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Assoggettate ad IVA le spese di controllo riscosse da una società di gestione di parcheggi privati. Presupposti per l’imponibilità IVA delle prestazioni di servizi.

Avv. Clino De Ieso

Iva e Dogane

Gli elementi caratterizzanti la categoria residuale delle prestazioni di servizi sono, oltre alla natura economica dell’operazione, l’esistenza del corrispettivo che presuppone il suo carattere oneroso inteso come uno scambio di reciproche prestazioni, anche negative (non fare o permettere), previste all’interno di un rapporto giuridico. Sulla base di tali premesse teoriche la Corte di Giustizia, con la sentenza in causa C-90/20 del 2022, ha assoggettato ad IVA le “spese di controllo” riscosse da una società che si occupa della gestione di parcheggi, per l’inosservanza da parte degli automobilisti delle condizioni generali di utilizzo dei medesimi parcheggi.

Rilevanza IVA delle prestazioni negative (non fare o permettere)

Uno studente di talento che cominci a studiare a fondo l’imposta sul valore aggiunto noterebbe come in ogni contributo della dottrina si ripeta - ed è una affermazione sostanzialmente corretta - che l’IVA è una imposta sul consumo. Lo studente, limitandosi alla lettura dell’art. 3, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972, potrebbe trarre il convincimento che siano soggetti all’imposta soltanto i servizi consumabili, con la conseguente esclusione dall’ambito IVA degli obblighi di “non fare” o “permettere” se non “dipendenti” da altre operazioni imponibili. Tuttavia, la penna del legislatore europeo ha scritto che gli impegni c.d. negativi entrano di diritto nella categoria residuale dei servizi. Già la seconda Direttiva del 1967 obbligava i legislatori nazionali ad assoggettare ad imposta alcuni servizi, che erano accomunati dal fatto che il loro costo aveva una influenza rilevante sul prezzo dei beni. E fra questi servizi, indicati al n. 9 dell’Allegato B, vi era “l’esecuzione di un’obbligazione di non esercitare, in tutto o in parte, un’attività professionale o un diritto considerato nel presente elenco”. L’impronta positivista è rimasta nell’attuale Direttiva 2006/112/CE, che ammette la possibilità di qualificare come servizio “l’obbligo di non fare o di permettere un atto o una situazione”. L’idea, che anima la direttiva, è molto chiara: la categoria residuale, chiamata convenzionalmente “prestazioni di servizi”, deve avere un ampio respiro e, pertanto, essa attrae non solo i servizi tipici ma anche le operazioni atipiche come, appunto, le obbligazioni negative che non implicano alcun consumo. Ma come si concilia il (falso) mito del consumo con l’imponibilità di servizi non consumabili? A pensarci bene l’IVA nasce dalla finalità politica di introdurre una imposta indiretta sui consumi percepita non integralmente nell’ultima operazione fra l’operatore economico ed il consumatore finale, bensì in modo frazionato per ogni singolo passaggio antecedente al consumo del bene o servizio. Se ne deduce che, diversamente dalle altre imposte indirette, l’IVA colpisce l’operazione a prescindere dal consumo che, però, quando avviene, genera un “costo” per il consumatore finale il quale, essendo privo del diritto alla detrazione, resta definitivamente inciso dal tributo. Si immagini, ad esempio, uno studente che acquisti un caffè da asporto. Il mancato consumo del caffè “pagato” all’interno del bar è irrilevante ai fini dell’imposizione, in quanto il titolare del bar, avendo effettuato l’operazione (fatto generatore), deve emettere lo scontrino con IVA che, per lo studente, diventa una spesa a suo carico. Queste premesse offrono lo spunto per analizzare l’art. 3, comma 1, D.P.R. n. 633/1972, che recita così: “Costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere quale ne sia la fonte”. L’impostazione del legislatore italiano è rovesciata rispetto alla direttiva, nella quale viene data priorità alla funzione residuale dei servizi. La norma nazionale, invece, prima elenca a titolo esemplificativo i servizi tipici e, poi, nella seconda frase (“e in genere ...”) introduce il criterio generale che assorbe nei servizi tutte le operazioni - dunque, anche quelle atipiche - non qualificabili come cessioni. Colta in questa luce, la seconda frase dell’art. 3, comma 1, sembra costituire una norma, non tanto di chiusura, ma di “apertura” massima al campo di applicazione dell’IVA per le operazioni che non trovino ingresso nella categoria delle “cessioni di beni”.

