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Ammessa la rettifica IVA sulle operazioni attive fatturate in modo erroneo - Green pass per la restituzione dell’IVA non dovuta senza danno erariale

Avv. Clino De Ieso

Iva e Dogane

La Corte di Giustizia ha, nel tempo, sviluppato un orientamento favorevole all’operatore economico - nel quale si colloca la sentenza in causa C-48/20 del 2021 - riconoscendogli il diritto alla rettifica dell’IVA non dovuta in assenza di danno erariale indipendentemente dalla sua condotta in “buona” o “mala fede”. L’impatto di questa linea giurisprudenziale sull’azione generale di restituzione dell’IVA non dovuta, regolata dall’art. 30-ter del D.P.R. n. 633/1972, è decisivamente significativo: in quanto, ove l’operazione sia realizzata in un “contesto fraudolento”, il diritto del fornitore alla restituzione dell’imposta erroneamente fatturata dipende esclusivamente dall’eliminazione o meno del pericolo di perdita di gettito per lo Stato italiano.

Per individuare i concetti-chiave del sistema IVA sarebbe sufficiente applicare il metodo di analisi, attualmente in voga nella didattica, che consiste nell’estrarre da un testo le parole ivi utilizzate con maggiore frequenza. Fra queste vi è sicuramente il termine neutralità, assiduamente evocato, che rientrerebbe certamente nella c.d. nuvola di parole (cloud-word) seppur il suo significato possa assumere nei differenti contesti una varietà di sfumature. In alcuni casi, l’espressione “principio di neutralità” è usata quale sinonimo della parità di trattamento in forza della quale - com’è noto - s’impone lo stesso regime IVA per le operazioni simili, cioè che si trovino in concorrenza fra di loro salvo che una differenza di trattamento sia obiettivamente giustificata. Altre volte, la neutralità ha un’accezione più tecnica, essendo posta in correlazione con il diritto di detrazione che assicura al destinatario dell’operazione (cessionario/committente), se soggetto passivo, di sterilizzare l’imposta assolta a monte sugli acquisti. Ancora, la neutralità può essere intesa in senso lato come il generico diritto, che spetta tanto all’Erario quanto ai soggetti passivi diversi dal consumatore finale, a non restare definitivamente incisi dall’imposizione. E, nel caso della sentenza in rassegna, la Corte di Giustizia valorizza proprio quest’ultima accezione del principio di neutralità per dichiarare, attraverso la sua interpretazione autentica della Direttiva 2006/112/CE, l’incompatibilità della norma interna della Polonia laddove subordina il recupero dell’IVA erroneamente assolta dal fornitore al mancato avvio di una verifica fiscale, ancorché il recupero dell’imposta non determini alcuna perdita di gettito per lo Stato. Tale approdo, come si vedrà più avanti, si pone nel solco della consolidata giurisprudenza europea che, nel tempo, ha sviluppato un orientamento favorevole all’operatore economico riconoscendogli, in via straordinaria, il diritto alla rettifica dell’imposta non dovuta qualora il medesimo operatore, pur avendo agito in “mala fede”, abbia completamente eliminato il rischio di danno erariale. In quest’ottica, il legislatore italiano ha ritenuto opportuno alzare il livello d’intensità delle tutele per il ripristino della neutralità introducendo, accanto allo strumento della nota di variazione, una disciplina generale per la restituzione dell’IVA non dovuta indubbiamente dinamica e, come tale, proiettata in avanti per poter ampliare le effettive possibilità di recupero dell’imposta erroneamente fatturata.

