenza internazionale. Sarebbe pertanto del tutto errato porre sullo stesso piano la negligenza o l'incompletezza dell'istruttoria da parte di chi indaga (vizio della funzione pubblica) e la reticenza del reo: per il primo soggetto ci sono dei doveri, per il secondo dei diritti fondamentali. Ne consegue che le preclusioni previste dall’art. 32 d.p.r. 600/1973, previste dal legislatore in attuazione di un ampio e pervasivo dovere di buona fede e collaborazione, esteso alla fase istruttoria, sono fortemente a rischio di contrasto col diritto di non cooperare alla propria incriminazione sancito dalle Corti Internazionali.

Prof. avv. Alberto Marcheselli Ordinario Diritto Tributario Università Genova, avvocato tributarista cassazionista, Presidente CAT Liguria

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