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Crisi aziendale e omesso versamento Iva e ritenute Irpef nel quadro della concezione tripartita del reato

Prof. Avv. Giuseppe Ingrao

Penale Tributario

1.Crisi aziendale, omesso versamento dei tributi e utilizzo delle risorse finanziarie residue per il pagamento dei dipendenti.

Sul tema della rilevanza della crisi aziendale ai fini della “non punibilità” delle condotte di omesso versamento di ritenute Irpef e di Iva (sanzionate penalmente dagli artt. 10 bis e 10 ter, D. Lgs. n. 74/2000), come è noto, si è sviluppato un interessante e a volte confuso dibattito giurisprudenziale. Nonostante l’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione con le sentenze n. 37424 e n. 37425 del 2013, negli ultimi anni si sono susseguite numerose pronunce che sono approdate a soluzioni non sempre uniformi, anche se prevalentemente orientate a ritenere configurato il reato in tutti i suoi elementi. Segnaliamo in particolare due recenti pronunce che si sono occupate del caso in cui l’imprenditore o l’amministratore con le residue somme di denaro disponibili abbia provveduto a corrispondere la retribuzione ai dipendenti, lasciando appunto insoddisfatto il debito verso l’erario. La prima sentenza - Cass. n. 6737/2018 - afferma che il convincimento dell’amministratore della società di dover pagare i dipendenti per consentire il loro sostentamento possa escludere il dolo; la seconda - Cass. n. 50007/2019 - sostiene, invece, che la corresponsione delle retribuzioni ai dipendenti non faccia venir meno la rappresentazione e la volontà di omettere il versamento del tributo (e quindi il dolo), né tanto meno possa essere invocata quale causa di forza maggiore che esclude la punibilità. Queste pronunce ci danno lo spunto per proporre un inquadramento sistematico degli argomenti oggetto di discussione alla luce della concezione tripartita della struttura del reato, ossia la tipicità, l’antigiuridicità e la colpevolezza. Si deve segnalare, però, che la concezione tripartita è stata avversata da parte della dottrina penale in quanto, pur rappresentando un notevole sforzo per la sistemazione razionale degli elementi del reato, innanzitutto trascurerebbe il fatto che “la vera essenza del reato non è nei singoli componenti di esso e neppure nella loro addizione, ma nel tutto e nella sua intrinseca unità”. In questa prospettiva, si è rilevato che converrebbe tornare alla bipartizione fra elemento oggettivo ed elemento soggettivo, la quale “oltre ad avere una base logica granitica risponde, e nel miglior modo, alle esigenze della scienza del diritto, perché consente di esaminare in modo completo ed ordinato la materia che costituisce il contenuto del reato”. Anche autori contemporanei hanno avvertito che “la formula più adatta ad esprimere il necessario equilibrio tra approccio analitico e immanenza della complessiva cifra di disvalore del reato sia quella che distingue il profilo oggettivo dal profilo soggettivo dell’illecito”.
In ogni caso, senza indugiare sulle differenti teorie relative alla struttura del reato, riteniamo che la concezione tripartita sia quella più idonea a soddisfare le esigenze di indagine per i reati che ci occupano. Non a caso anche i sostenitori della teoria bipartita “non intendono mettere in discussione i meriti garantistici di razionalità trasparenza e controllabilità che si attribuiscono alla teoria tripartita”, ma “si sono soprattutto limitati a sostituire il termine aspetti a quello di elementi ed hanno finito sempre per procedere ad un esame logico analitico dei vari aspetti del reato”. In definitiva, i fautori della concezione bipartita hanno seguito lo stesso procedimento di coloro che sostengono che alla sintesi unitaria si possa pervenire solo dopo una analisi.
Ciò posto, con questo scritto, muovendo dall’esistenza del fatto umano (l’omesso versamento dell’Iva dichiarata per un importo superiore alle soglie di punibilità previste dalla norma), verificheremo innanzitutto se la crisi aziendale economica e finanziaria possa di per sé integrare gli estremi di una causa di forza maggiore; successivamente, qualora l’amministratore di un’impresa che attraversi una crisi aziendale economica e di liquidità paghi le retribuzioni ai lavoratori dipendenti, se si possa configurare un’esimente per “stato di necessità”, ovvero se sia ipotizzabile la mancanza del dolo. La forza maggiore, lo stato di necessità e la mancanza di dolo, come diremo meglio in avanti, incidono rispettivamente sulla tipicità, sulla antigiuridicità e sulla colpevolezza, determinando in ogni caso l’impunità dell’agente.
Ci preme, infine, evidenziare preliminarmente che la giurisprudenza pronunciatasi sul tema ha spesso esaminato le argomentazioni difensive con un approccio poco attento alla struttura del reato. Ed invero - limitando l’attenzione alle predette sentenze - si afferma che “se vengono inseriti argomenti difensivi quali la forza maggiore e lo stato di necessità, il motivo sfocia comunque nell’asserita carenza dell’elemento soggettivo” (Cass. n. 6737/2018), quando invece la forza maggiore e lo stato di necessità, come accennato, incidono su elementi differenti del reato. I giudici aggiungono poi che “la Suprema Corte ha riconosciuto che l’omesso versamento in uno stato di crisi può non integrare il reato, o sotto il profilo dell’elemento soggettivo o sotto il profilo della esimente rappresentata dalla forza maggiore”, con ciò smentendo quanto rilevato in precedenza, in quanto si ammette che la forza maggiore potrebbe non incidere sull’elemento soggettivo. E’, tuttavia, comprensibile che i giudici non si preoccupino oltremodo di proporre un esatto inquadramento teorico delle argomentazioni esaminate: la funzione del processo, infatti, è quella di risolvere una controversia e non certo di sistematizzare la materia trattata. Le ambiguità riscontrabili nella giurisprudenza sono, peraltro, ancor più giustificabili quando già in dottrina, come accennato, si avversano differenti ricostruzioni teoriche.

