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Alcune riflessioni su accollo esterno dei debiti tributari e compensazione

Prof. Avv. Stefano Fiorentino

Riscossione

L’articolo si sofferma sulla compensabilità del debito fiscale accollato, analizzandone le questioni problematiche, con particolare riguardo alla paventata “invalidità generale” di tale ipotesi.

Percorrendo tale linea d’indagine, l’accollo esterno del debito fiscale è delineato in linea con i consolidati orientamenti della dottrina e della giurisprudenza civilistica: esso va quindi ricondotto alla stipulazione a favore del terzo, qualificabile in termini di pattuizione bilaterale tra accollante e accollato, rispetto alla quale l’adesione del creditore (Amministrazione) non rappresenta né elemento perfezionativo né requisito di efficacia, determinando essenzialmente l’irrevocabilità del patto nei suoi confronti. Rapportando tale ricostruzione all’ambito tributario, si è altresì chiarito che la fonte negoziale e non legale del debito fiscale accollato non può interferire con prerogative spiccatamente pubblicistiche, per un verso limitandole nei confronti del soggetto passivo accollato (esclusione del beneficium ordinis), per altro verso estendendole nei confronti dell’accollante (esclusione dei poteri di accertamento e riscossione amministrativa per il debito accollato). Da tali assunti, peraltro, non è coerentemente ricavabile alcuna preclusione generale alla compensazione spontanea del debito fiscale accollato. Né tale preclusione generale discende, ex se, dal carattere eccezionale della normativa fiscale sulla compensazione; questa, infatti, correttamente intesa quale normativa recante attuazione atipica del "principio generale" di compensazione, implica che le disposizioni de quibus non possono essere integrate con norme e principi estranei al proprio ambito (segnatamente con norme di derivazione codicistica); mentre all’interno di esso, sono interpretabili ordinariamente. Ciò chiarito, applicando gli ordinari criteri di interpretazione alla normativa sulla compensazione tributaria c.d. spontanea non si rileva alcuna preclusione generale alla compensabilità del debito fiscale accollato.

Premessa

Come è noto, l'art. 8 della L. n. 212/2000 (statuto dei diritti del contribuente) sancisce, al comma 1, che "l'obbligazione tributaria può essere estinta anche per compensazione" ed al comma 2, che "è ammesso l'accollo del debito d'imposta altrui senza liberazione del contribuente originario". La disposizione statutaria de qua, tuttavia, anche in ragione dell’assenza di disposizioni applicative, pur rappresentando un’importante indicazione sul piano dei principi della materia tributaria, non ha risolto le questioni interpretative in tema di compensazione e accollo di debiti tributari, a tutt’oggi estremamente controverse.
Ferme le problematiche interpretative di compensazione e accollo del debito d'imposta in sé considerati, la possibilità per l’accollante di compensare il debito tributario accollato, ha dato luogo ad una specifica questione applicativa, legata all’operatività dell’accollo esterno nel diritto tributario, particolarmente controversa. Quale esempio emblematico di un perdurante e specifico “disagio” applicativo degli istituti di accollo esterno e compensazione nell’ordinamento tributario, può essere richiamata la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 140 del 15-11-17. In tale documento di prassi, infatti, l’Agenzia, nel palesare espressamente complessità e incertezza sulla questione, ha scelto una soluzione “interpretativa” tranchant, che risolvesse ogni dubbio eliminando “in radice” il problema: ha finito così col negare in via generale la “validità tributaria” di una tale operazione e, cioè, la possibilità di estinguere un debito fiscale attraverso l’accollo esterno di questo da parte di un soggetto accollante e successiva compensazione con crediti fiscali dell’accollante stesso. Come si cercherà dimostrare, ferma la difficoltà applicativa nonché la possibile riconducibilità di talune ipotesi concrete a fenomeni di tipo “fraudolento”, una soluzione che neghi "in termini generali" la compensabilità di debiti tributari accollati, si reputa confliggente con le scelte vigenti del legislatore fiscale, come tale non percorribile sul piano interpretativo. Diversamente, sono certamente utili ulteriori riflessioni sul tema che, partendo inevitabilmente dalla disamina civilistica, nonché precisando le "effettive" esigenze pubblicistiche sottese all’attuazione fiscale di tali istituti, contribuiscano a definire un percorso di "consolidamento sistematico" della tematica in oggetto. Prima ancora di indicare compiutamente le linee d’indagine del presente lavoro, tuttavia, si reputa utile esaminare funditus la soluzione interpretativa proposta nella Risoluzione n. 140/2017, già peraltro coinvolta nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale: tale scelta, essenzialmente per la necessità di valutare col dovuto rilievo gli argomenti ivi utilizzati contra la compensabilità dei debiti tributari accollati; ciò, al di là delle indubbie ricadute operative legate all'opinione "ufficiale" dell’Agenzia manifestata in un proprio atto di prassi, anche perché le tesi ivi contenute sono "problematicamente" presentate dall’Agenzia come implicate e/o in qualche modo correlate a “principi” dell’ordinamento tributario, piuttosto che ricavate da espresse indicazioni normative.