Regime IVA delle transazioni ad assetto variabile

Le considerazioni generali che precedono consentono una breve disamina, senza alcuna pretesa di completezza, sulla rilevante questione del regime IVA applicabile agli accordi transattivi. Nota è la posizione della prassi, che individua il trattamento fiscale attraverso una analisi della volontà contrattuale delle parti. In estrema sintesi, secondo l’Agenzia delle entrate, qualora il rapporto originario preveda la corresponsione di importi aventi natura risarcitoria, la successiva transazione dichiarativa dovrebbe considerarsi fuori campo IVA. Viceversa, al cospetto di un accordo novativo, i nuovi impegni assunti dalle parti, che sostituiscono quelli originari, rappresentano uno scambio di reciproche prestazioni soggette ad imposta poiché, come nel caso della risposta n. 212 del 22 aprile 2022, le somme erogate dagli ex dipendenti costituiscono il controvalore della rinuncia alle liti da parte della società. È una tesi che, sul piano teorico, appare condivisibile. Come si è visto le prestazioni negative, benché non suscettibili di consumo, trovano piena cittadinanza nella categoria residuale delle prestazioni di servizi. Persuade, inoltre, l’idea che la transazione sia novativa quando fa sorgere un rapporto oggettivamente diverso ed incompatibile rispetto a quello preesistente, sicché il nuovo rapporto sostituisce quello precedente. Non appare decisiva, in senso contrario, la possibile obiezione fondata sulla ordinanza della Cassazione n. 20316 del 15 luglio 2021 che non riguarda l’IVA. La domanda giuridica è se l’IRPEF sia applicabile alle somme, che una banca deve versare all’azionista per l’intervenuta transazione raggiunta nelle more di un contenzioso. L’azionista ritiene che gli importi siano esenti o, in subordine, soggetti alla tassazione separata, mentre l’ente impositore li qualifica come redditi diversi “quale corrispettivo per l’assunzione di obblighi di fare, non fare o tollerare, attraendoli al regime del D.P.R. n. 917/1986, art. 67, comma 1, lett. l)”. È cruciale, secondo la Suprema Corte, “indagare cosa sia stato ‘remunerato’ con l’atto transattivo sottoscritto fra la contribuente e l’istituto di credito. Ponendo fine alla lite insorta, la contribuente azionista ha rinunciato a far valere il suo diritto di opzione, cioè una parte significativa dei diritti connessi al suo status di socia della Banca Popolare di Ancona”. Ne consegue l’irrilevanza ai fini fiscali dell’accordo transattivo perché, osserva la Cassazione, “guardare agli obblighi di fare, non fare o tollerare come categoria autonoma e generale della transazione, significa accordare a quell’istituto una funzione novativa anche sotto il profilo fiscale, con la conseguenza che ogni operazione - più o meno fiscalmente onerosa ovvero di tassazione incerta - può essere oggetto di transazione su di una lite minacciata, al solo fine di far ricadere quanto corrisposto nella categoria generale e sussidiaria degli obblighi di fare, non fare o tollerare”. L’osservazione appare congeniale al sistema impositivo dell’IRPEF, che individua nel “possesso” di redditi l’indice di effettiva capacità contributiva determinato a prescindere dalle pattuizioni contrattuali. Altrimenti, come evidenziato dalla Suprema Corte, “sarebbe rimesso alla disponibilità delle parti uno strumento consensuale per il mutamento surrettizio del regime fiscale imposto dal legislatore nell’esercizio della sua riserva e in contrasto con il principio di capacità contributiva. Occorre, pertanto, guardare alla ragion d’essere ed alla natura dei diritti dedotti in transazione per fondare su quelli (e non su questa) il regime fiscale appropriato”. Va, però, sottolineata la difficoltà di trasporre l’elaborazione concettuale nell’ambito dell’IRPEF al modello IVA che, quale tributo armonizzato, è pensato e costruito su una disciplina autonoma e, come tale, forzatamente affrancata dalle imposte dirette e dalle norme civilistiche di ciascun Stato dell’Unione. In questa direzione, indicata dalla Corte di Giustizia, procede anche la Cassazione affermando che “le categorie negoziali del diritto interno vanno connotate secondo la prospettiva tributaria, alla stregua della quale finiscono col perdere la loro complessità semantica: ciò che conta sono soltanto i tratti idonei a rivelare l’esistenza del presupposto d’imposta. Ed è a questo fine che la Corte di Giustizia sottolinea che la valutazione della realtà economica e commerciale costituisce un criterio fondamentale per l’applicazione del sistema comune dell’IVA, destinato a prevalere anche sul testo dei contratti”. Insomma, tranne nei casi di condotte abusive o fraudolente - i negozi giuridici, seppur “filtrati” dalla realtà economica e commerciale, restano i fondamentali indicatori della qualificazione IVA dell’operazione. Il che non accade nel sistema delle imposte dirette, dove, invece, il parametro principale dell’imposizione è la capacità contributiva del contribuente, che può, quindi, annullare, sostituendola, la volontà contrattuale. Tanto basterebbe per prendere atto che le criticità sul regime IVA degli accordi transattivi sembrano riguardare non tanto gli aspetti di diritto, che tutto sommato trovano nella prassi amministrativa delle soluzioni equilibrate, bensì investono una questione di puro fatto: segnatamente, l’accertamento della causa concreta del contratto che presuppone un’indagine sui profili soggettivi e oggettivi dell’accordo.