2.Le ragioni dell’inserimento nel D. Lgs. n. 74/2000 dei reati di omesso versamento Iva e ritenute Irpef.

Prima di soffermarci sul tema dell’incidenza della crisi aziendale sui reati di omesso versamento Iva e ritenute Irpef, è opportuno richiamare brevemente la ratio dell’inserimento di tali fattispecie nel decreto legislativo n. 74/2000 in un’epoca successiva alla sua approvazione. Al proposito occorre evidenziare che, nell’ottica di disporre la sanzione penale quale extrema ratio, con la riforma di fine anni Novanta (Legge delega n. 205/1999) si è ritenuto di circoscrivere la reazione punitiva alle ipotesi di mancata presentazione della dichiarazione tributaria ai fini delle imposte sui redditi e dell’Iva, ovvero di presentazione della dichiarazione con indicazioni di imponibili inferiori a quelli effettivi, in presenza di condotte fraudolente o di tributi evasi di ammontare molto elevato. Tali condotte risultavano, infatti, fortemente offensive per gli interessi erariali. L’omesso versamento dei tributi connesso a fatti imponibili regolarmente dichiarati, invece, non era ritenuto socialmente deplorevole al punto tale da legittimare una reazione penale, ritenendosi sufficiente la sanzione amministrativa. Sennonché la crescita del fenomeno dell’omesso versamento di ritenute fiscali Irpef da parte di sostituti di imposta, che spesso nel volgere di poco tempo “sparivano” agli occhi del Fisco (c.d. imprese apri e chiudi), ha inizialmente indotto il legislatore ad intervenire con la legge n. 311/2004, inserendo la fattispecie di cui all’art. 10 bis. Essendo in quegli anni venuti alla ribalta numerosi casi di omesso versamento dell’Iva dichiarata connessi ad operazioni di c.d. frodi carosello, il legislatore nel 2006 ha, altresì, introdotto il reato di omesso versamento dell’Iva di cui all’art. 10 ter. Posto che gli omessi versamenti di tributi non dichiarati, ovvero di quelli scaturenti dalla rettifica degli imponibili dichiarati (cioè il mancato versamento di tributi richiesti con gli avvisi di accertamento), possono determinare la configurazione dei reati dichiarazione omessa, nonché infedele o fraudolenta, le disposizioni introdotte dopo qualche anno dall’entrata in vigore della riforma sono qualificabili come “norme di chiusura”, la cui logica è quella di far rientrare nell’area penale quelle condotte di omesso versamento particolarmente riprovevoli (Iva e ritenute fiscali Irpef) in relazione alle quali la presentazione della dichiarazione appariva un adempimento posto in essere proprio per evitare conseguenze penali.
Il problema emerso sin dalle primissime applicazioni degli art. 10 bis e 10 ter è stato, tuttavia, quello di coinvolgere soggetti le cui condotte poco avevano a che fare con gli intenti fraudolenti che la normativa intendeva scoraggiare e reprimere. La gran parte dei procedimenti penali, infatti, ha riguardato amministratori di imprese che svolgevano un’attività economica effettiva, per nulla collegata ad operazioni di frodi carosello, o comunque senza che vi fosse una precostituita intenzione di chiudere l’attività al fine di sottrarsi al versamento delle ritenute Irpef. In questi casi, invero, l’omesso versamento dei tributi era connesso ad una crisi di liquidità, dovuta ad un perdurante ciclo economico negativo, che gravava sull’azienda. Il notevole numero di processi che si è registrato con riguardo a questa tipologia di reati, è, peraltro, dovuto al fatto che l’omesso versamento di tributi dichiarati, a differenza delle condotte di dichiarazione fraudolenta, infedele od omessa, è agevolmente accertabile dal Fisco mediante procedure telematiche di controllo. E’ evidente che, ove il campo di applicazione delle norme fosse stato circoscritto ai casi di omessi versamenti di Iva e ritenute Irpef caratterizzati da condotte fraudolente, le questioni su cui si è dibattuto in giurisprudenza in questi anni non sarebbero emerse. Ed infatti, la crisi economica e di liquidità può incidere solo su aziende che svolgono un’attività effettiva (e non su “società cartiere”) e parimenti il problema del pagamento dei dipendenti si presenta solo nel caso in cui sussiste un’attività imprenditoriale.