La risoluzione n. 140/E del 15-11-17: il ragionamento e le conclusioni dell’Agenzia delle Entrate

Dopo aver effettuato una doverosa ricognizione della normativa di cui ai commi 1 (compensazione) e 2 (accollo) dell’art. 8, la risoluzione in parola, perviene ad una soluzione interpretativa che nega, in termini generali, la legittimità di operazioni di accollo (cumulativo esterno) di debiti tributari e successiva compensazione, esponendo essenzialmente i seguenti argomenti: a) con riguardo all’accollo “… come chiarito anche dalla giurisprudenza …, assumere volontariamente l’impegno di pagare le imposte dovute dall’iniziale debitore non significa «assumere la posizione di contribuente o di soggetto passivo del rapporto tributario, ma la qualità di obbligato (o coobbligato) in forza di titolo negoziale», tanto che l’Amministrazione finanziaria non può esercitare nei confronti degli accollanti «i propri poteri di accertamento e di esazione, che possono essere esercitati solo nei confronti di chi sia tenuto per legge a soddisfare il credito fiscale» (con queste parole Cass. S.U. n. 28162 del 2008)”. Un tale assunto, e cioè la circostanza che l'accollante sia coobbligato (del debito tributario accollato) in forza di titolo negoziale, ad opinione dell’Agenzia "... pone il conseguente dubbio se, nell’accollo … possano trovare applicazione in favore dell’accollante le norme che prevedono modalità peculiari di soddisfazione di tale credito, quali la compensazione" (cfr. Ris. n. 140/E del 2017 - primo argomento). Ovviamente il dubbio interpretativo nasce dalla conclamata assenza di disposizioni normative che "affermino e regolino" esplicitamente la compensabilità di debiti tributari assunti mediante accollo cumulativo esterno ai sensi dell’art. 8, comma 2, L. n. 212/2000. Ciò premesso, l'Agenzia reputa di risolvere negativamente il dubbio in questione, sulla base di due ulteriori argomenti: b) la compensazione in ambito tributario si connoterebbe a tutt’oggi quale normativa di tipo "eccezionale", nel senso che la "tassatività" delle previsioni e dei limiti con i quali è esplicitamente regolata la compensazione tributaria "....dimostrano che la regola è la non compensabilità (...)"; per cui le norme che consentono la compensazione dei debiti tributari, non essendo idonee a consolidare un principio generale di compensazione, ma recando piuttosto "eccezione" a un “principio” contrapposto, vanno interpretate in senso "ideologicamente restrittivo" (secondo argomento); c) assumendo carattere eccezionale nel senso descritto, le previsioni contenute nell’art. 17, comma 1, del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, indicata quale normativa applicativa "di riferimento" sulla compensazione tributaria, si applicherebbero quindi "....solo per i debiti (e i contrapposti crediti) in essere tra i medesimi soggetti e non tra soggetti diversi, con esclusione dei debiti “altrui” accollati (terzo argomento). È bene precisare che l’Agenzia, riferisce tali ulteriori argomenti alla giurisprudenza tributaria, con particolare riferimento alla sentenza n. 15123 del 2006 della Corte di Cassazione, cui la Risoluzione fa espresso e pressoché pedissequo rinvio. Alla stregua degli argomenti complessivamente indicati, l’Agenzia, reputa dunque che il dubbio interpretativo sulla compensabilità dei debiti tributari accollati si debba risolvere in senso negativo, escludendo quindi “....in via generale, che il debito oggetto di accollo possa essere estinto utilizzando in compensazione crediti vantati dall’accollante nei confronti dell’Erario".

Definizione del tema d’indagine

È a questo punto necessario precisare il percorso d’indagine che si intende seguire. In primo luogo, esso si fonda sull’assunto, innegabile, che il riferimento agli istituti “civilistici" di accollo e compensazione ex art. 8 commi 1 e 2, sia altresì espressamente “realizzato” dal Legislatore fiscale al fine di "tutelare" gli interessi patrimoniali del contribuente/debitore; finalità, anch'essa, di chiara ispirazione privatistica. Ferma cioè la difficoltà di ricavare precise indicazioni sistematiche da tale formula in un contesto pubblicistico, pare tuttavia inevitabile riconoscerne un concreto rilievo “valoriale”; nel senso, quantomeno, di un favor legislativo rilevante sul piano dei principi tributari, sia pure solo tendenziale e per certi versi operativamente vago, volto a "valorizzare" modalità di adempimento (estinzione) del debito d’imposta che tengano conto, accanto alla pregnante finalità pubblicistica del creditore, delle esigenze patrimoniali "privatistiche" del contribuente/debitore. L'obiettivo dell'indagine sarà quindi rivolto, in primo luogo, a verificare in che misura un tale generico "favor" possa essere consolidato in "principi" sistematicamente rilevanti per l'applicazione di accollo e compensazione nell'ordinamento tributario. In secondo luogo, e conseguentemente, si sceglie di concentrare la riflessione sull’operatività degli istituti in questione all'interno del “microsistema” relativo all’adempimento “spontaneo” del tributo. In quest'ambito, infatti, i modi e le attività del contribuente per adempiere e/o estinguere l'obbligazione tributaria, già riflettono “tendenzialmente” i principi civilistici, sia pure di volta in volta conformati e limitati, ove specifiche esigenze della legge d’imposta lo richiedano. Il percorso argomentativo del presente lavoro, nell’ambito della scelta metodologica assunta, potrà quindi coerentemente operare, in primo luogo, una “ricognizione” della qualificazione di accollo e compensazione secondo i principi civilistici; per poi verificare le eventuali e specifiche esigenze di adeguamento implicate dalla loro operatività, anche sinergica, nella riscossione “spontanea” del tributo.

Accollo esterno e stipulazione a favore del terzo: cenni alla disciplina civilistica