Il caso Apcoa Parking

Si innesta, a questo punto, la sentenza in commento che avvalora la rilevanza degli accordi contrattuali nel sistema IVA. La vicenda trae origine dal rimborso richiesto dalla società danese Apcoa, che si occupa della gestione di parcheggi su terreni privati. Tale attività, secondo la norma nazionale, è imponibile. Il profilo di diritto controverso, che è alla base del diniego di rimborso opposto dall’ente impositore, riguarda la disciplina IVA delle “spese di controllo” che la società riscuote dagli automobilisti che violano le condizioni generali di utilizzo dei parcheggi. Le opzioni interpretative sono due. O le spese di controllo sono senza IVA, in quanto versate alla società a titolo di risarcimento per l’inosservanza delle regole del parcheggio. Oppure, le medesime spese sono assoggettate ad imposta perché fanno parte del corrispettivo per la prestazione fornita da Apcoa agli automobilisti. Il giudice del rinvio dubita del carattere oneroso della prestazione inteso, ovviamente, non in senso lato come servizio “gravoso” o “pesante”, bensì come esistenza del link di reciprocità che collega la prestazione (gestione parcheggio) alla controprestazione (spese di controllo). Il dubbio, peraltro, aumenta con la constatazione che, in altri Stati europei, le spese di controllo non sono imponibili. Tesi che è stata respinta dall’Avvocato Generale e, soprattutto, dalla Corte di Giustizia la quale, con un percorso argomentativo che ripercorre fedelmente i suoi precedenti, ha risposto affermando che (punto 47) “le spese di controllo (...) devono essere considerate il corrispettivo di una prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso (...) e assoggettata in quanto tale all’IVA”. In motivazione, sono messi progressivamente a fuoco tutti gli elementi essenziali della prestazione. Secondo la Corte, esiste certamente la prestazione (attività di gestione parcheggi), così come esiste l’interesse economico in quanto è evidente che la società mette a disposizione i parcheggi al fine di essere remunerata dagli automobilisti. Inoltre, a cancellare ogni dubbio sulla natura onerosa del servizio, i giudici europei osservano che ciascun automobilista si assume l’obbligo di pagare non solo le tariffe per il normale utilizzo del servizio, ma anche le spese di controllo per la sosta irregolare. Gli immediati corollari di questa precisazione sono facilmente intuibili. Le spese di controllo, da un lato, rientrano nel corrispettivo dovuto per la messa a disposizione di un posto auto: dall’altro, presentano un nesso diretto con il servizio reso da Apcoa, tant’è che (punto 42) “la necessità di un controllo di sosta irregolare e, di conseguenza, l’imposizione di siffatte spese di controllo non possono esistere se il servizio di messa a disposizione di uno stallo di parcheggio non è stato previamente fornito”. Ciò precisato, ben si comprende perché lo scambio di prestazioni, condizionandosi reciprocamente, nel senso che (punto 41) “l’una è effettuata solo a condizione che lo sia anche l’altra, e viceversa”, è la ragione dell’irrilevanza della finalità di lucro del corrispettivo che, infatti, può essere inferiore ai costi sostenuti dal fornitore. Sotto questo profilo, il faro della sentenza in commento è l’esigenza di filtrare le clausole contrattuali attraverso (punto 38) la “realtà economica e commerciale dell’operazione” atteso che “la presa in considerazione di tale realtà costituisce un criterio fondamentale per l’applicazione del sistema comune dell’IVA”. Il messaggio della Corte è molto chiaro. Resta, tuttavia, sul piano pratico, il problema di comprendere più esattamente che cosa significhi l’espressione “realtà economica e commerciale dell’operazione” che, in teoria, sottende un metodo interpretativo caratterizzato da una valutazione, caso per caso, che fa prevalere i fatti, emergenti dalla condotta degli operatori, rispetto agli impegni che regolano formalmente i loro rapporti.