3.L’impossibilità di considerare la crisi economica quale causa di forza maggiore.

Ciò posto, come anticipato, la prima riflessione che occorre svolgere è se la crisi finanziaria dell’azienda possa qualificarsi come causa di forza maggiore che determina la non punibilità del soggetto secondo quando prevede l’art. 45 del codice penale. Mancando una definizione normativa, si è sostenuto che la forza maggiore evoca un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile che determina l’assoluta (e non la semplice difficoltà) ed incolpevole impossibilità dell’agente di uniformarsi al comando (vis cui resisti non potest). Un simile evento annulla la signoria del soggetto sui propri comportamenti (non agit sed agitur). In sostanza, la causa forza maggiore impedisce di considerare l’azione criminosa come opera propria di un determinato soggetto; la persona è costretta a comportarsi in modo difforme da quanto voluto. Se la volontà dell’agente è coartata in maniera assoluta, non sussiste alcun margine di scelta in merito al comportamento da seguire. In questa prospettiva, se sussiste una causa di forza maggiore viene meno la tipicità della condotta (primo elemento del reato), cioè la corrispondenza tra il fatto umano e lo schema legale di una specifica figura di reato. Peraltro, come opportunamente notato, il fatto stesso che l’art. 45 c.p. sia inserito all’interno della struttura del reato, prima dell’errore e delle scriminanti, conferma l’assunto che la forza maggiore incida sulla tipicità del fatto. Vi è, comunque, in dottrina chi riconduce la forza maggiore al tema del dolo o della colpa e quindi alla colpevolezza, terzo elemento del reato. Secondo questa visione, se si configura una causa di forza maggiore, “manca già in partenza la precondizione di un addebito a titolo di dolo o di colpa; precondizione cioè rappresentata dalla possibilità di considerare l’azione criminosa come opera propria di un determinato soggetto”. Tralasciando la questione dell’inquadramento teorico della forza maggiore, anche perché essa, unitamente al caso fortuito, è stata definita “istituto senza patria” per la sua controversa collocazione sistematica, notiamo che la giurisprudenza penale pronunciatasi con riguardo ai reati tributari, pur affermando che la crisi economica possa integrare un’ipotesi di forza maggiore, ha assunto una posizione estremamente rigida in merito alla dimostrazione che tale crisi abbia determinato l’assoluta ed incolpevole impossibilità dell’agente di uniformarsi al comando. Si è rilevato, in particolare, che la crisi economica elimina il carattere illecito dell’omesso versamento solo se preesista rispetto al momento in cui l’imprenditore è chiamato a versare il tributo. Pertanto, nessun rilievo è stato dato ad una crisi di liquidità (inesistenza di somme depositate sul conto corrente alla data di scadenza del pagamento dei debiti tributari) di carattere temporaneo. In quest’ultimo caso, per fare fronte alla assenza di denaro, si potrebbe cedere un elemento dell’attivo patrimoniale, ovvero ricorrere al credito bancario ovvero ad un finanziamento dei soci o del titolare. Se, invece, la carenza di liquidità ha origine in una crisi economica risalente nel tempo, vi sarebbero margini per dimostrare la non imputabilità all’imprenditore medesimo della crisi, nonché la circostanza che detta crisi non poteva essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso ad idonee misure. Sul punto, tuttavia, le Sezioni Unite con le sentenze n. 3724 e 37525 del 2013 e la successiva giurisprudenza hanno affermato che il mancato accantonamento dell’Iva incassata o delle ritenute Irpef operate rende di fatto irrilevante quanto effettuato dall’imprenditore per porre rimedio alla crisi aziendale. Grazie all’accantonamento, l’imprenditore evita di trovarsi in una situazione di impossibilità ad assolvere il debito fiscale alla scadenza. La tesi giurisprudenziale che teorizza l’obbligo di accantonare l’Iva addebitata in fattura, ovvero le ritenute fiscali Irpef operate, è stata oggetto di accese critiche. Si è detto in particolare che la struttura del reato omissivo si concreta nel semplice mancato adempimento dell’obbligo, essendo richiesta esclusivamente la condotta del “non fare” nel momento di consumazione del reato; non interessa, quindi, la condotta del soggetto precedente al momento di scadenza dell’obbligo di pagamento. Si è rilevato ancora che un simile addebito troverebbe fondamento in un comportamento colposo più che doloso, in quanto frutto di una gestione aziendale imprudente, ed in ogni caso si sposterebbe in un momento antecedente rispetto alla scadenza del termine per il versamento, con il rischio di rimproverare al contribuente una condotta inesigibile. A ciò possiamo aggiungere che - pur ammettendo che l’accantonamento eviti la confusione tra la liquidità “sostanzialmente” nella titolarità dell’impresa (il cui ipotetico azzeramento va considerato come conseguenza del rischio di impresa), e la liquidità di cui essa è titolare solo “formalmente”, in quanto proveniente dai clienti o di spettanza dei sostituiti e specificamente destinata ad essere riversata all’erario (sulla quale invece non possono ricadere le conseguenze di una crisi finanziaria) - affermare l’obbligo di accantonamento dell’Iva e delle ritenute Irpef significa escludere automaticamente la possibilità che una crisi economica preesistente e non dovuta ad una cattiva gestione dell’impresa possa configurare gli estremi di una causa di forza maggiore (o comunque escludere il dolo per involontarietà della condotta). Vi è, però, da considerare che a volte l’imprenditore o l’amministratore non ha nulla da accantonare, come nel caso del mancato incasso delle fatture per le operazioni attive effettuate; ipotesi in cui permane, comunque, l’obbligo del versamento all’erario di quanto addebitato in fattura a titolo di rivalsa. Rileva poi il fatto che è del tutto improbabile che al momento di incasso della fattura sia possibile quantificare l’importo da accantonare, poiché l’entità dell’Iva da versare periodicamente dipende non solo da quanto addebitato a titolo di rivalsa, ma anche dall’ammontare degli acquisiti per i quali può essere esercitato il diritto di detrazione dell’Iva dovuta ai fornitori. Ed allora, sarebbe stato più ragionevole che la giurisprudenza avesse affermato che la crisi economica non possa mai rappresentare una causa di forza maggiore, in quanto quest’ultima - come detto - si ricollega ad un evento (o un’energia esterna) così radicale per cui, nonostante l’apparente conformità al tipo, la condotta dell’agente non può ritenersi configurata. Evento che, a nostro avviso, non può concretamente ricondursi ad una crisi economica. Dobbiamo sottolineare poi che assumere l’esistenza dell’obbligo di accantonamento in un apposito conto corrente delle somme dovute al Fisco a titolo di Iva e ritenute Irpef potrebbe precludere irragionevolmente ab origine la possibilità di invocare altre ipotetiche situazioni meno radicali della forza maggiore, ma che comunque consentono di giungere all’impunità dell’agente, quali un’eventuale causa di giustificazione, nonché la mancanza del dolo.