Come è noto, ai sensi dell’art. 1273 c.c., l’accollo è l’accordo tra un debitore (accollato) e un terzo (accollante), in forza del quale quest’ultimo assume il debito che il primo ha nei confronti del creditore. L’accollo richiede, in sé, dunque, l’elemento dell’altruità del debito: non deve esservi alcuna contitolarità originaria del debito che viene accollato. L’assunzione del debito altrui mediante accollo, come è noto, può avvenire civilisticamente attraverso due diversi tipi di accordo: accollo interno (o semplice) che deriva da una convenzione interna tra debitore e terzo; in tal caso l’accollo è caratterizzato dal fatto che il rapporto si esaurisce tra accollante ed accollato, senza produrre alcun effetto giuridico nei confronti del terzo creditore. L’accollo avrà, dunque, solo efficacia “interna”. Diversamente da questa prima ipotesi, nell'ordinamento civile vi può essere anche l'accollo esterno, che deriva cioè da una convenzione che produce i suoi effetti anche nei confronti del creditore, il quale ha conseguenzialmente il diritto di agire nei confronti dell’accollante che è, per converso, nei suoi confronti direttamente obbligato. Secondo la disciplina del codice civile, l’accollo con efficacia esterna può essere cumulativo ovvero liberatorio, a seconda che il debitore originario rimanga, oppure no, obbligato in solido con l’assuntore del debito altrui. Il prevalente ed oramai consolidato orientamento, sia della dottrina che della giurisprudenza civile, riconduce tale accordo allo schema generale della stipulazione a favore di terzo (art. 1411 c.c.), ritenendo sussistenti l'interesse del debitore stipulante ed il favor per il terzo; ciò consente, al debitore accollato ed all'accollante, di attribuire un diritto al creditore senza la sua partecipazione alla stipulazione del contratto di accollo. L'adesione del creditore non assume quindi elemento costitutivo della fattispecie, né tantomeno requisito di efficacia, ma rileva piuttosto quale “..dichiarazione di voler profittare e di rendere stabile l’incremento patrimoniale già prodotto a suo favore". Fino a quando il terzo creditore non aderisce alla convenzione, questa può dunque essere revocata o modificata. Se invece il creditore aderisce all'accollo, accetta implicitamente il nuovo debitore nel ruolo di obbligato principale, con la degradazione del debito originario da principale a sussidiario (c.d. beneficium ordinis). È altresì possibile che il creditore rifiuti di aderire alla convenzione stipulata a suo favore; tale scelta dovrà essere manifestata con atto unilaterale, recettizio, eliminativo dell'efficacia esterna della stipulazione e, con essa, dei diritti/obblighi in tal senso scaturiti. Con l'esercizio del potere di rifiutare l'accollo esterno, il creditore consuma altresì il suo potere di aderire alla convenzione, la quale conserva, tendenzialmente, i suoi effetti tra accollato e accollante, quale accollo interno. Così fissate, sia pure per estrema sintesi, le indicazioni sistematiche ricavabili dall'ordinamento civile, può ribadirsi che esse sono in sé "tendenzialmente" rilevanti per le attività “privatistiche” rimesse dalla legge d'imposta al contribuente per l’adempimento spontaneo del tributo, ivi compreso l’accollo del debito d’imposta di cui all’art. 8, co. 2. Ciò detto, occorre dunque volgere la riflessione alla normativa tributaria ed ai suoi principi, al fine di valutare le eventuali esigenze di conformazione/limitazione dell'accollo "civilistico", da essi specificamente implicate.

Accollo esterno del debito d'imposta: ruolo (marginale) dell'eventuale adesione dell'Amministrazione e suo possibile rifiuto

L’accollo “esterno” è stato introdotto nell’ordinamento tributario ad opera dell’art. 8, co. 2, dello Statuto dei diritti del contribuente, che recita: “È ammesso l’accollo del debito d’imposta altrui”, precisando, “senza liberazione del contribuente originario”. Sarebbe assolutamente pleonastica, infatti, tale ultima locuzione legislativa, se si intendesse che l'accollo rilevante in ambito tributario fosse solo l'accollo interno, come tale pacificamente già ammesso da anni.
In virtù di tale disposizione legislativa, dunque, è oggi ampiamente riconosciuta la possibilità di stipulare un accollo esterno del debito d’imposta altrui; senza possibilità, ovviamente, come legislativamente ribadito nell’art. 8, che vi sia la liberazione dell’accollato: questi, infatti, resta in ogni caso soggetto passivo dell’obbligazione tributaria sorta ex lege nei confronti del Fisco. Ebbene, orientando una prima esegesi della norma in esame nell’ambito delle coordinate sistematiche sinora tracciate, può essere ricavata una preliminare operatività dell’accollo esterno in ambito tributario nei termini seguenti. L’accollo esterno del debito d’imposta è “valido” solo se “cumulativo”: il debitore originario (accollato), precisamente, continuerà a rispondere del debito nella sua specifica veste di soggetto passivo dell’obbligazione tributaria e, come tale, rimarrà assoggettato a obblighi e poteri amministrativi previsti dalle leggi d’imposta. Ciò discende dalla specifica indicazione normativa di cui all’art. 8 co. 2, ma è altresì implicato dai principi di capacità contributiva e responsabilità ex lege nell’adempimento del tributo, spiccatamente pubblicistici, nonché costituzionalmente delimitati (art. 23 Cost.); come tali, non derogabili da pattuizioni private. E' quindi da ritenere “sistematicamente” preclusa l’operatività del beneficium ordinis all’accollo esterno del debito d’imposta, pur in assenza di espresse indicazioni normative; in quanto la degradazione da “principale” a “sussidiaria” della responsabilità del contribuente accollato, in virtù di scelta negoziale dei privati, non è compatibile con i principi che sorreggono la qualificazione di soggetto passivo dell’obbligazione tributaria, così come stabilita dalla legge d’imposta. Accanto alla “naturale” responsabilità di origine pubblicistica del “soggetto passivo dell’obbligazione tributaria”, prevista e delimitata ex lege, si affiancherà quindi una responsabilità solidale “civilistica” dell’accollante, direttamente rilevante nei confronti del creditore Fisco in ragione della stipula di un accollo esterno, nonché giuridicamente “limitata” al debito così come scaturente dalla medesima pattuizione di accollo. In tal senso, preferibilmente, è da ritenere altresì coerentemente precluso non solo l’esercizio dei poteri amministrativi di controllo dell’obbligazione accollata rispetto al presupposto del tributo, ma anche di quelli amministrativi di riscossione coattiva nei confronti dell’accollante, ovviamente in assenza di norma tributaria che ne legittimi specificamente l’esercizio.
E’ possibile a questo punto tirare le fila del discorso sin qui condotto, per un verso applicando all’accollo esterno del debito d’imposta le indicazioni ritratte dall’ordinamento di provenienza di tale istituto; per altro verso, conformandone l’utilizzo fiscale in virtù delle esigenze insopprimibili dell’ordinamento tributario, espressamente manifestate ovvero sistematicamente ricavabili. Occorre precisare, in tale guisa, che l’assunzione del debito fiscale in capo all’accollante, con le relative conseguenze in termini di responsabilità patrimoniale di costui nei confronti del Fisco, è effetto scaturente direttamente dalla stipulazione del patto di accollo esterno, in linea con la prevalente dottrina e giurisprudenza civilistica in argomento. L’eventuale adesione dell’Amministrazione creditrice all’accordo, infatti, come già rilevato in termini generali, avrà unicamente l’effetto di rendere stabile e irrevocabile l’incremento patrimoniale già prodotto a suo favore. Laddove invece l’Amm. Fin. intenda eliminare l’efficacia nei suoi confronti dell’accollo esterno, come similmente già chiarito sul piano civilistico, dovrà manifestare il proprio rifiuto con atto unilaterale e recettizio. Ciò implica che la medesima Amm. Fin., ove intenda procedere in tal senso, dovrà farlo necessariamente in modo espresso, non scaturendo alcun effetto, in questo caso, dal silenzio di essa a fronte dell’avvenuta conoscenza di un accollo esterno del debito d’imposta. Come già chiarito, infine, non si avrà alcuna degradazione della responsabilità dell’accollato da principale a sussidiaria, non essendo applicabile in ambito fiscale il beneficium ordinis. Nei termini descritti, l’accollo esterno del debito d’imposta, coerentemente inserito negli schemi (essenzialmente privatistici) della riscossione “spontanea” del tributo, pur manifestando alcune peculiarità, può conservare le caratteristiche fondamentali della stipulazione a favore del terzo codificate sul piano civilistico (favor per il creditore terzo, nonché interesse del debitore accollato - causa solvendi), conformandone unicamente gli aspetti spiccatamente pubblicistici, non rimessi alla libertà negoziale. Ferme, infatti, le prerogative pubblicistiche nei confronti del soggetto passivo dell’obbligazione tributaria, rimane preservato, da un lato, il favor per il terzo creditore, che acquista ulteriori diritti nei confronti dell’accollante, senza perdere alcuna prerogativa (pubblicistica) scaturente ex lege nei confronti dell’accollato; dall’altro lato, pur con le limitazioni descritte, assume altresì rilievo l’interesse del debitore accollato a gestire nel modo patrimonialmente più appropriato l’assolvimento dell’obbligazione tributaria, così come sistematicamente rilevabile, sia pure vagamente, nella rubrica dell’art. 8.