Analisi del caso UAB

La vicenda processuale della sentenza in rassegna presenta due profili di originalità che, a ben vedere, sono fra loro collegati. In primo luogo, la rettifica dell’IVA fatturata per errore è ammessa dalla norma interna, ma solo se operata spontaneamente dal soggetto passivo, mentre la medesima rettifica è preclusa se la correzione viene attuata per la coercizione esercitata dall’ente impositore. In secondo luogo, l’errore commesso dalla società lituana UAB è stato indotto dall’Autorità fiscale polacca. Tant’è che, all’epoca dei fatti, la prassi amministrativa riteneva soggette ad IVA sia le operazioni di acquisto di carburante effettuate da UAB presso le stazioni di servizio situate in Polonia, sia le successive rivendite del medesimo prodotto energetico eseguite da UAB nei confronti delle società di trasporto lituane: ciò, sebbene “vi era effettivamente una sola cessione fisica dei beni”, precisamente, tra le stazioni di servizio (polacche) ed i trasportatori (lituani). Nella situazione di fatto così delineata, i verificatori pensano di poter riqualificare le cessioni imponibili compiute da UAB in servizi finanziari esenti dall’imposta. Più specificamente, secondo l’ente impositore, la società UAB, tramite la messa a disposizione delle carte carburante in favore dei trasportatori, avrebbe svolto un’attività di finanziamento detassata e, per conseguenza, l’unica cessione imponibile realizzatasi sarebbe stata quella fra le stazioni di servizio ed i trasportatori. Le ricadute su UAB, ai fini IVA, sono ovvie. Da lato passivo, le viene negato il diritto di detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti, dal lato attivo, la stessa UAB deve, comunque, versare l’IVA erroneamente fatturata ai suoi clienti, cioè, ai trasportatori lituani. Il giudice nazionale di merito, sollecitato dalla Suprema Corte amministrativa della Polonia, si pone il cruciale problema del rischio del danno erariale e, a riguardo, osserva che “se le operazioni (...) fossero state correttamente assoggettate all’IVA”, alle “società di trasporto non sarebbero state inviate [le] fatture emesse dalla [UAB] P., indebitamente recanti l’IVA, bensì fatture emesse dalle stazioni di servizio a titolo di fornitura di carburante recanti un importo IVA prossimo a quello indicato nelle fatture emesse dalla [UAB] P.” (Punto 22). “Pertanto, (...) la corretta dichiarazione di tali operazioni (...) avrebbe altresì consentito alle società di trasporto lituane di chiedere il rimborso dell’IVA indicata nelle fatture emesse dalle stazioni di servizio, il che dimostrerebbe che l’emissione da parte della [UAB] P. di fatture recanti indebitamente l’IVA non presenta alcun rischio di perdita di gettito fiscale per lo Stato. Per contro, (...) l’applicazione dell’art. 108 della legge sull’IVA alle fatture emesse dalla [UAB] P.”, che obbliga quest’ultima ad assolvere l’imposta erroneamente esposta in fattura, “mentre la fornitura di carburante da parte delle stazioni di servizio deve anch’essa essere soggetta a imposta a titolo di IVA, ha l’effetto di assoggettare una medesima operazione ad una doppia imposizione all’IVA” (Punto 23). L’intuizione del giudice del rinvio è brillante. Lo stesso dubita della compatibilità della norma interna, nella misura in cui esclude la rettifica dell’IVA non dovuta erroneamente indicata da UAB nelle fatture attive nonostante l’assenza di perdita di gettito che, nella specie, è pacifica. Infatti, è vero che l’Erario recupera l’ammontare dell’imposta indebitamente detratta da UAB, ma è altrettanto vero che, ove le operazioni fossero state esattamente fatturate, lo stesso Erario, per un importo di IVA “prossimo”, ossia, quasi identico a quello che si è detratto UAB, avrebbe dovuto riconoscere il rimborso ai trasportatori lituani. Specularmente, la rettifica operata da UAB sulle fatture di vendita - vietata dalla norma polacca - è concretamente sterilizzata dall’IVA applicata sulla cessione fra le stazioni di servizio e le società di trasporto. È evidente che un simile approccio, poiché si nutre delle indicazioni della giurisprudenza europea, è stato subito condiviso dalla Corte di Giustizia. La quale, rimanendo fedele ai suoi precedenti, ha dichiarato l’incompatibilità della norma nazionale perché in contrasto con l’effettivo diritto del fornitore al recupero dell’IVA non dovuta, pena la violazione dei principi di neutralità e proporzionalità, avuto riguardo all’affidamento che UAB ha riposto nelle indicazioni della prassi amministrativa e, soprattutto, tenuto conto della integrità dell’interesse erariale che non è stato minimamente danneggiato dall’errore sulla qualificazione IVA delle operazioni. E fin qui nihil aliud sub sole novum.