4.Inapplicabilità dell’esimente dello “stato di necessità” dovuto al pericolo attuale di un “bisogno economico”.

Assunta l’impossibilità di ricondurre la crisi economica ad un evento che annulli la signoria del soggetto sui propri comportamenti (forza maggiore), ed esclusa la sussistenza di un dovere preventivo di accantonamento delle somme da versare a titolo di Iva e ritenute Irpef, la non punibilità di tale condotta potrebbe ricondursi alla sussistenza di cause di giustificazione (c.d. esimenti) che fanno venir meno la sua antigiuridicità. L’antigiuridicità (secondo elemento del reato) si risolve nella verifica che il fatto tipico non sia coperto da cause di giustificazione connesse al complesso delle norme del sistema penale e dell’intero ordinamento giuridico. In questa prospettiva, la presenza di un’esimente annulla l’antigiuridicità di un comportamento indiziato dalla semplice conformità al tipo, rendendolo giustificato o consentito. La valutazione dell’inesistenza di antigiuridicità ha carattere oggettivo (a differenza della colpevolezza che si sviluppa sul piano soggettivo), e questa caratteristica trova riscontro nell’art. 59 c.p., il quale appunto dispone che le circostanze che escludono la pena sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute. Occorre, tuttavia, precisare che in dottrina vi è anche chi intende il termine antigiuridicità non quale mero elemento costitutivo dell’illecito, ma quale essenza stessa del reato, poiché esso si caratterizza per l’opposizione col diritto. L’antigiuridicità (o illiceità) è frutto di una valutazione su un fatto, riconoscendolo contrario all’ordinamento giuridico; valutazione che attiene a tutti i fattori sia quelli oggettivi, sia quelli soggettivi. Si segnala ancora che altra parte della dottrina nega che l’antigiuridicità rappresenti un elemento autonomo del reato, qualificando le cause di giustificazione come elementi negativi del fatto. Tali cause, in questa visione, integrerebbero le fattispecie criminose, nel senso che la loro presenza produrrebbe gli stessi effetti della mancanza degli elementi essenziali del reato. In ogni caso, la disputa circa il differente modo di considerare l’antigiuridicità è un riflesso della differente concezione (tripartita o bipartita) del reato. Orbene, pur consapevoli che con riferimento ai reati omissivi “le cause di giustificazione più frequentemente applicate sul terreno dei reati di azione non accedono altrettanto facilmente alla realizzazione di un reato omissivo: lo possono solo in presenza di circostanze assai particolari suscettive forse più di essere immaginate che non di verificarsi nella realtà”, riteniamo di dovere verificare se lo “stato di necessità” possa rappresentare una circostanza che trovi applicazione ai reati tributari di omesso versamento Iva e ritenute Irpef. Secondo quanto dispone l’art. 54 c.p., lo stato di necessità si configura quando l’agente pone in essere la condotta indiziata come criminosa per sottrarsi dal pericolo attuale e inevitabile di un danno grave alla persona. Assunto che la caratteristica di questa causa di giustificazione è data dal coinvolgimento di un soggetto estraneo alla situazione che ha determinato l’azione necessitata, la sua ratio si rinviene nel venir meno dell’interesse a punire quando il fatto sia commesso per soddisfare un bene di valore equiparabile a quello sacrificato. Ciò posto, potrebbe, invero, sostenersi che, in una situazione di liquidità ridotta dovuta alla crisi economica che attraversa l’azienda, il mancato pagamento dell’Iva dichiarata, causato dall’utilizzo delle risorse per il pagamento dei lavoratori dipendenti, configuri un’azione caratterizzata dallo stato di necessità, poiché finalizzata ad evitare che i lavoratori dipendenti si trovino senza risorse economiche per il sostentamento loro e delle loro famiglie. Sul punto, tuttavia, non si può trascurare che la giurisprudenza ha da tempo affermato che lo stato di necessità non sia applicabile nei casi di “bisogno economico”, in quanto quest’ultimo può essere fronteggiato dalla moderna organizzazione sociale con i suoi vari istituti. La necessità di assicurare ai dipendenti il sostentamento immediato con la corresponsione della retribuzione, ma anche nel futuro mirando alla prosecuzione dell’attività aziendale, non può rappresentare, quindi, “un pericolo attuale di un danno grave alla persona”. Vero è che vi sono recenti sollecitazioni della giurisprudenza di legittimità per un’interpretazione evolutiva dell’art. 54 c.p. finalizzate ad includere nel suo campo di applicazione qualsiasi “grave danno dei diritti inviolabili della persona umana”, e che tali input hanno indotto i giudici di merito a scriminare anche condotte di occupazione abusiva di immobili e di abusivismo edilizio in ragione della tutela del diritto di abitazione, ma allo stato ci sembra che, con specifico riguardo ai reati tributari, risulti molto difficile configurare l’inevitabilità del pericolo connesso al bisogno economico.

5.Il convincimento della necessità di pagare le retribuzioni per il sostentamento dei lavoratori e delle loro famiglie non determina la mancanza di dolo, ma rappresenta un movente che può essere apprezzato quale circostanza attenuante