Critica alla tesi che nega "ogni" rilievo giuridico tributario inter partes al debito fiscale accollato in ragione della fonte negoziale e non legale

La qualificazione (civilistica e tributaria) dell’accollo esterno, ex art. 8 co. 2 sin qui delineata, va ora confrontata con i primi argomenti addotti per negare, in via generale, la "compensabilità tributaria" del debito fiscale accollato. Nella risoluzione n. 140/E dell’Agenzia delle Entrate, come già ricordato, è affermato in particolare che la natura di “obbligato negoziale” dell’accollante non consente, di per sé, di considerare tale obbligazione un debito "in essere" tra costui e la parte pubblica sul piano giuridico tributario, come tale compensabile nell'ambito della disciplina recata dall'art. 17, comma 1, D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241. A tal proposito la Risoluzione richiama la sentenza Cass. S.U. n. 28162 del 2008 ove si enuncia che “assumere volontariamente l’impegno di pagare le imposte dovute dall’iniziale debitore non significa «assumere la posizione di contribuente o di soggetto passivo del rapporto tributario, ma la qualità di obbligato (o coobbligato) in forza di titolo negoziale», tanto che l’Amministrazione finanziaria non può esercitare nei confronti degli accollanti «i propri poteri di accertamento e di esazione, che possono essere esercitati solo nei confronti di chi sia tenuto per legge a soddisfare il credito fiscale» (con queste parole Cass. S.U. n. 28162 del 2008)”. A ben vedere, la Risoluzione sovrappone due concetti ben distinti: un conto, cioè, è affermare che la soggezione al potere amministrativo di controllo dell’obbligazione fiscalmente dovuta e di riscossione coattiva della medesima, intimamente legata ad obblighi tributari sorti ex lege, è aspetto non rimesso all’autonomia negoziale; altro è negare tout court, in base a tale assunto, ogni rilievo giuridico “tributario” nei confronti del creditore Fisco, all’obbligazione sorta in virtù di accollo esterno del debito d’imposta, posta in essere ai sensi dell’ art. 8 co. 2. Una tale interpretazione, invero, non discende né dalla ricostruzione civilistica dell’accollo esterno, né tantomeno dalle esigenze di conformazione dell’ordinamento tributario, siano esse espresse ovvero rilevabili sul piano dei principi. Tra l’altro, una simile implicazione interpretativa, diversamente da quanto affermato nella risoluzione n. 140/E, non è manifestata nella sentenza della Cassazione richiamata, né tantomeno pare desumibile dall'iter logico seguito dai giudici. Nella sentenza, infatti, quando si afferma che la qualità di soggetto passivo del rapporto tributario è attribuibile, ex art. 23 Cost., "… solo nei confronti di chi sia tenuto per legge a soddisfare il credito fiscale", lo si fa con chiaro ed univoco riferimento all’esercizio dei poteri (pubblicistici) di accertamento e riscossione dell’obbligazione accollata. È vero, cioè, che dopo aver ribadito la natura di “obbligato (o coobbligato)” verso il Fisco dell’accollante, la sentenza opportunamente precisa “in forza di titolo negoziale”; ma una tale precisazione è lucidamente e specificamente indicata per circoscrivere, all’ambito delimitato ex lege, i poteri pubblicistici cui soggiace il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria, sottraendo da essi l’accollante con specifico riferimento alla responsabilità patrimoniale per il debito accollato negozialmente; nulla peraltro è detto dai giudici sulla compensabilità di tale debito. Conclusivamente sul punto, la fonte negoziale del debito accollato non può interferire con prerogative spiccatamente pubblicistiche, per un verso limitandole nei confronti del soggetto passivo accollato, per altro verso estendendole nei confronti dell’accollante. Da tali assunti, peraltro, non è coerentemente ricavabile alcuna preclusione generale alla compensazione spontanea del debito fiscale accollato.