La lettura “ambivalente” della sentenza Baštová

Le prestazioni di servizi sono caratterizzate dalla natura economica dell’operazione intrinseca nel rapporto contrattuale e, inoltre, dall’esistenza del corrispettivo. Illuminante, in proposito, è la famosa sentenza Tolsma che viene sottovalutata per la semplicità del caso esaminato, trattandosi della pretesa del Fisco olandese di assoggettare ad IVA le piccole offerte in denaro che un suonatore ambulante di strada riceve dei passanti. Eppure in questa pronuncia la Corte di Giustizia, con una soluzione innovativa, aveva ben chiarito che l’imponibilità presuppone uno scambio di reciproche prestazioni (attività musicale dietro compenso) all’interno di un rapporto giuridico. Non sono, quindi, soggette ad imposta (punti 19 e 20) “le oblazioni (...) prettamente gratuite ed aleatorie” per le quali “nessun corrispettivo viene pattuito”. Questo indirizzo interpretativo è stato ripreso e sviluppato dai giudici europei che, nella decisione Town and County Factors, hanno affermato che i premi pagati ai vincitori di un concorso settimanale sono con IVA sebbene la società organizzatrice del concorso si fosse impegnata “solo sull’onore” a fornire i servizi. D’altronde, puntualizza la Corte, “l’impossibilità” per il vincitore “di chiedere” in sede civilistica “l’esecuzione forzata di tale obbligazione deriva da una convenzione stipulata tra il detto prestatore e l’utente”. Sicché, “una tale convenzione costituisce l’espressione stessa di un rapporto giuridico”. Ancora, nella causa Air France, è stata ritenuta soggetta ad IVA l’emissione di biglietti aerei acquistati dai passeggeri, ma non utilizzati dagli stessi. Secondo i giudici europei, il rapporto di interdipendenza è rinvenibile fra il prezzo versato dai passeggeri al momento di acquisto del biglietto (prestazione) e il servizio fornito dalla compagnia aerea (controprestazione), vale a dire mettere “il passeggero” in condizione “di usufruire dell’esecuzione delle obbligazioni risultanti dal contratto di trasporto, indipendentemente dal fatto che il passeggero si avvalga di tale diritto, giacché la compagnia aerea realizza la prestazione nel momento in cui” consente al “passeggero (...) di usufruire delle prestazioni medesime” (punto 28). In tema la Cassazione, con sentenza n. 24510 del 2 dicembre 2015, ha stabilito che non è imponibile il premio riconosciuto in funzione dei risultati (fatturato) conseguiti da una sola parte. La logica sottesa è l’assenza di una controprestazione “a carico del soggetto destinatario del premio, restando questo del tutto libero di attivarsi o meno per conseguire il premio, atteso che la mancata realizzazione del risultato (...) non integrava a suo carico” alcuna “responsabilità per inadempimento contrattuale”. In questo quadro giurisprudenziale si inserisce la problematica, che è tuttora controversa, del trattamento fiscale dei premi conseguiti nell’ambito delle attività sportive. Il vero nodo della questione ruota