Di fronte ad un omesso versamento Iva o di ritenute Irpef in presenza di una crisi economica preesistente, “motivato” dal fatto di aver pagato i dipendenti, al fine di escludere la punibilità non resta che indagare l’eventuale mancanza del dolo dell’agente, il quale rappresenta, come è noto, l’elemento che consente l’imputazione personale del fatto di reato all’autore. La sussistenza del dolo rientra nel giudizio di colpevolezza (terzo elemento del reato), il quale valuta quelle circostanze idonee ad alterare la capacità di autodeterminazione del soggetto, circoscrivendo la responsabilità penale nei limiti di ciò che è prevedibile ed evitabile. L’art. 43 del c.p. specifica che il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso è dall’agente “preveduto” e “voluto” come conseguenza della propria azione od omissione. La dottrina penalistica osserva che il dolo consta di due componenti psicologiche: la “rappresentazione” e la “volontà” di realizzare gli elementi costitutivi di un reato. Rappresentazione e volontà hanno punti di riferimento diversi, pertanto il dolo non è semplice previsione di realizzare gli elementi costitutivi della fattispecie penale, ma anche volontà consapevole di attuare in concreto la condotta. La volontà si deve, quindi, tradurre in atti concreti, e non sussiste quando tutto permane in uno stato ideale. Nei reati omissivi propri, sia dove sussista un evento naturalistico percepibile (i.e. l’omissione di soccorso di un ferito), sia dove la situazione tipica rifletta una fattispecie di pura creazione legislativa (i.e. l’omesso versamento di Iva o di ritenute Irpef), la ricostruzione degli aspetti contenutistici del dolo è leggermente differente rispetto a quella proposta per i reati commissivi. In merito ai reati omissivi si è, in particolare, rilevato che la “consapevolezza” di dovere agire non va riferita alle specifiche modalità di realizzazione dell’azione doverosa, ma alla implicita o generica possibilità di adempiere al dovere di condotta, e che la “volontà” è data dalla decisione di non compiere l’azione doverosa idonea e possibile.
Orbene, senza addentrarci nel complesso dibattito sulla colpevolezza, evidenziamo che i reati di omesso versamento Iva e ritenute Irpef presuppongono il dolo inteso in senso generico, che peraltro rappresenta la nozione tipica di dolo. Mancando nella fattispecie normativa l’espressione “al fine di evadere le imposte” (che caratterizza il dolo specifico), il dolo si configura quando l’agente si rappresenta e vuole realizzare gli elementi tipici del reato a nulla rilevando ulteriori finalità. In questa misura, il dolo si ritiene integrato con la consapevolezza e la volontà del contribuente di non versare alle scadenze le imposte dovute. Ed allora, essendo stata presentata la dichiarazione con un debito tributario superiore alle soglie di punibilità e non essendo effettuato il versamento alle scadenze allargate, non può dubitarsi che esista la piena rappresentazione e la volontà concreta (e non meramente ideale) di realizzare tutti gli elementi della condotta tipica del reato.
Sul punto, tuttavia, un orientamento della giurisprudenza (Cass. n. 6737/2018) afferma che, se un’impresa attraversi uno stato di crisi economica ed abbia una residua liquidità che destini a saldare il debito verso i dipendenti piuttosto che verso l’erario, potrebbe mancare il dolo da parte dell’amministratore. La Cassazione ha prospettato l’argomentazione secondo cui, qualora venisse accertata la sussistenza del dolo, si configurerebbe un contrasto con la carta costituzionale; si sancirebbe la punibilità del soggetto che omette di versare le ritenute fiscali, nonostante egli intendeva far fronte ad improcrastinabili adempimenti verso altri creditori, quali i lavoratori dipendenti, pure tutelati dalla Costituzione con particolare riferimento al diritto al lavoro e alla conseguente retribuzione. Nella misura in cui il pagamento degli stipendi non avviene per assicurare la continuità aziendale, ma per dotare i lavoratori dei mezzi necessari per il sostentamento personale e delle loro famiglie, secondo i giudici potrebbe venir meno il dolo, poiché esso non può essere scisso dalla “consapevolezza della illiceità della condotta che viene investita dalla volontà”. Secondo la citata giurisprudenza quando si afferma che “la scelta di non pagare prova il dolo” significa che il dolo