Le norme sulla compensazione fiscale quali norme eccezionali recanti attuazione atipica del principio generale di compensazione

Dall’indagine sin qui condotta in tema di accollo esterno del debito d’imposta, non sono quindi emersi argomenti idonei a sorreggere una preclusione “generale” alla compensabilità del debito d’imposta accollato, con particolare riguardo alle ipotesi riconducibili all'adempimento spontaneo del tributo. Occorre verificare, a questo punto, se una tale preclusione discenda invece dalla disciplina concernente la compensazione dei debiti tributari. Coerentemente con la linea d’indagine indicata, si premettono alcuni brevissimi cenni all’istituto civilistico. È utile ricordare che l’istituto della compensazione quale modalità estintiva dell’obbligazione, trova generale disciplina nel diritto comune ai sensi degli articoli 1241 e seg. del c.c. “Quando due persone sono obbligate l'una verso l'altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti, secondo le norme degli articoli che seguono”. Presupposto essenziale perché vi sia compensazione, come già accennato, è dunque la coesistenza e reciprocità di debiti e crediti fra le parti. Tale istituto, riconducibile ai modi satisfattori di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, rivolge tradizionalmente la sua funzione economica “ad esigenze di speditezza e di semplicità, giacché con essa si evitano inutili spostamenti di moneta”. Conclusivamente sul punto, sia pur con la dovuta semplificazione, può dirsi assodato nel diritto civile un principio che riconosce la compensazione (legale) quale modalità di estinzione, ampia ed "applicativamente" generalizzata, delle obbligazioni di crediti (e debiti) reciproci che siano certi, liquidi ed esigibili, di natura satisfattoria pur se diversa dall’adempimento. Ferme le line concettuali della compensazione così come definite nella disciplina codicistica, è peraltro significativamente diverso il ruolo e l’operatività di tale istituto nell’ordinamento tributario, in ragione delle sottese esigenze pubblicistiche.
In un approccio tradizionale, infatti, antecedente all'emanazione dell'art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, la tendenziale inapplicabilità della compensazione ai debiti fiscali è stata essenzialmente affermata in ossequio ad un approccio “rigidamente” fondato sulla natura pubblica ed indisponibile dell’obbligazione tributaria. Si negava cioè “radicalmente” l'esistenza di un principio generale di compensazione in ambito tributario, in speculare contrapposizione con i principi vigenti nel codice civile. Su tale assunto si è dunque inizialmente radicata la natura eccezionale delle norme che prevedono la compensazione di crediti e debiti tributari, quali deroghe, cioè, ad un principio dell'ordinamento tributario esattamente contrapposto. La prospettiva del dibattito è inevitabilmente mutata con l’entrata in vigore dell’art. 8 co. 1, della L. n. 212/2000, laddove tale disposizione afferma espressamente una "generale" compensabilità dell’obbligazione tributaria. La medesima norma, tuttavia, come è noto, ha rimesso la disciplina di dettaglio a successive norme esecutive, mai emanate. La discussione si è dunque essenzialmente incentrata sulla natura “programmatica” della disposizione recata dall’art. 8 co. 1, come tale recante un principio sostanzialmente “inattuale” fintantoché non siano emanate le disposizioni esecutive; ovvero sull’immediata precettività della medesima disposizione, essenzialmente nel senso di una possibile integrazione analogica della disciplina tributaria in tema di compensazione con le disposizioni del codice civile, in quanto compatibili.
Tale incertezza ha coinvolto anche la giurisprudenza, con orientamenti della Cassazione che, talvolta, hanno affermato la piena e generalizzata applicazione dei principi civilistici sulla compensazione in ambito tributario; talaltra, pronunciandosi in senso radicalmente diverso, hanno ribadito la rigorosa tassatività ed eccezionalità delle norme tributarie sulla compensazione. Non è possibile, per le finalità del presente lavoro, esaminare funditus tutte le implicazioni e le problematiche sulla compensazione tributaria. È invece opportuno consolidare alcuni assunti sul piano dei principi, direttamente rilevanti per l’argomento qui indagato. Ferma la relatività del concetto di norma eccezionale, è importante stabilire se la normativa sulla compensazione dei debiti tributari sia ancora oggi effettivamente qualificabile come "...norma che non sia riconducibile ai principi generali o fondamentali dell'ordinamento giuridico, ma anzi che faccia eccezione ai principi, o sia in contrasto con essi". È (solo) in tale accezione, infatti, che il concetto di "norma eccezionale", al di là del divieto di interpretazione analogica contenuto nell'art. 14 delle Preleggi, è abitualmente utilizzato quale argomento per sostenere interpretazioni restrittive della littera legis, trattandosi di norme tendenzialmente "inidonee" a consolidare principi. Sensibilmente diversa è, invece, sul piano dei principi generali del diritto, l’ipotesi in cui la norma, pur se definibile eccezionale, non lo è in quanto opera in difformità e contrasto con il principio generale, ma in quanto ne regola un'attuazione atipica. In questa accezione, infatti, la norma eccezionale è strettamente legata al contesto attuativo di riferimento; per cui, pur essendo preclusa la sua integrazione analogica per il tramite di norme o disposizioni poste fuori da esso, la medesima norma “eccezionale” è al contempo ordinariamente interpretabile all’ “interno” del proprio ambito, persino estensivamente o analogicamente. Ebbene, una volta chiarita tale distinzione, la natura delle norme tributarie sulla compensazione pare chiaramente riferibile a quest'ultima tipologia di norme eccezionali, piuttosto che alla prima. Un tale assunto, in effetti, è desumibile già dalla formulazione letterale dell’art. 8 L. n. 212/2000, se apprezzata in ragione della strutturazione complessiva di tale disposizione, con particolare riguardo ai co. 1 e 8 in tema di compensazione. In primo luogo, attribuendo il giusto rilievo al disposto del co. 1, formulazione espressiva della chiara volontà di introdurre un “principio” immediatamente vigente nell’ordinamento tributario, coerentemente con le finalità dell’intero art. 8 dello Statuto, piuttosto che avente natura meramente programmatica. In secondo luogo, cogliendo la ratio sottesa all’indicazione contenuta nel co. 8, piuttosto che discettare sulle conseguenze della sua specifica esecuzione o meno; quale espressa manifestazione legislativa, cioè, dell'esigenza che il principio di compensazione stabilito in via generale dal co. 1 (anche) per l’obbligazione tributaria, sottenda necessariamente un'attuazione "atipica" in tale ambito, nel senso precisato sul piano dei principi generali del diritto.