La restituzione dell’IVA dopo il caso EN.SA.

La soluzione offerta nella sentenza in commento era in qualche modo prevedibile, a fronte della egregia condotta del contribuente che, in assoluta buona fede, ha applicato alle operazioni il regime IVA indicato dalla “prassi costante delle Autorità tributarie polacche”. D’altronde, sarebbe stato certamente irragionevole far vacillare o, peggio ancora, togliere alla società UAB la guarentigia della neutralità visto che l’IVA indebita nasce non da un suo errore, bensì da un improvviso revirement interpretativo dell’Autorità fiscale. Tuttavia, bisogna fare attenzione a non cadere nell’equivoco (frequente) di credere che la buona fede costituisca una condizione indispensabile per il recupero dell’IVA non dovuta, come si potrebbe supporre dalla formulazione dell’art. 30- ter , comma 3, del D.P.R. n. 633/1972 che recita così: “La restituzione dell’imposta è esclusa qualora il versamento sia avvenuto in un contesto di frode fiscale”. In realtà, il significato più vero e profondo di tale disposizione va ricercato attraverso un’interpretazione guidata della giurisprudenza europea che da oltre venti anni ammette, in assenza di danno erariale, la rettifica dell’imposta indebitamente fatturata indipendentemente - si badi bene - dalla buona fede del soggetto passivo. Importante in questa direzione è la sentenza Strobel, nella quale l’elemento comune ai due giudizi riuniti è la richiesta dei contribuenti di poter regolarizzare l’imposta, indicata in fattura senza una valida giustificazione, tramite una lettura estensiva della norma tedesca che concede l’esenzione del debito IVA per “motivi di equità”. La principale criticità sta nella natura dissuasiva della disposizione domestica che introduce, come regola generale, l’impossibilità di rettificare l’IVA erroneamente fatturata in linea con l’intento del legislatore nazionale di contrastare le condotte fraudolente. Per questa ragione la rettifica rimane confinata all’ipotesi in cui il soggetto passivo, “che emette la fattura”, “riesce a farsi restituire e a distruggere le fatture che ha redatto prima del loro uso da parte del destinatario o allorché colui che emette la fattura, senza riuscire a farsi restituire la fattura, elimina la situazione di rischio adottando in tempo altri provvedimenti, in particolare mediante una dichiarazione presso” l’ente impositore “da cui dipende il destinatario della fattura (...)”. Sussiste, in questa situazione, il dubbio interpretativo sul divieto di rettifica che dipenda, esclusivamente, da un “comportamento condannabile” del soggetto passivo. In particolare, l’ingombrante nodo da districare è se tale divieto - che, in realtà, maschera una responsabilità a carico dell’operatore economico sostanzialmente configurabile come una sanzione impropria di carattere penale - debba presupporre, per essere compatibile con il diritto europeo, la prova del mancato esercizio della detrazione da parte del cliente. La risposta della Corte di Giustizia, chiarissima sul punto, si fonda sulla sottile linea divisoria fra il rischio di