viene integrato non dall’omesso pagamento di per sé, ma da una scelta consapevole della illiceità della condotta rappresentata dall’omesso pagamento. In questa prospettiva, la “scelta” di saldare il debito verso i dipendenti è tale solo in apparenza, in quanto il pagamento delle retribuzioni può essere frutto di una convinzione mentale per cui i lavoratori hanno bisogno dell’immediata corresponsione di somme di denaro necessarie per il sostentamento personale e delle loro famiglie. L’imprenditore, pertanto, viene a trovarsi di fronte ad un’impossibilità assoluta di adempiere il debito d’imposta, mancando quindi “la decisione di non compiere”. E tutto ciò non sarebbe compatibile con il dolo. Pur ammettendo la suggestività delle argomentazioni e del ragionamento sviluppato dal citato orientamento giurisprudenziale, che potrebbe di primo acchito far apparire plausibile il nesso tra convincimento mentale di pagare i dipendenti e assenza del dolo per l’omesso versamento di tributi, da una lettura più attenta emerge, invece, che il fatto di esser convinti di dover pagare i dipendenti è idoneo ad essere apprezzato quale mero “movente”. Ed il dolo come volontà del fatto “non va confuso col motivo o movente dell’azione delittuosa”. Pertanto, il pagamento dei dipendenti, pur se frutto di un convincimento mentale circa il loro bisogno di sussistenza, nulla toglie alla consapevolezza di illiceità della condotta ed alla sua volontà di attuarla; sussiste, quindi, la “decisione di non compiere”.
Ribadiamo che se il soggetto ha presentato la dichiarazione Iva o quella dei sostituti di imposta con l’indicazione di tributi da versare superiori alle soglie di punibilità, e non provvede a versare le imposte entro il termine “allargato” rispetto alla scadenze ordinarie previste dalla legge tributaria, ha la piena consapevolezza di commettere il fatto e agisce volontariamente per la sua realizzazione. Sussiste, quindi, sia l’elemento della rappresentazione che quello della volontà di cui si compone il dolo. La sussistenza del dolo è stata affermata, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale prevalente, dalla più recente sentenza Cass. pen. n. 50007/2019, per cui esso sarebbe provato dalla presentazione della dichiarazione annuale da cui emerge un debito di imposta, non essendo richiesta l’intima adesione del soggetto alla volontà di violare il precetto; la scelta di pagare i dipendenti attiene ai motivi a delinquere e non può minimamente escludere la sussistenza del dolo. Quest’ultimo profilo, peraltro, rientra nell’ordinario rischio di impresa che non comporta l’inadempimento dell’obbligazione contratta con l’erario. Orbene, sulla base di quanto esposto, possiamo evidenziare che il fatto di aver pagato i dipendenti può rappresentare esclusivamente una circostanza attenuante ai sensi dell’art. 62 bis del codice penale.
Al riguardo, l’entità della riduzione della pena può essere graduata dal giudice in relazione al fatto che il pagamento delle retribuzioni avvenga per salvaguardare la prosecuzione dell’attività aziendale, e quindi gli “interessi egoistici” dell’imprenditore, ovvero per assicurare il sostentamento dei lavoratori e delle loro famiglie. In quest’ultimo caso, invero, l’attenuazione della pena dovrebbe essere ben più corposa.
Ed allora, se si condivide questa conclusione, emerge il problema di dimostrare la sussistenza della convinzione in capo all’amministratore che i dipendenti necessitassero l’immediata corresponsione di “mezzi di sostentamento”. Ciò può, a mio avviso, ragionevolmente desumersi dalla situazione aziendale in cui opera l’amministratore: un conto è pagare “lauti” stipendi a lavoratori dipendenti di una piccola società della cui florida situazione economica egli non può non esserne a conoscenza; altro è pagare “ordinari” stipendi sia nel contesto di una piccola realtà aziendale con pochi dipendenti dove vi è un rapporto diretto tra amministratore e lavoratori, sia nell’ambito di aziende con centinaia di dipendenti la cui situazione economica è del tutto oscura all’amministratore. In questi ultimi casi, infatti, la prova circa la sussistenza del convincimento che la mancata percezione della retribuzione esponga i dipendenti e le loro famiglie a gravi conseguenze può ritenersi fornita con un ragionamento presuntivo del tutto ragionevole e convincente (ovvero grave, preciso e concordante).