Conferme e coerenti implicazioni derivanti dalla precisata natura eccezionale delle norme tributarie sulla compensazione

Una volta tendenzialmente ricondotta la normativa tributaria sulla compensazione alla tipologia di norme eccezionali recanti attuazione atipica al principio generale di compensazione, possono essere esaminati i diversi argomenti formulati sull’argomento, per consolidare la ricostruzione prospettata, nonché per derivarne le coerenti implicazioni sul piano della compensabilità dei debiti accollati. In tal senso, affermare che il “principio di compensazione” è “...vigente nell'ordinamento tributario...” ai sensi dell’art. 8 co. 1, non implica affatto la diretta applicabilità della disciplina codicistica per consentire tramite essa l’integrazione analogica delle norme tributarie sulla compensazione. Una tale opinione, infatti, pure se coglie condivisibilmente la valenza della compensazione quale principio generale "vigente" nell'ordinamento tributario, non pare tuttavia compatibile con le esigenze di attuazione atipica di esso, che sorreggono nel senso già chiarito la tassatività della disciplina prevista in tale ambito. Tale implicazione, coerentemente ritratta dalla prospettata qualificazione sul piano dei principi generali e dall’art. 8 nel suo insieme, è altresì confortata dalle “cautele” legate all’acquisizione/gestione di somme immediatamente rilevanti sul piano pubblicistico, le cui movimentazioni sono tra l’altro esponenzialmente moltiplicate nell’ambito di una fiscalità di massa. Le accennate cautele, probabilmente, sono alla base del revirement della medesima Suprema Corte, che, modificando l'opinione più aperta all’ingresso dei criteri civilistici per colmare le "lacune" della disciplina tributaria, ha espresso un diverso orientamento a favore della “tassatività” delle ipotesi di compensazione dei debiti tributari, attualmente maggioritario. Il più recente orientamento giurisprudenziale, per le ragioni già dette, si reputa essenzialmente condivisibile per le conclusioni cui giunge; ciò, peraltro, nel limitato senso di negare l’integrazione analogica delle norme sulla compensazione tributaria con le regole del diritto civile, in quanto estranee all’ambito di attuazione (atipica) di tale principio, che è appunto strettamente rimesso al contesto tributario. Ma, è bene ribadirlo, da una tale affermazione non discende, sul piano sistematico, né la negazione della compensazione quale “principio generale” attualmente vigente nell'ordinamento tributario, degradando da precettiva a meramente programmatica la disposizione di cui all’ art. 8 co. 1, L. n. 212/2000. Né tantomeno, conseguentemente, la qualificazione della disciplina tributaria come "eccezionale" nel senso di norma in contrasto con un principio generale contrapposto, come tale da interpretare restrittivamente anche all’interno del proprio ambito. Una tale denegata accezione, a mio avviso, condurrebbe infatti l’orientamento in questione non solo chiaramente contra legem rispetto all’art. 8, ma bensì in contrasto con consolidati assunti di teoria generale del diritto. Conclusivamente sul punto, va esclusa la diretta applicazione dei criteri civilistici per ampliare analogicamente la normativa che regola le modalità di compensazione tributaria, in quanto espressiva di ipotesi “applicative eccezionali”, recanti attuazione atipica di tale principio all’interno del proprio specifico contesto. Coerentemente con tale qualificazione, peraltro, a tale normativa andranno applicati gli ordinari criteri di interpretazione, ivi compreso, eventualmente, quello di integrazione analogica, purché coerentemente consolidati all’interno del proprio peculiare ambito applicativo. Tutto ciò rilevato, dalla tassatività delle disposizioni sulla compensazione tributaria, una volta correttamente qualificata l’ “eccezionalità” delle medesime, non si ricava alcun argomento in sé idoneo a sostenere un “divieto generale” di compensazione dei debiti fiscali accollati. Precisamente, un tale divieto potrà essere desunto solo ove le modalità di compensazione “tassativamente” previste dalla normativa tributaria vigente, interpretate ordinariamente all'interno del proprio peculiare ambito applicativo, precludano, ex se e specificamente, la compensazione dei debiti fiscali accollati. L'indagine sin qui svolta, quindi, andrà conclusivamente riferita a tale disciplina applicativa, con particolare riferimento all'art. 17 comma 1, del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, quale norma di riferimento sulla compensazione nell’ambito della riscossione spontanea del tributo.