perdita di gettito fiscale e l’assenza di danno erariale. Nel primo caso, la buona fede è una condizione imprescindibile per la rettifica, nell’altro, essa risulta irrilevante perché sproporzionata rispetto ad una frode disinnescata dalla circostanza che l’Erario ha, comunque, riscosso l’IVA ad esso spettante. Sicché, portando all’estreme conseguenze il ragionamento ineccepibile della decisione Strobel, si potrebbe ragionevolmente dedurre, in via sistematica, che la frode, così come non può giustificare un impoverimento dello Stato, allo stesso tempo non può neppure legittimare un indebito arricchimento dell’Erario a tutto svantaggio degli operatori economici. Si tratta di una visione pragmatica della materia IVA che rappresenta, oggi, il moderno sbocco dell’iter evolutivo attraverso il quale la Corte di Giustizia, sviluppando e affinando il percorso avviato dalla sentenza Strobel, è intervenuta per risolvere il caso italiano della società EN.SA. con un principio di carattere generale che ha un effetto dirompente sull’art. 30- ter del D.P.R. n. 633/1972 il quale, come accennato, regola le modalità di restituzione dell’IVA non dovuta. Il caso EN.SA. ha tutti gli elementi della vicenda del sig. Strobel: la società EN.SA., per una finalità extra fiscale (vale a dire, ottenere risorse finanziarie da istituti di credito altrimenti non accessibili), ha consapevolmente fatturato con IVA delle vendite fittizie di energia elettrica che, però, non hanno creato alcun danno erariale, attesa la natura delle operazioni (inesistenti) eseguite fra gli stessi operatori - appartenenti al medesimo gruppo - in modo circolare per cui i soggetti coinvolti vendevano e riacquistavano il prodotto al medesimo prezzo. In tale contesto la Corte di Giustizia, in virtù dell’indissolubile binomio neutralità-proporzionalità, ha salvato la normativa italiana a condizione che all’indetraibilità dell’IVA in capo al cliente corrisponda, in via simmetrica, il diritto alla rettifica dell’imposta non dovuta riconosciuto al fornitore “che non era in buona fede,” ma che “abbia, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdite di gettito fiscale (...)”. La morale della favola, se di favola si può (ma, forse, addirittura, si deve) parlare, è molto semplice. Il legislatore italiano, in assenza di danno erariale, deve abbandonare l’assioma in base al quale la frode vieta in ogni caso la restituzione dell’IVA non dovuta. Nel frattempo, per non incorrere negli strali della Corte di Giustizia, è compito del giudice nazionale fornire un’interpretazione conforme del precetto interno che privilegi le indicazioni della sentenza EN.SA. la quale, al pari di una sopravvenienza normativa, ha sostanzialmente aggiunto, al comma 3, dell’art. 30-ter citato, una nuova ipotesi derogatoria che prevede, in via straordinaria, la restituzione dell’imposta non dovuta in mancanza di danno per l’Erario. Trattasi di una vera e propria rivoluzione (quasi) copernicana che scardina, in misura parziale, il dogma della irrecuperabilità dell’IVA erroneamente applicata in un contesto fraudolento.