6.L’omesso versamento dei tributi nel contesto di una crisi economica imprevista ed imponderabile: impossibilità oggettiva di adempiere e mancanza di colpevolezza

Considerando che il periodo congiunturale economico negativo insiste quanto meno dalla seconda metà del 2000 (non a caso in quel periodo furono emanati i primi provvedimenti definiti “anticrisi” qual è ad es. il D.L. n. 78/2009), è comprensibile che in questi anni i giudici, di fronte ad argomentazioni difensive incentrate sulla esistenza di una causa di forza maggiore o sulla mancanza di dolo, abbiano affermato la punibilità della condotta, salvo la possibilità di concedere le attenuanti generiche. L’orientamento giurisprudenziale “restrittivo” sull’incidenza della crisi di liquidità sui reati di omesso versamento Iva e ritenute Irpef va comunque contestualizzato alle vicende trattate, non essendo suscettibile di essere applicato a una crisi economica di matrice differente rispetto a quella di cui si è in concreto discusso. Al proposito, va precisato innanzitutto che si deve escludere la possibilità di ipotizzare che una crisi economia imprevista e imponderabile - qual è quella connessa all’emergenza sanitaria pandemica che si sta manifestando nel 2020 - possa configurare una causa di forza maggiore, in quanto un imprenditore, nonostante la sospensione dello svolgimento dell’attività per un periodo temporale ampio (c.d. lockdown), può avere ancora risorse finanziarie disponibili per il pagamento dell’Iva e delle ritenute Irpef. D’altra parte però, in presenza di inadempimenti dovuti ad una crisi improvvisa, diviene sproporzionata l’applicazione della tesi giurisprudenziale secondo cui le imprese debbano adottare un atteggiamento iper-prudenziale, accantonando le somme relative alle ritenute Irpef ed all’Iva da versare. Se un’azienda finanziariamente sana, si trovi ad essere travolta da un evento improvviso che determina un’irrimediabile crisi non congiunturale, appare del tutto irragionevole pretendere che nel passato l’imprenditore o l’amministratore avrebbe dovuto accantonare le somme relative all’Iva incassata ed alle ritenute Irpef operate. E’, invece, plausibile che il naturale sviluppo dei flussi di cassa, quando già da qualche anno si prospettava una ripresa economica, avrebbe assicurato la possibilità di adempiere le obbligazioni tributarie alle future scadenze. Per utilizzare una metafora, assolutizzare l’obbligo dell’accantonamento è come imporre al conducente di un’autovettura con le gomme nuove di adottare la stessa prudenza richiesta quando viaggia con le gomme usurate. Ed allora, per evitare di assistere a sentenze di condanna non coerenti con la ratio della normativa, ci sembra sostenibile che per l’eventuale omesso versamento dell’Iva e delle ritenute Irpef in scadenza nel 2020 si valuti con la giusta ponderazione la sussistenza di un’oggettiva impossibilità di adempiere e quindi la mancanza di colpevolezza; colpevolezza intesa non nella concezione psicologica, cioè della relazione fatto-autore in termini di dolo o colpa, ma nella concezione normativa, secondo cui si valutano le circostanze dell’agire alla luce della rimproverabilità dell’atteggiamento psicologico dell’autore. La mancanza della colpevolezza, in presenza di un’impossibilità assoluta di porre in essere il versamento, è stata affermata nelle ipotesi in cui il soggetto, abbia patito ritardi per l’incasso di crediti di importo ingente vantati nei confronti della Pubblica amministrazione od enti pubblici.