La compensazione ex art. 17, comma 1, del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241: la “tassatività” non preclude l’applicazione dell'istituto ai debiti fiscali accollati

Con riguardo all’operatività dell’istituto della compensazione in ambito tributario, sono numerose le disposizioni specifiche che ne hanno via via concretamente disciplinato una sempre più ampia applicabilità. Tra le specifiche disposizioni in tema di compensazione, indubbiamente, merita particolare attenzione l’art. 17, comma 1, del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, ipotesi di ampissima applicazione pratica. Con tale norma, come è noto, il legislatore tributario, nell’intento di semplificare e razionalizzare il sistema dei versamenti spontanei delle imposte dirette e dei contributi previdenziali, ha previsto la possibilità per il contribuente di eseguire “versamenti unitari delle imposte, dei contributi dovuti all'INPS e delle altre somme a favore dello Stato, delle regioni e degli enti previdenziali, con eventuale compensazione dei crediti, dello stesso periodo, nei confronti dei medesimi soggetti”. Si è rilevato che l’Agenzia nella Ris. n. 140/E ravvisa nell’espressione normativa “…nei confronti dei medesimi soggetti” un argomento contrario alla compensabilità dei debiti accollati, in quanto debiti “altrui”. Già ad una mera lettura testuale, peraltro, si rileva che l’assunto “nei confronti dei medesimi soggetti” denota una specifica delimitazione dei “soggetti pubblici” delle obbligazioni debitorie e creditorie (Stato, regioni ed enti previdenziali) nei confronti dei quali è ammessa la compensazione ex art. 17, e non certo uno specifico limite alla compensabilità di debiti fiscali accollati dai soggetti “privati”. In tale specifica accezione, tra l'altro, come ampiamente ribadito in dottrina, la formulazione in questione non esprime una restrizione “atipica” rispetto all'attuazione della compensazione secondo i criteri civilistici, ma piuttosto un “peculiare” ampliamento. Al di là dell’interpretazione letterale e preliminare già data, l’assenza di preclusione alla compensabilità dei debiti accollati può essere confermata anche dalla ratio complessiva di tale disposizione, con particolare riferimento alle "cautele" che caratterizzano il consolidamento applicativo del principio di compensazione ivi rinvenibile. Da una disamina dell’art. 17 e della normativa ad esso collegata, tralasciando i vincoli “strettamente” procedurali, si rilevano:

  • per i “debiti ed i crediti fiscali,” una tassativa elencazione delle ipotesi tipologiche (imposte sui redditi e relative addizionali, Iva, ecc.) per le quali può essere utilizzata questa procedura (e con essa la compensazione ivi prevista), estesa anche a debiti verso enti previdenziali (comma 2);
  • per i (soli) “crediti” utilizzabili in compensazione, ulteriori e stringenti limitazioni: o quantitative (“qualora il credito di imposta utilizzato in compensazione risulti superiore all'importo previsto dalle disposizioni che fissano il limite massimo dei crediti compensabili ai sensi del presente articolo, il modello F24 è scartato”) – art. 17, comma 2-ter); o temporali (a decorrere dal giorno 10 successivo a quello di presentazione della dichiarazione ex art. 17, comma 1 D.lgs. n. 241/97); o formali (visto di conformità sulla dichiarazione dalla quale emerge il credito da utilizzare in compensazione ex art. 1, comma 574, l. n. 147/13). Al di là di ogni ulteriore approfondimento, per il quale si rinvia alla dottrina citata nelle precedenti note, può quindi affermarsi che le regole di “attuazione atipica” proprie dell’istituto della compensazione fiscale ex art. 17, si caratterizzano essenzialmente nei termini seguenti: in primo luogo, una puntuale specificazione tipologica dei debiti e crediti ammessi (fiscali, previdenziali, ecc), da cui deriva l’esclusione di tutte le tipologie non ammesse; in secondo luogo, stringenti limitazioni quantitative e procedurali concernenti i “crediti” utilizzabili dal contribuente per compensare i debiti tipologicamente ammessi. È il caso di precisare, peraltro, che neppure rispetto alle “posizioni creditorie” utilizzabili in compensazione, destinatarie di stringenti e peculiari limitazioni, sussiste un limite assoluto e generale all’utilizzo in compensazione, ex art. 17, di crediti acquisiti da altri soggetti, purché effettuata nel rispetto della normativa tributaria vigente. Non è dunque rilevabile, da tale disciplina, né espressamente né in base alla ratio, alcun criterio interpretativo da cui desumere una “restrizione” della compensazione fiscale ai soli rapporti obbligatori sorti originariamente in capo al contribuente, con conseguente preclusione generale alla compensabilità “spontanea” dei debiti fiscali accollati.