Nota di variazione e domanda di restituzione dell’imposta: due rimedi alternativi

Non vi è dubbio che, con riferimento agli errori di fatturazione, il legislatore italiano abbia messo a punto degli strumenti finalizzati al ripristino della neutralità che risultano decisamente all’avanguardia. Attualmente, il modello italiano prevede due possibili misure per il recupero dell’IVA non dovuta. La prima è la nota di variazione, di natura facoltativa, che può essere esercitata dal fornitore, senza il coinvolgimento dell’Erario, entro l’anno dall’effettuazione dell’operazione. La variazione in diminuzione non presuppone una previa verifica sull’effettiva eliminazione del danno erariale, poiché essa costituisce una sorta di contro-fatturazione (c.d. nota di credito) non vincolata dalla restituzione dell’IVA addebitata, nella fattura originaria, a titolo di rivalsa al cliente. Quest’ultimo, a sua volta, è tenuto di regola a registrare la nota di credito, rettificando, di conseguenza, l’ammontare dell’IVA detraibile, fermo restando che tale adempimento non è una condicio sine qua non per la variazione operata dal fornitore. In alternativa, avuto riguardo al carattere non obbligatorio della nota di variazione, si pone l’azione generale di restituzione di cui all’art. 30- ter del D.P.R. n. 633/1972. Tale norma prevede differenti momenti, a partire dai quali è possibile avanzare la domanda di restituzione dell’imposta non dovuta, agganciando a ciascuno di essi un diverso termine iniziale per il calcolo della decadenza biennale a cui è assoggettata la presentazione dell’istanza. Precisamente, la richiesta di restituzione è associata, nel comma 1, al “versamento” del tributo non dovuto oppure al giorno “in cui si è verificato il presupposto per la restituzione”, mentre, nel comma 2 (che è una grande innovazione), al preciso istante in cui il fornitore restituisce al cliente l’IVA erroneamente addebitata in fattura. Tutto ciò rivela la peculiarità della richiesta di restituzione, che è stata pensata dal legislatore italiano per rimediare ai disallineamenti derivanti dalle vicende giuridiche dell’operazione o dagli errori nella scelta del regime IVA che mettono in serio pericolo la neutralità fiscale la quale, nell’ordinamento nazionale, si regge sul precario equilibrio fra rapporti tributari (Fornitore/Erario, Cliente/Erario) e civilistici (Fornitore/Cliente). Da quanto appena descritto, risulta facilmente comprensibile la logica adottata dalla Commissione tributaria regionale Lombardia nella pronuncia successiva al rinvio pregiudiziale EN.SA.. Il giudice di secondo grado, tenendo a mente l’alternanza fra la nota di variazione e la richiesta di restituzione dell’IVA, da un lato ha confermato l’indetraibilità essendo consapevole che l’imposta non dovuta potrà essere recuperata dalla società EN.SA. formulando istanza ex art. 30-ter citato: dall’altro, ha giustamente annullato le sanzioni - palesemente sproporzionate e, inoltre, contrarie al principio di neutralità - in quanto parametrate non (come dovrebbe essere) all’effettivo debito d’imposta, nel caso di specie pari a zero, bensì all’ammontare dell’IVA indetraibile.

Considerazioni conclusive

Il legislatore italiano ha, certamente, operato una ragionata sistematizzazione dei rimedi per il recupero dell’IVA non dovuta. Come si è visto, è il fattore tempo che giustifica, nel panorama normativo nazionale, la progressiva introduzione di condizioni sempre più rigorose per la restituzione dell’IVA. Sicché, al graduale allontanamento dal fatto generatore dell’imposta, cioè dall’istante in cui si realizza la cessione di beni o la prestazione di servizi, corrispondono dei maggiori e più stringenti requisiti da soddisfare per esercitare la rettifica dell’imposta erroneamente fatturata. Tale ricostruzione ha l’indubbio pregio di contribuire ad assicurare il giusto bilanciamento fra la certezza del diritto e l’effettiva tutela, riconosciuta ai soggetti passivi, di recuperare l’imposta non dovuta in tempi ragionevoli perché un rimborso lento, oltre a non essere più un rimborso, infrange il dovere dello Stato italiano di sgravare, in tempi rapidi, gli operatori commerciali dall’onere dell’IVA per non creargli uno svantaggio concorrenziale. Ma se il diritto di rettifica, nella sua proiezione europea, deve essere valorizzato all’ennesima potenza, allora risulta pienamente legittimata anche la procedura di rettifica (c.d. auto-rimborso accelerato) attivabile dal cliente e introdotta, quale misura di semplificazione, proprio per scongiurare il rischio che gli operatori si trasformino da “collettori d’imposta” in “finanziatori” dello Stato.

Fonte: GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria, n. 7, 1 luglio 2021, p. 568

Avv. Clino De Ieso, Avvocato Tributarista cassazionista, Partner Studio Legale Tributario Centore

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