7.Conclusioni

Tirando le fila del lavoro, possiamo affermare che i margini per evitare una condanna penale per le condotte di omesso versamento Iva e ritenute Irpef connesse a crisi aziendali economiche e di liquidità non imputabili ad una cattiva gestione dell’impresa, ma connesse ad una congiuntura economica negativa sono del tutto ristretti. Non può evocarsi, infatti, la forza maggiore, lo stato di necessità o la mancanza del dolo. Al di fuori dell’impossibilità oggettiva ad adempiere, per l’omesso versamento di Iva e ritenute Irpef connesso a una crisi aziendale non imputabile all’imprenditore può profilarsi l’applicazione delle attenuanti generiche. E ciò in particolare qualora l’imprenditore o l’amministratore dimostri di aver attivato tutti gli strumenti ragionevolmente praticabili per fronteggiare la crisi economica e per non trovarsi senza liquidità al momento della scadenza del pagamento dei tributi. Rileva, inoltre, la circostanza per cui con le poche risorse disponibili l’imprenditore o l’amministratore provveda al pagamento dei lavoratori dipendenti e ciò nella duplice e differente prospettiva di assicurare la continuazione dell’attività imprenditoriale, ovvero di garantire il sostentamento loro e delle rispettive famiglie.
L’impossibilità di giungere ad una impunità in siffatte situazioni risulta, però, una conclusione difficile da accettare: si finisce, invero, per applicare una sanzione penale a soggetti che non hanno posto in essere condotte fraudolente per ottenere vantaggi economici dal mancato versamento delle imposte; né d’altra parte la condanna penale riguarda soggetti che non hanno versato l’Iva o le ritenute Irpef nonostante avessero congrue disponibilità finanziarie. Le ragioni che avevano indotto il legislatore ad intervenire (dopo un quinquennio) sul decreto legislativo n. 74/2000 per approntare una tutela penale agli omessi versamenti di Iva e di ritenute Irpef erano collegate alla repressione delle frodi carosello, ovvero al fenomeno delle società “apri e chiudi”, ma la formulazione letterale degli art. 10 bis e ter, ha consentito l’incriminazione di soggetti la cui condotta non presenta carattere fraudolento. Volendo usare un’espressione molto forte, si è introdotta una sorta di “arresto per debiti” tributari, laddove, invece, per gli omessi versamenti di tributi dichiarati era sufficiente una reazione sanzionatoria di tipo amministrativo, nonostante le peculiarità che si riscontrano con riguardo all’Iva e alle ritenute Irpef. Con la riforma tributaria del 2015, la quale si è posta l’obiettivo di adeguare il sistema sanzionatorio penale al criterio di proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti, rafforzando l’idea delle sanzioni penali tributarie quale extrema ratio, si è persa l’occasione per abrogare le fattispecie di reato prive dei connotati della fraudolenza ed in particolare i reati di infedele dichiarazione e quelli di omesso versamento. L’innalzamento delle soglie di punibilità previste per detti reati attuato con il decreto legislativo n. 158/2015, pur se sostanzioso, risulta comunque una misura inadeguata a riportare il sistema sanzionatorio penale su binari di proporzionalità e ragionevolezza. E’ da auspicare, quindi, che un meditato progetto di riforma del sistema sanzionatorio penale tributario possa finalmente prevedere l’abrogazione dei reati di cui si discute. Non possiamo sottacere, comunque, che la nuova normativa sulla crisi di impresa (D. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14) prevede peculiari obblighi di segnalazione a carico di creditori pubblici qualificati, e tra questi l’Agenzia delle entrate; segnatamente i creditori pubblici devono avvisare il debitore/contribuente di aver superato importi rilevanti di debito ed in conseguenza avvertire che segnaleranno la situazione all’Organismo di composizione della crisi di impresa qualora egli non provveda entro novanta giorni dalla ricezione dell’avviso al pagamento delle somme, ovvero alla presentazione di un’istanza di composizione assistita della crisi, nonché di accesso ad un procedura di regolazione della crisi e dell’insolvenza. Atteso che l’Agenzia delle entrate deve attivarsi con gli alert in tempi molto rapidi rispetto all’emersione dell’omesso versamento (anche periodico) dei tributi, si dovrebbe determinare una loro sensibile riduzione ed in ogni caso una netta erosione dell’area di rilevanza penale delle condotte di cui agli artt. 10 bis e 10 ter del D. Lgs. n. 74/2000. Infine, è sostenibile che, superando la tesi giurisprudenziali della sussistenza di un rapporto di progressione tra illecito amministrativo e penale con riguardo ai reati di omesso versamento Iva, l’applicazione del principio del ne bis in idem, dovrebbe condurre alla prevalenza delle sanzioni amministrative, nella misura in cui esse vengano irrogate prima della celebrazione del processo penale.

Prof. Avv. Giuseppe Ingrao, Ordinario Diritto Tributario Università degli Studi di Messina, avvocato tributarista

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