intorno alla “scommessa” del partecipante alla gara, il quale punta sul suo piazzamento (aleatorio) fra le prime posizioni che, ove si realizzi, gli consente di ricevere il premio dall’organizzatore della manifestazione sportiva. L’aleatorietà dello scambio fra le parti è l’argomento utilizzato dalla Corte di Giustizia, nella ormai famosa sentenza Baštová, per escludere l’applicazione dell’IVA e, per l’effetto, disconoscere la detrazione dell’imposta. In particolare, secondo i giudici europei la messa a disposizione di un cavallo ad una gara ippica, da parte del suo proprietario soggetto passivo dell’IVA, non è una prestazione di servizi.. Non è, però, chiaro se per la Corte l’alea costituisca la spia della possibile inesistenza del corrispettivo o della prestazione. Ed è esattamente il quesito posto con la domanda pregiudiziale pendente Finanzamt X, dove si discute dell’imponibilità o meno dei premi vinti dal gestore della scuderia nelle gare ippiche per conto del proprietario del cavallo. Il giudice del rinvio tedesco, dovendo decidere su un caso simile a quello risolto dalla sentenza Baštová, rileva che tale decisione si presta ad una lettura “ambivalente”. Da un lato, potrebbe sembrare decisiva l’assenza del corrispettivo, mancando il nesso diretto fra la messa a disposizione del cavallo e l’erogazione del premio; dall’altro, invece, l’elemento decisivo potrebbe essere individuato nella mancanza della prestazione non identificabile nel “piazzamento utile del cavallo” avuto riguardo al suo carattere aleatorio. Rispondere in un modo o nell’altro significa, nel caso sottostante al rinvio pregiudiziale, non applicare l’imposta (vista l’inesistenza del corrispettivo) o applicarla (tenuto conto dell’esistenza della prestazione).

Considerazioni conclusive

È fondamentale regolamentare i premi conseguiti dalle attività sportive rimuovendo tutti gli elementi di alea e imprevedibilità pregiudizievoli per il sistema dell’IVA, che è fondato su categorie di operazioni definite con criteri oggettivi e, quindi, sganciati dalle finalità e dai risultati delle operazioni. In quest’ottica, una possibile soluzione è determinare già al momento di conclusione dell’accordo (i) un nesso di interdipendenza fra la partecipazione alla gara e l’erogazione del premio, ove si ritenga rilevante il corrispettivo (ii) oppure, assumendo come decisiva l’esistenza della prestazione, condizionare il ricevimento del premio all’effettuazione di operazioni soggette ad IVA che siano rese indipendentemente (o, comunque, non soltanto) dal risultato aleatorio della gara. Diversamente, ossia, qualora in origine non ci sia l’obbligazione di dare o fare, dovrebbe ritenersi il premio senza IVA per carenza del requisito oggettivo.

Fonte: GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria, n. 6, 1 giugno 2022, p. 476

Avv. Clino De Ieso, Avvocato Tributarista cassazionista, Partner Studio Legale Tributario Centore

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