Conclusioni

I risultati dell'’indagine sin qui condotta, consentono di formulare le seguenti sintetiche conclusioni. L’accollo esterno del debito d’imposta, cui è riferibile la disposizione di cui all’art. 8 co. 2 dello Statuto, è validamente applicabile nell’ordinamento tributario. Tale istituto, ammesso dal Legislatore tributario solo nella forma di accollo cumulativo, trova la propria giustificazione nella finalità di valorizzare, accanto alla “pregnante” e tradizionale finalità pubblicistica del creditore, le esigenze patrimoniali (privatistiche) del contribuente. In tal senso, l’istituto è essenzialmente riconducibile alle attività rimesse al medesimo contribuente per l’adempimento spontaneo del tributo, ambito nel quale trovano infatti maggiore applicazione i principi civilistici, fatte salve esigenze specifiche di adeguamento alla finalità pubblica. Percorrendo tale linea d’indagine, si è delineato l’accollo esterno del debito fiscale in linea con i consolidati orientamenti della dottrina e della giurisprudenza civililistica: esso va quindi ricondotto alla stipulazione a favore del terzo, qualificabile in termini di pattuizione bilaterale tra accollante e accollato, rispetto alla quale l’adesione del creditore non rappresenta né elemento perfezionativo né requisito di efficacia, determinando essenzialmente l’irrevocabilità del patto nei suoi confronti. Il rapporto obbligatorio tra accollante e creditore (Fisco), viene quindi in essere in seguito alla stipulazione bilaterale tra accollato e accollante, a prescindere dall’adesione dell’Amministrazione. Laddove invece l’Amministrazione intenda negare l’efficacia nei suoi confronti dell’accollo, dovrà manifestare espressamente il proprio diniego con atto unilaterale recettizio, non assumendo specifico rilievo giuridico l’eventuale silenzio. Non si reputa invece applicabile all’accollo del debito fiscale il c.d. beneficium ordinis, laddove le prerogative pubblicistiche sorte ex lege nei confronti del soggetto passivo del tributo, poi debitore accollato, non paiono limitabili in ossequio a finalità negoziali dei privati, pur se perviene l'adesione dell'Amministrazione. Così definito l’istituto in questione, sono stati esaminati i principali argomenti utilizzati per negare, in termini generali, la compensabilità dei debiti fiscali accollati.
1o argomento: l’accollante è coobbligato verso il fisco in virtù di titolo negoziale e non ex lege; si è chiarito che la fonte negoziale del debito accollato non può interferire con prerogative spiccatamente pubblicistiche, per un verso limitandole nei confronti del soggetto passivo accollato, per altro verso estendendole nei confronti dell’accollante. Da tali assunti, peraltro, non è coerentemente ricavabile alcuna preclusione generale alla compensazione spontanea del debito fiscale accollato.

  • 2o argomento: in ambito tributario è tuttora vigente un divieto generale di compensazione, rispetto al quale le ipotesi applicative vanno interpretate tassativamente e restrittivamente, alla stregua di norme eccezionali che derogano un principio generale contrapposto; diversamente si è rilevato che un tale assunto, ove neghi la vigenza, anche nell'ordinamento tributario, del principio generale di compensazione, si pone inevitabilmente in contrasto con le previsioni recate dall'art. 8 co. 1 e 8, L. n. 212/2000; è invece sistematicamente compatibile la vigenza del principio di compensazione, anche in ambito tributario, con la tassatività delle modalità applicative ivi previste; in tal senso, la normativa fiscale sulla compensazione va intesa quale normativa eccezionale recante attuazione atipica del "principio generale" di compensazione. Ciò implica che le disposizioni de quibus, in linea con i principi generali del diritto, non possono essere integrate con norme e principi estranei al proprio ambito; mentre all’interno di esso, sono interpretabili ordinariamente. Ciò detto, dalla delineata eccezionalità delle norme sulla compensazione tributaria non si ricava, ex se, alcun divieto alla compensabilità dei debiti accollati. Un tale divieto, cioè, potrà essere affermato solo ove discenda dall’interpretazione “ordinaria” delle norme sulla compensazione tributaria.
  • 3o argomento: l’art. 17, comma 1, del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, quale norma di riferimento per la compensazione in ambito tributario, esprime una stringente limitazione della compensazione sul piano soggettivo, che esclude l’applicabilità di tale istituto ai debiti accollati in quanto debiti altrui; diversamente, si è dimostrato che le limitazioni specifiche e la ratio di tale normativa, al di là della tassatività "tipologica" di debiti e crediti ammessi, sono essenzialmente incentrati sui crediti tributari compensabili e non sui debiti, non sussistendo, neppure per tale verso, preclusioni alla compensazione dei debiti accollati, purché tipologicamente ammessi. Conclusivamente, fermi i profili di complessità della questione, si reputa che la compensazione dei debiti tributari accollati ex art. 8, comma 2, L. n. 212/2000, fatto salvo il rifiuto espresso dell’Amministrazione, è “validamente” effettuabile dall’accollante, purché realizzata nel rispetto delle modalità previste dalla normativa civilistica e tributaria di riferimento. Al di là, ovviamente, come già detto sin dalle premesse, di ipotesi "concretamente" riconducibili a fenomeni simulatori o fraudolenti, eventualmente rilevanti anche al fine di integrare il reato di indebita compensazione di cui all'art. 10-quater D.Lgs. n. 74/2000, al cui approfondimento non è stata indirizzata la presente indagine.

Prof. Avv. Stefano Fiorentino, Ordinario di Diritto Tributario Università Parthenope di Napoli - Avvocato tributarista cassazionista

Postilla

Quando il presente lavoro era già avviato alla fase di stampa, è stato emanato l’art. 1 del DL 26 ottobre 2019 n. 124, che recita testualmente: (comma 1) “Chiunque, ai sensi dell’art. 8, comma 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212, si accolli il debito d’imposta altrui, procede al relativo pagamento secondo le modalità previste dalle diverse disposizioni normative vigenti”; (comma 2) “Per il pagamento, in ogni caso, è escluso l’utilizzo in compensazione di crediti dell’accollante”; omissis. Il contenuto dell’elaborato non considera l’entrata in vigore di tale disposizione che introduce, in virtù di espressa indicazione “legislativa”, un divieto generale di compensazione dei debiti fiscali accollati. In merito a tale ultima disposizione, saranno sviluppate alcune riflessioni direttamente in occasione della relazione congressuale, anche in ragione delle indicazioni formulate dall’UNCAT. Ciò nondimeno, non si reputano venute meno le ragioni del lavoro così come originariamente concepito. Tutte le (numerose) questioni sorte prima dell’emanazione della recentissima norma, infatti, non essendo regolate dalla nuova disposizione, dovranno essere risolte “interpretando” la normativa precedente, così come esaminata nell’elaborato. Per altro verso, con rilievo ancora maggiore ai fini di una pubblicazione di tipo scientifico, l’indagine così come svolta si reputa utile per rimarcare la differenza tra i compiti del legislatore, cui competono le scelte di politica fiscale e la relativa responsabilità, e quelli dell’interprete, i cui assunti di “verità giuridica” acquistano “forza” solo in quanto “effettivamente” legati a principi e rigore metodologico.

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